Beatles, Paul McCartney - Credits: web

Ci sono storie che mettono i brividi, anche quando non sei più un bambino. Basta ascoltarle in una notte fredda, solitaria e silenziosa, così profonda che anche i cani hanno paura delle ombre. Una notte proprio come questa, in una città deserta: ad Halloween, durante il lockdown, camminano soltanto gli spettri.

Ci sono storie che mettono i brividi e ci sono canzoni che danno loro un suono, quello del mistero, quello del terrore. Quindi accendete il vostro stereo e infilateci un disco: The Beatles, meglio conosciuto come il “White Album“.

Prima di spingere PLAY, raccogliete per la casa tutti gli album che avete dei Beatles, o se preferite, cercate su internet le loro copertine. Ora spegnete pure la luce, accendete una candela e spingete PLAY. State ascoltando Back in the U.S.S.R., Ob-La-Di, Ob-La-Da, While my guitar gently weeps, e starete sorridendo, forse vi starete addirittura rilassando. E non sapete che tutto questo è solo per farvi abbassare la guardia. E colpirvi quando meno ve lo aspettate.

Adesso che lo sapete, siete pronti a leggere.

Paul McCartney e l’agghiacciante copertina di Sgt. Peppers

Nel silenzio di una fredda notte di ottobre squilla un telefono. È il 1969, non c’è alcun lockdown, ma le strade di Liverpool sono già vuote a quell’ora. E silenziose.

“Pronto?”, risponde la voce di Russell Gibb, deejay di una nota radio inglese.

Dall’altra parte della cornetta si sente un respiro roco e nessuna risposta.

“Pronto?”, ripete ancora Russell tradendo una lieve inquietudine nel tono.

“Paul McCartney è morto”, sospira una voce palesemente camuffata.

“Chi parla?”, domanda Russell guardando istintivamente  il buio fuori dalla sua finestra.

“Non importa chi sono io”, risponde la voce, “McCartney è morto tre anni fa in un incidente stradale, e chi canta oggi con i Beatles è un sosia”.

Russell resta in silenzio e una folata di vento scrolla gli alberi fuori dalla sua finestra. Senza staccare la cornetta dall’orecchio, strizza gli occhi per scoprire qualcosa là fuori, mentre con la mano libera apre il cassetto e sfiora con le dita la pistola che tiene lì dentro.

“Non ce n’è bisogno”, continua la voce, “prendi invece un loro album, quello che tieni accanto al giradischi, per esempio”.

Russell alza lo sguardo e vede la sua copia di Sgt.Peppers. Senza lasciare la cornetta, la prende e prima di annunciarlo, la voce lo anticipa:

“Ora trova i quattro”, sussurra la voce roca, “sono davanti a una tomba adornata da fiori gialli che formano esattamente un basso”.

Russell sta per dire qualcosa, poi vede le quattro corde e ricorda lo strumento suonato da McCartney: è identico. Deglutisce restando muto.

“Ora guarda Paul”, prosegue l’altro, “la sua testa è sormontata da una mano aperta, giusto?”.

Russell sussulta: “Nelle culture orientali quella mano simboleggia la morte…”.

Sgt Peppers - Credits: web
Sgt Peppers – Credits: web

Dalla parte opposta della cornetta, la voce ride una risata inquietante: “Bravo, vedo che inizi a capire. Ora apri il booklet e guarda quella foto in cui i quattro sono in divisa militare”.

Russell estrae dalla copertina del vinile il booklet e lo apre. In quel momento si accorge che la sua mano sta tremando. “Sulla spalla sinistra di McCartney c’è un distintivo nero”, sospira la voce, “Cosa c’è scritto?”.

“O.P.D.”, dice Russell con un filo di voce ricordando la sua breve carriera militare, “Officially Pronounced Dead, persona ufficialmente morta”.

“Esattamente”, sorride la voce. “Ma aspetta, ancora non hai visto niente”, continua la voce prendendosi una breve pausa, “prendi quello specchietto che hai dentro il cassetto, vicino alla pistola”.

Russell senza domandarsi nulla, estrae un piccolo specchio che chissà da quanto tempo era nascosto lì dentro.

