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Con alle spalle il non perfetto ma promettente film d’esordio The Nest, Roberto De Feo dirige con Paolo Strippoli A Classic Horror Story, uscito su Netflix il 14 luglio 2021. Un titolo beffardo, che gioca con le aspettative dello spettatore, solleticando intellettualmente gli amanti del genere, che già subodorano in una dichiarazione di intenti così gridata un disattendere alle premesse. Ma anche incuriosendo l’avventore medio di Netflix con il rosso vivo dei suoi caratteri e la paradigmaticità apparente delle sue intenzioni.

L’ABC dell’orrore

Un gruppo di sconosciuti si ritrova – grazie a un’app di carpooling – a bordo di un camper diretto in Calabria, dove tutti si devono recare per ragioni differenti. Il proprietario e guidatore è Fabrizio (Francesco Russo), studente di cinema ed estroverso “padrone di casa”, che importuna i suoi passeggeri con continue storie Instagram. Riccardo (Peppino Mazzotta) è un dottore, schivo e scontroso, dalla tormentata situazione familiare. Sofia (Yuliia Sobol) e Mark (Will Merrick) sono una giovane coppia piena di vita, ucraina lei, inglese lui, diretta al matrimonio di amici. Ma colei che il film ci presenta come protagonista è Elisa (Matilda Lutz). Sappiamo che è incinta, ma che deve abortire (su pressione della madre, per ragioni legate al lavoro), e che sta tornando a casa dei suoi genitori in Calabria. Sarà attraverso il suo personaggio che testimonieremo il susseguirsi degli eventi, sempre più inquietanti e sempre più distanti dalla classica storia dell’orrore.

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A Classic Horror Story – Credits Netflix

Un gruppo di persone che non si conoscono e che l’istinto di sopravvivenza costringerà all’intimità del sangue. Un camper che serpeggia su una strada deserta, fino ad entrare in una selva oscura di notte e di alberi. Un incidente, che indebolisce parte del gruppo e obbliga all’esplorazione del territorio. Una casa (molto carina, senza soffitto, senza cucina) che li attende nella radura, presaga di orribili occorrenze.

Il film si presenta come un pastiche dell’immaginario horror degli ultimi cinquant’anni, e non tarderà a ricalcarne anche gli stilemi, con tanto di sottolineatura, esplicitazione e messa in ridicolo di questi da parte della diegesi. I rimandi ai film horror che hanno fatto la storia del genere si sprecano. Quelli che risuonano con più potenza ed eco sono però senza dubbio Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974), Le colline hanno gli occhi (Wes Craven, 1977) e La casa (Sam Raimi, 1981). Anche se l’eterogeneità della comitiva e il loro non conoscersi ricorda il carattere apparentemente aleatorio della composizione di altri gruppi cinematografici, ovvero gli sconosciuti che si trovano a collaborare e/o scontrarsi per la sopravvivenza in saghe come Saw e Cube.

Tutto concorre a instradare lo spettatore su dei binari ben oliati, che si sa alla perfezione dove conducono. Ed è proprio sulla disillusione delle premesse che A Classic Horror Story costruisce la sua narrazione.

Tradizioni a confronto

A Classic Horror Story fa i conti con la tradizione, mettendola al centro del proprio discorso di genere. Ma se quella fatta di camper che vagano in lande sperdute, case isolate e incidenti inquietanti è la tradizione dell’horror cinematografico, un altro tipo di tradizione fa breccia nel tessuto narrativo e iconografico del film: il mito popolare. Sono due mondi che collidono: il portato mitico del cinema horror, moderno e paradossalmente a noi più vicino e noto della tradizione popolare, il secondo termine di questo confronto. La prossimità geografica delle leggende nostrane rifugge ad una familiarità mancata, facendole risultare tanto più esotiche e, di conseguenza, iconicamente più prorompenti e terrificanti.

