una scena da A letto con Sartre

Le traduzioni italiane dei titoli stranieri, la cui ridicolaggine sfiora la leggenda da decenni, non sono solo un facile bersaglio di sarcasmo cinefilo; sono soprattutto un modo efficace per allontanare i film dal loro reale pubblico di riferimento.

Cette musique ne joue pour personne (“Questa musica non suona per nessuno”) è un titolo evocativo che esprime bene l’idea centrale del film: l’arte esiste solo se c’è chi la coltiva, non per preservarne il canone ma per soddisfare i propri bisogni espressivi.

La versione anglofona Love songs for tough guys (“Canzoni d’amore per tipi duri”), perde la sfumatura poetica del titolo originale, ma mantiene un riferimento oggettivo alla trama: ci sono i tough guys (un gruppo di criminali a Dunkerque, città portuale francese), ci sono le love songs (le poesie d’amore scritte dai tough guys).

La traduzione italiana A letto con Sartre fa fuori a sciabolate poesia e referenzialità per introdurre il più incongruo degli immaginari: la commedia sexy anni ’70, applicata alla sottotrama di Suzanne, parrucchiera balbuziente, e Jacky, killer introverso, protagonisti di una pièce teatrale amatoriale sul rapporto tra Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre.

Difficile capire quale spettatore avesse in mente chi ha curato la distribuzione italiana, ma ammettiamo pure che una tale chimera mezza prurigine mezza esistenzialismo abbia senso di esistere. Quello che sicuramente non esiste è l’eventualità che questo film, così com’è, possa soddisfare la curiosità di chi compra il biglietto allettato dal titolo.

Aspettative vs. realtà

A chi si aspetta furori erotici vengono servite lunghe inquadrature fisse su scorci ordinari del porto; a chi pregusta drammi wertmülleriani viene mostrata una Valeria Bruni Tedeschi trasognata e taciturna in tuta da ginnastica. A chi vorrebbe almeno qualche ambientazione glamour non restano che parcheggi di centri commerciali, garage, container e modesti interni domestici. Ce n’è abbastanza per generare un’ondata di malcontento a base di è lento, non c’è trama/azione/passione, non ci si può affezionare a questi personaggi e via rimostrando.

Però sarebbe un peccato giudicare A letto con Sartre solo sulla base di quanto si discosta dall’immaginario sornione evocato dal titolo italiano, perché il film ha una coerenza interna difficile da ottenere con un materiale narrativo tanto rarefatto. L’accumulo di situazioni apparentemente banali getta una luce tenue sulla quotidianità di questi malfattori atipici, lasciando emergere una vena surreale che dialoga con picchi emotivi inaspettati – e per questo tanto più d’effetto. È uno sguardo che rinuncia all’epica monolitica della raffigurazione classica del crimine, e che mette assieme in maniera disinvolta (eppure organica) sparatorie e versi alessandrini, minacce e trepidazioni amorose, esplosioni e manuali di self-help.

In breve

A letto con Sartre si pone idealmente al crocevia tra l’umorismo nero scandinavo (Aki Kaurismaki è subito dietro l’angolo) e certa serialità statunitense recente (Barry, il killer che tenta la carriera da attore, di Alec Berg e Bill Hader), a cui aggiunge una riflessione filosofica sul ruolo dell’arte (squisitamente francese). È un film insolito ma riuscito, una piccola perla che fa poche promesse e le mantiene tutte.

Immagine di copertina: © 2021 Single Man Productions

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