“Ora appoggialo perpendicolarmente sulla copertina, sopra l’immagine della grancassa. Tra le  parole ‘Lonely’ e Hearts’ cosa leggi?”.

Russell sente scorrere sulla schiena un brivido gelido vedendo in modo chiaro: ‘1 One 1’ e ‘He die’, con una freccia a puntate proprio la figura di McCartney.

“I tre superstiti”, bisbiglia la voce soddisfatta, “e il morto”.

“Ma come…”, riesce a sospirare Russell stordito.

“Guarda tutti gli album dei Beatles e ascolta alcune loro canzoni, troverai decine e decine di indizi”, dice la voce prima di riagganciare.

Brividi in una notte di novembre del 1965

È una mattina di novembre del 1965, i Beatles sono sulla vetta del mondo, e non solo quello musicale. McCartney esce da una festa in condizioni non proprio ottimali per mettersi alla guida della sua spider, ma deve farlo: ha bisogno di tornare a casa e riposarsi prima di ricominciare le prove per il prossimo album, Rubber Soul.

Sulla strada, in mezzo alla campagna inglese, una giovane ragazza fa l’autostop. In un primo momento Paul la guarda senza fermarsi, poi dopo qualche metro, istintivamente, inchioda e fa retromarcia.

È scappata da casa perché è rimasta incinta. Ha solo 16 anni. Quando arrivano alle porte di Liverpool, le prime luci del sole le illuminano il viso. E devono illuminare anche quello di Paul, perché ad un tratto, mentre l’auto sfreccia, lei si rende conto di chi le sta dando un passaggio e inizia a gridare in preda a quell’isteria di cui i Beatles erano diventati ormai oggetto.

Ma Paul, stanco dai postumi della festa, non ha i nervi abbastanza saldi per gestire da solo una simile reazione. La sua auto sbanda e invade la carreggiata opposta, dove un camion sta passando a tutta velocità colpendola in pieno.

I corpi dei due vengono sbalzato fuori dall’auto per l’impatto frontale, Paul McCartney muore sul colpo, decapitato dal parabrezza frantumato.

Ricevuta la notizia, gli altri tre Beatles, insieme con il manager Brian Epstein, scelgono di adottare la linea del silenzio. Seppelliscono Paul in gran segreto per non sconvolgere il mondo, né intaccare il futuro della band e si mettono alla ricerca di un sostituto, un sosia che possa sostituirlo in tutto e per tutto.

Titoli su Paul McCartney - credits: web
Titoli su Paul McCartney – credits: web

Dopo settimane di ricerche, scelgono William Stuart Campbell, un attore di origini scozzesi: già molto somigliante al defunto Paul, William accetta di sottoporsi ad alcuni interventi di chirurgia plastica.

Forse non è un caso che, proprio da quel momento in poi, i Beatles interrompono le loro esibizioni i dal vivo, per diversi anni.

Più guardi da vicino più tutto diventa terrificante

Tornando alla notte di ottobre del 1969, subito dopo aver riagganciato la cornetta del telefono, Russell corre alla sua libreria e raccoglie tutti gli album dei Beatles.

Inizia da “Rubber Soul”, l’album immediatamente successivo a quell’evento. Ma dalle mani gli scivola un 33 giri, un singolo non compreso nell’album, “We can work it out”. “Possiamo farcela a fare cosa?”, si domanda Russell “forse a superare la perdita di Paul?”.

“Sicuramente, da quel momento”, riflette … guardando tutti gli album che ha davanti a sé, “le cose cambiano rapidamente, non indossano più la loro divisa e cambiano il modo di fare musica, diventano più cupi rispetto a prima”.

Poi prende Revolver, lo mette nel giradischi e ascolta Taxman, come se nelle parole del pezzo ci sia la descrizione dell’incidente mortale. Solleva la puntina e ascolta Eleanor Rigby, dove un prete (Padre McKenzie) prepara il sermone per una cerimonia cui nessuno assiste, esattamente come il non-funerale di Paul.

Titoli su Paul McCartney: credits: web
Titoli su Paul McCartney: credits: web

Prima di rimettere il vinile nella sua custodia, Russell guarda un’altra volta la copertina di Revolver e si accorge che Paul è l’unico defilato, messo addirittura di profilo, come a voler dire “non sono più con voi”.