Osso, Mastrosso e Carcagnosso, legati a doppio filo alle origini della mafia e distorti dal filtro trasformativo dell’orrore, danno una nuova veste alla traiettoria che il film percorre, pur senza deviare dal tracciato del solito film di genere, pur senza impedire la riproposizione di tropes ben rodati. I boschi della Sila non sono poi – nella sostanza e nella finzione – così diversi da quelli delle Montagne Rocciose. E le torture inflitte dai tre fratelli cavalieri non meno sadiche e grandguignolesche di quelle dell’enigmista o di Leatherface. Ma il colpo di coda della tradizione, quando tutto sembrava dato per risolto, non tarda a presentare il suo conto. Perché l’italianità, la Calabria, la mafia, irrompono bruscamente e brutalmente – con una sequenza dai forti echi midsommariani – quando il film decide non tanto di rimescolare le carte, quanto di buttare in aria il tavolino da gioco.

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Elisa (Matilda Lutz) in A Classic Horror Story – Credits Netflix

Female victim-hero

Elisa, la nostra bussola identificativa, si inscrive fin da subito e a pieno titolo nella tradizione della protagonista femminile dello slasher, della final girl che avrà la sua rivalsa sul mostro. Si configura come uno fra i tanti elementi cardine dell’horror che A Classic Horror Story ci presenta, carico di ben definite aspettative. Forse pronto a essere ribaltato?

Ciò che qui preme porre in risalto è quanto Matilda Lutz, nei panni di questo stereotipo vivente, funzioni. È probabilmente l’elemento più convincente dell’intero film, e questo per ragioni che vanno al di là della presenza scenica e della capacità attoriale, e che hanno più a che fare con il funzionamento dei meccanismi del divismo. L’attrice milanese, nella sua ancora breve carriera cinematografica, ha già recitato in un film horror, The Ring 3, nel 2017. Ma soprattutto, sempre nel 2017 è stata la protagonista di Revenge, rape and revenge della regista francese Coralie Fargeat.

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Jen (Matilda Lutz) in Revenge – Credits Midnight Factory

Il rape and revenge è un filone dell’horror da sempre problematico e legato all’exploitation ma che negli ultimi anni ha trovato nuova linfa e nuove declinazioni in mano a registe donne. Film come M.F.A. (Natalia Leite, 2017) e Una donna promettente (Emerald Fennell, 2020) sono ben lontani dal capostipite Non violentate Jennifer (Meir Zarchi, 1978). Quello di Jen in Revenge – che fin dal nome richiama la progenitrice Jennifer Hills di Camille Keaton – è stato un ruolo già fortemente iconico. E grazie ad esso Matilda Lutz può godere dell’iscrizione della sua immagine – divistica? forse è ancora troppo presto per definirla tale – nel modello della female victim-hero. Nel bagaglio divistico di Lutz – e nella memoria dello spettatore – Revenge ha impresso il forte segno del tipo. E A Classic Horror Story diventa il secondo tassello dell’affermazione di un contorno divistico ben definito.

La sua sola presenza nel film scrive già in qualche modo le nostre aspettative e la nostra lettura degli avvenimenti. Noi che abbiamo visto Revenge fruiamo il film di De Feo e Strippoli in un determinato modo, che prevede anticipatamente che Elisa, introdotta subito come protagonista, venga battuta, percossa, sfiancata, ridotta in lacrime, distrutta. Ma che prevede anche che ad un certo punto trovi in lei e nelle circostanze la forza di rialzarsi e riscattarsi, diventando carnefice. E il film beneficia di questa eredità immaginifica di ruolo, perché può farne ciò che vuole, allineandovisi, giocandoci o capovolgendola.

Al netto di un’eccessiva fretta nel finale, che avrebbe giovato di un minutaggio superiore (che avrebbe dato più soddisfazione allo spettatore) e di un focus diverso da quello fastidiosamente conservatore sulla maternità, A Classic Horror Story è un film da vedere. Non è originalissimo, i colpi di scena possono essere previsti, e i rimandi agli stereotipi dell’horror sono tanti quanto quelli ai film metacinematografici che lo decostruiscono. Ma le immagini che crea, l’uso della musica, l’ironia, gli scoppi pulp, e tante altre perle lo rendono il benvenuto nell’horror italiano contemporaneo.

Qui potete vedere il trailer.

Il trailer ufficiale di A Classic Horror Story

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