Non era Nanni Moretti l’unico italiano a Cannes, con Tre piani, quest’anno: A Chiara di Jonas Carpignano è stato infatti presentato nella Quinzaine des Réalisateurs, vincendo il Label Europa Cinema. Ed è attraverso il prestigioso premio, comune ai più grandi festival del continente, che ha ottenuto la distribuzione europea, oltre a quella italiana con Lucky Red, dal 7 ottobre in sala.
A Chiara è una storia di crescita e quindi di scelte. È la storia di una famiglia, di un ambiente, di un microcosmo osservato da molto vicino, fino a esserne assorbiti. È un film che parla di mafia, ma non sulla mafia, una storia da scoprire strato dopo strato, così come fa Chiara stessa, ricercando la verità.
Il microcosmo della famiglia Guerrasio
Chiara Guerrasio ha quindici anni ed è la seconda di tre sorelle, tra la diciottenne Giulia e la bambina Giorgia. È in un’età di mezzo, ancora troppo immatura per capire molte cose, ma abbastanza consapevole di sé e dei propri desideri. Il mondo le crolla addosso quando, in piena notte e dopo un’importante festa in famiglia, il padre Claudio sparisce nel nulla. Scopre così, all’improvviso e attraverso i notiziari, l’affiliazione della sua famiglia alla ‘ndrangheta, nello stesso momento in cui si accorge di aver di fatto perso l’amatissimo padre, ormai latitante.
È un doppio shock. Chiara fa i conti con il mito della figura genitoriale, sgretolato da una realtà che non aveva mai voluto nemmeno sospettare. Contemporaneamente soffre l’esclusione dalle dinamiche interne alla famiglia, sia perché donna, sia soprattutto perché troppo giovane.
Rimane così sola e isolata, protagonista indiscussa del film, nella sua costante e instancabile ricerca di risposte. Quel che desidera realmente è un ultimo, decisivo, confronto con il padre. Un ultimo sguardo, di amore e rabbia, che è la chiave di volta dell’intero film. Non si tratta, infatti, di osservare la ‘ndrangheta al microscopio, né raccontarne direttamente le azioni: A Chiara è la dedica alla forza di una ragazza che ha il coraggio di andare avanti, pur sentendo tutto l’insopportabile peso delle decisioni prese. Pur amando con tutta se stessa la famiglia in cui è cresciuta, ma in cui – per il Tribunale – non può restare.
Non è un saggio di antropologia mafiosa, come fu Quei bravi ragazzi di Scorsese (mentore dello stesso Carpignano), ma il racconto di un contesto sociale attraverso una storia piccola e circoscritta, ma comune a molti. Come è il regista stesso ad affermare:
Penso che l’unico modo di raggiungere l’universale sia di essere precisi, intimi e
locali.
In A Chiara Carpignano mette in scena la ricerca della “propria bussola morale”, elemento che accomuna anche i suoi lungometraggi precedenti: Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017). Insieme, questi film costituiscono una trilogia nata in divenire, ossia non progettata ma frutto del decennio trascorso dal regista a Gioia Tauro (RC).
Jonas Carpignano e la trilogia di Gioia Tauro
Jonas Carpignano è un regista anomalo nel panorama italiano. Nato nel Bronx, da padre italiano, e formatosi negli Stati Uniti, ha poi focalizzato quasi l’intera sua produzione nel racconto microscopico di Gioia Tauro, città sede di un grande porto europeo in provincia di Reggio Calabria. È un luogo di transito, ormai ben conosciuto per le operazioni di narcotraffico mafiose, eppure il racconto della ‘ndrangheta arriva solo come terzo capitolo. Carpignano racconta prima i migranti africani (Mediterranea), poi i rom stanziati nel quartiere della Ciambra. Infine chiude il ritratto di questa fetta, specifica ma anche globale, di umanità raccontando la pressione economica della criminalità organizzata sulla gente comune. Riesce però a trattenere tutto insieme, facendo intravedere anche i suoi protagonisti precedenti nella storia di Chiara.
La differenza, questa volta, è che non racconta una storia vera, ma inserisce una vera famiglia in una cornice narrativa fittizia. Chiara Guerrasio in realtà è la (sorprendente) Swamy Rotolo, ma è davvero la sua famiglia – Claudio, Carmela e le sorelle Grecia e Giorgia, insieme a tutti i parenti e amici – quella che vediamo sullo schermo. Interpreti, non professionisti, che per scelta del regista recitano sempre senza copione. Lo stile di Carpignano rimane anche in questo caso quello immersivo dell’osservatore partecipante. Vive dentro le comunità che rappresenta e si lascia guidare dalle reali relazioni che si creano tra le persone, non tra i personaggi. Al contempo rifiuta la definizione stretta di documentario, sfociando nel sogno e nella creazione onirica e immaginifica di alcune sequenze.
La costante presenza di Carpignano, dentro e fuori dal set, fa sì che nei suoi film si trovi un’autenticità pura che deriva dalla capacità di rendere trasparente la macchina da presa e al tempo stesso plasmare lo spazio e il tempo secondo una precisa visione, un preciso progetto. È qualcosa che si può comprendere solo guardando con i propri occhi il suo cinema.
Linguaggi, codici e metafore di A Chiara
Un’evidente conseguenza di questo particolare stile registico è la capacità di Carpignano di decodificare anche i più sottili messaggi verbali e non verbali dei gruppi rappresentati. Non solo, cioè, A Chiara è in gran parte recitato nel dialetto quotidiano della Piana di Gioia Tauro, ma vi si riconosce anche un insieme di atti significanti che, forse, solo chi conosce bene il contesto comprende a primo impatto. Elementi che il regista lascia intatti, senza schiuderli o approfondirli: apparentemente superflui o indecifrabili, tranne per chi già li conosce e li sa leggere.
L’intera sequenza della festa iniziale, ne è un magnifico esempio. Un gioco di sguardi, di potere e di controllo, su più fronti, che a un occhio distratto (o non calabrese) potrebbe sembrare solo un infinito battibecco per un semplice brindisi.
Ci sono gesti e non detti, immagini metaforiche persino, verso cui il film porta il pubblico senza bisogno di diventare didascalico. Come quando [spoiler], dopo essere fuggita dagli assistenti sociali e aver dimostrato sia la sua risolutezza nel voler trovare la verità sia la fedeltà alla famiglia, Chiara torna al bar del cugino Antonio. Sostiene il suo sguardo e senza pronunciare nemmeno una parola, prende il caffè, fino a quel momento riservato agli adulti: un minuscolo rito di passaggio, che sancisce il suo cambio di status, la sua crescita irreversibile nell’arco di pochi giorni.
È quello il momento in cui crediamo che abbia compiuto una volta per tutte la sua scelta, per poi sorprenderci ancora. Chiara è infatti una figura mediana, a cavallo tra l’innocenza pura dell’infanzia (Giorgia) e la collusione silenziosa (Giulia e la madre). Lo sapevamo già all’inizio, ma alla fine è lei stessa a riconoscerlo e a comprendere i limiti e il dolore di un’esistenza in trappola. Così dopo aver trascorso tutta una prima vita su un percorso tracciato, come quello del tapis roulant in cui la vediamo spessissimo durante il film, trova in sé la forza di spezzare il meccanismo e correre, finalmente, libera su una pista aperta.
Continua a seguire le recensioni di FRAMED anche su Facebook, Instagram e Telegram.