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La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit) è la miniserie televisiva distribuita su Netflix lo scorso ottobre che ha fatto andare tutti letteralmente fuori di testa. Ovunque si leggevano opinioni estasiate e spettatori coinvolti da questa narrazione così forte, così “femminista”.

Motivatamente? Partiamo dal principio: la serie si basa sul romanzo omonimo del 1983 di Walter Tevis. La versione televisiva invece è creata da creata da Scott Frank e Allan Scott. Due uomini alla “guida” di una donna, due uomini a raccontarne la storia.

Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che questo sguardo prevalentemente maschile è preponderante, tanto che al “motivatamente” di qualche riga fa risponderei: se vi piacciono gli outfit storici curati e il clichè di genio e follia incarnati in un’esile e sconclusionata giovane donna, perché no. Se invece non vi accontentate di questo vi spiego chi è Elizabeth e vi lascio 5 motivi per capire che La Regina degli Scacchi è scritto e realizzato da uomini, e di femminista ha solo movenze illusorie.

Chi è Elizabeth Armon

Elizabeth Harmon/Beth (Anya Taylor-Joy) è la protagonista che ha incantato tutti: bambina problematica, destinata ad aver paura che il passato della madre si incarni in lei, poi donna perlopiù odiosa, spigolosa. Ma anche geniale, sebbene destinata a fallire secondo l’opinione comune. I suoi cambi d’umore altalenanti sono scosse narrative che non si assestano mai, e l’ordine viene quasi sempre ristabilito da una squadra di maschietti che fa il tifo per lei. Positivi, affezionati, attenti uomini che peccano di egocentrismo, è vero, ma che non la lasciano mai a sé stessa.

Continuano a ripetermi che una serie in cui una donna rivoluziona un universo così settoriale e maschile è un messaggio positivo per il genere, eppure io continuo a guardare un percorso costellato di difficoltà in cui il suo genio brilla, ma sono comunque gli uomini a fare la differenza. E queste cinque motivazioni sono scisse ma collegate, sono dettami narrativi sbagliati che mi raccontano un “essere donna” che dovrebbe darmi forza e invece, mi fa infuriare.

Se non volete spoiler non proseguite oltre.

1 – Inatteso ciclo mestruale

Nel secondo episodio de La regina degli scacchi c’è un evento legato alla messa in scena della femminilità, e a come una donna, in questo caso Elizabeth, affronta le prime sfide importanti della sua esistenza. Dopo essere stata adottata da una coppia (riccamente e banalmente disfunzionale) riesce a partecipare al primo torneo importante. La giocatrice dopo vari sfidanti si trova a fronteggiare un ragazzo che ha da subito attirato la sua attenzione e, nonostante sia evidente che le piaccia, lo batte in poco tempo.

La regina degli scacchi – Netflix

Ma senza godersi la vittoria viene assalita da dolori lancinanti e, in bagno, si accorge che un rivolo di sangue le percorre la coscia. È l’arrivo inatteso del ciclo mestruale, che torna a ricordarle che va bene gioire di aver vinto ma è meglio tenere a mente chi è e quanto sia diversa dal resto degli scacchisti.

2 – Anaffettività totale

Alla base di una confusionaria narrazione dove nulla torna e i personaggi agiscono in maniera totalmente inaspettata e irritante c’è una scrittura approssimativa. Per Beth il cocktail di inesattezze logiche si concentra in particolare nel suo carattere freddo e nella sua indole anaffettiva. Eredità lasciata dalla sua vera mamma suicida? Fatto sta che in qualsiasi situazione Beth è quasi esente da reazioni, solo gli scacchi la emozionano, non l’amicizia, il sesso, i viaggi.

Intorno a lei una serie di personaggi vengono annebbiati e dimenticati per lunghi tempi (come il Signor Shaibel, l’uomo che le insegna a giocare e che sparisce praticamente fino alla conclusione). Ma, come gli autori hanno deciso per la loro protagonista, basta un niente per ribaltare la situazione.

Durante i tornei in giro per il mondo, la ragazza viene accompagnata dalla madre adottiva con cui non stabilisce nessun tipo di legame profondo: parlano di denaro, di uomini, si scolano una birra insieme ma di sicuro non si può dire che le  “voglia bene”. Gli scacchi sono la cosa più importante. Beth la troverà morta, nella camera d’albergo, al ritorno da una delle sue sfide. Non batterà ciglio ma sfrutterà la “scusa” del lutto per giustificare i suoi comportamenti sconclusionati.

