Katia Pascariu in Bad Luck Banging or Loony Porn. Credits: Lucky Red.

Da ormai più di un anno c’è una questione aperta nel cinema mondiale, a cui Bad Luck Banging or Loony Porn (Orso d’oro a Berlino 2021), scritto e diretto da Radu Jude, dà finalmente una risposta. Non definitiva (sarebbe impossibile) ma soddisfacente nel momento storico attuale. La questione è come rappresentare la realtà al tempo del Covid. E dove progetti pur lodevoli e interessanti si sono rivelati in affanno (o invecchiati anzitempo) nell’inseguire l’immagine del mondo com’è diventato, il film di Jude non solo centra il bersaglio, ma lo supera.

Perché Bad Luck Banging non è (né pretende di essere) un film sulla pandemia. È un film al tempo della pandemia, che non tenta di occultare, dimenticare o superare il contesto in cui viviamo. Ne fa parte viva della sua drammaturgia, del suo sguardo, del suo corrosivo e paradossale umorismo. Ma non lo rende il centro del discorso. Il punto focale di questa satira grottesca della società odierna (non solo rumena) è l’immaginario audiovisivo, e ciò che in esso separa il vero dal falso, la scena dall’osceno. La storia individuale da quella collettiva.

Insegna storia la protagonista Emilia (Katia Pascariu), docente progressista di una scuola media inferiore, messa alla gogna per un video (finito su internet) in cui fa sesso col proprio partner. Ma prima del processo tragicomico di fronte alla corte dei genitori bigotti, sessuofobi, omofobi, misogini, fascisti e razzisti, il film (diviso in tre capitoli e tre finali) ci mostra due parti-sequenze non meno significative.

Nella prima, Emilia gira per l’ordinaria follia della Bucarest contemporanea: ostile, diseguale, iperconsumista, e naturalmente tappezzata di mascherine indossate, sfilate, calate. La macchina da presa si guarda intorno straniata: il mondo al tempo del Covid, dove un riferimento all’igiene o al rischio di contagio può infilarsi in ogni dialogo e situazione, è un Carnevale dell’assurdo. Ma a ben vedere lo era anche prima.

Come ci dimostra l’intermezzo, slegato dalla trama principale e insieme sua chiave di lettura: un montaggio di immagini (e ironiche didascalie) che compongono la Babele ipermediatica odierna. Dove si affiancano e sovrappongono epoche, orrori, paradossi, pensieri. E dove il cinema si (ri)lancia come mezzo che finge e documenta insieme, coglie il (non-)senso della realtà attraverso la surrealtà. Mette a nudo la tragedia attraverso la farsa in cui siamo tutti immersi.

Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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