Russell raccoglie un altro album, Magical Mystery Tour. La puntina del giradischi riproduce Strawberry Fields forever e ascolta per la prima volta quelle parole così malinconiche e dolci sotto un’altra luce: “lascia che ti porti giù, perché sto andando in un campo di fragole, niente è reale, e non c’è niente di cui dovrai più preoccuparti”.

“Dio mio” , pensa Russell, “le parole di John Lennon descrivono l’ultimo saluto a Paul prima di seppellire il suo corpo”.

Mentre sta per sollevare la puntina, Russell tocca per sbaglio il vinile sulle note di I’m the Walrus che continua a suonare, ma al contrario: “Ah ah, Paul is dead”, “Paul è morto”, sente pronunciare da una voce satanica.

Terrorizzato, strappa letteralmente il disco dal giradischi e prende la copertina per rimetterlo a posto. Ma, forse per un tremore della sua stessa mano, scivola fuori il booklet e una foto di McCartney attrae il suo sguardo: Paul è seduto davanti alla scritta “I was”, “io ero”, mentre le due bandiere dietro di lui sono poste così come si usa nei funerali militari.

Di fronte a quell’immagine, Russe ricorda una intervista fatta agli stessi Beatles proprio sulle foto di questo album. In una, in particolare, Paul è l’unico a portare all’occhiello un fiore nero: la risposta dei quattro era stata banalmente che i fiori rossi erano finiti.

Russell prende allora Abbey Road e sulla celebre copertina, si rende conto che l’unico a distinguersi è proprio Paul. Mentre i quattro camminano come in una processione funebre, lui è l’ultimo, quasi in ritardo rispetto agli altri, scalzo come tradizione vuole si tumulino i defunti. Alle sue spalle è impossibile non notare un Maggiolino Volkswagen e la sua targa: “28IF”.

“28 se”, riflette Russell “28 anni se Paul fosse stato vivo in quell’anno, proprio il 1969”. Poi, ad un tratto, Russell ricorda di avere due versioni dello stesso album dei Beatles, Yesterday and today, del 1966. Nella prima che trova, in copertina, Paul è seduto in un baule e dietro di lui i suoi tre compagni, come fosse riposto all’interno di una bara.

Ma quando Russell trova l’altra versione, quella iniziale e successivamente censurata, prova un brivido freddo: sulla copertina i quattro sono vestiti da macellai e Paul, nel mezzo, è abbracciato da due bambole, entrambe decapitate.

Le storie di fantasmi che fanno parte dell’umano e non smettono di attrarci

Forse Russell dopo quella notte di ottobre non fu più lo stesso. O forse, semplicemente, al mattino, una volta trascorsa la notte e scomparsi fantasmi, silenzio e brividi, rise di tutto quello che aveva trovato.

Forse anche lui ha riso scettico all’idea che la persona che il mondo conosce e venera come Paul McCartney, dal 1966 sia un sosia.

Di certo, starete ridendo anche voi, con una risata scettica al pensiero che sia solo un impostore somigliante all’originale, l’autore di brani storici e meravigliosi come Back in the U.S.S.R.Lady MadonnaShe’s Leaving HomeGet BackHello GoodbyePenny LaneHey JudeBlackbirdHelter SkelterOh! DarlingLet It Be e The Long and Winding Road, che appare nei film Magical Mystery Tour e Let It Be. Solo per citarne alcuni.

"Paul is still with us" - credits: web
“Paul is still with us” – credits: web

E fate bene a ridere. Soprattutto in un periodo come questo in cui antivax, terrapiattisti, scie chimiche, 5G e vari complottismi dell’ultima ora si aggiungono pericolosamente al dilagante populismo che minaccia la cultura, spandendosi come un virus.

Fate bene, benissimo a ridere. Dobbiamo farlo tutti.

Ma se siete ancora li, al buio della vostra casa, nel silenzio di una notte di lockdown vicina a Halloween, e con il White Album acceso, forse non ridete. Forse siete arrivati ad ascoltare Revolution 9 e state credendo a tutto quello che avete letto, tremando di paura.

D’altronde la paura è umana ed è sana, è un dono, se riusciamo a gestirla.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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