Ed esattamente come dalla madre biologica ha apparentemente ereditato il genio e la “follia”, da quella adottiva prende la routine e la frustrazione di un mix di dipendenza dagli uomini e dagli psicofarmaci.

3 – Storie di dipendenze

Tutta la serie ci racconta delle dipendenze che affliggono le donne rappresentate. Beth viene tenuta a bada, come tutte le altre bambine dell’istituto dove passa gran parte dell’infanzia, a suon di mega pillole tranquillanti. Quelle pillole le servono per placare il dolore, ma anche per contenere ed indirizzare il suo genio. Si aggiunge anche l’alcol, immancabile antidoto nella vita quotidiana di una casalinga degli anni ’50. Beth inizia a bere, è sregolata e non ha freni. Questo è femminismo? Direi proprio di no, soprattutto se a riportarla in carreggiata sono sempre ed immancabilmente figure maschili dotate di candida bontà.

La giocatrice si ubriacherà anche a Parigi, durante il torneo più importante della sua vita, per farsi additare ancora una volta come l’unica donna, instabile e volubile, che gioca a scacchi contro gli uomini (sempre incredibilmente lucidi e posati).

4 – La femminilità non è solo contraddizione

Beth non si sente a suo agio con le compagne di classe, quando è ancora una bambina, e scappa da una serata tra ragazze perché non ha nulla in comune con loro. Ballare, mettersi in mostra, non è da lei che concentra il suo tempo solo su tattiche di gioco.

Beth è la stessa ragazza che si fa trascinare in una serata studentesca, qualche anno dopo, per fumare erba e bere con un tipo sconosciuto e perdere la sua verginità. E che, svegliandosi a casa di sconosciuti, in preda al brivido di questa indipendenza “forzata”, si fa una canna, balla in mutande tra vinili e libri a terra. “Gli scacchi non sono poi tutto nella vita”, le dice la madre adottiva al telefono. E ancora una volta il personaggio cambia le carte in tavola.

Beth vuole stare sola, ma è così triste dopo una cena in compagnia di sé stessa che torna ad ubriacarsi, rigorosamente in lingerie. E si reca disperata e in post-sbornia ad un torneo nel 1968 con trucco nero ed occhialoni scuri, dove incontra una ragazza (che aveva giocato contro di lei molto tempo prima) che la ringrazia per avercela fatta, per averlo fatto per loro (inteso come genere femminile). La reazione sgradevole e lo sguardo di vetro sono una risposta più che sufficiente per trasmettere ancora una volta questa teatrale anaffettività che stanca per la retorica e annoia con la sua scontatezza.

La regina degli scacchi – Netflix

5 – La dipendenza dagli uomini

Beth Harmon non è indipendente ma dipende in tutto e per tutto dagli uomini che la circondano. O meglio, il suo destino è legato al loro agire sulla sua vita. Ed è evidente nell’ultimo episodio. In vista del torneo più importante, quello in cui Beth dovrà battere il campione russo Borgov. Un gruppo di premurosi ex, amici, conoscenti, corre in suo aiuto. La adorano, è evidente, nonostante il caratteraccio ostentato con loro per tutta la serie. Pronti al telefono a suggerirle mosse vincenti ci sono il bel Townes, omosessuale affascinato dalla ragazza, Harry Beltik (Harry Melling), innamorato di lei e trattato come un inutile accessorio, Benny, con cui ha fatto sesso ma poi non ha più chiamato, se non in un momento in cui le serviva non rimanere sola. A loro si aggiungono scacchisti incontrati durante le partite, ammiratori entusiasti del talento della ragazza.

Tutto quel genio e quel talento si accompagnano ad una risoluta freddezza che gela qualsiasi individuo ci entri in contatto, maschile o femminile. E questa aura di abiti alla moda e distacco sexy sono i punti cardinali dello sguardo di un uomo posato sulle sorti di una donna. Quindi non credeteci, perché sono certa che i creatori si rivedono proprio in quegli uomini gentili, pronti a far emergere una ragazza che li ha trattati male, facendola diventare la regina di un mucchio di bugie.

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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