È arrivato il momento in cui Tim Burton vuole fare esattamente ciò che gli piace fare, e con Beetlejuice Beetlejuice, film d’apertura dell’81ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia e dal 5 settembre al cinema, lo celebra a 360 gradi.
Dove percepivamo l’aria di disastro – il sequel del suo secondo lungometraggio con parte dello stesso cast a 36 anni di distanza poteva essere la sua operazione più rischiosa – il regista ci ha sorpreso, e non solo mantiene fedele l’anima del film del 1988, ma la rende attuale riportandola all’oggi e, fortunatamente, discostandosi da tutti i film sottotono che aveva realizzato negli ultimi anni. Tim Burton è tornato? A quanto pare sì, e la fase discendente della sua filmografia risorge proprio con un ritorno alle origini, a Beetlejuice, all’artigianalità dei suoi incubi, costruiti e dipinti come opere d’arte pre-digitali.
Dove eravamo rimasti: Beetlejuice (1988) e Beetlejuice Beetlejuice (2024)
Secondo film di Burton dopo l’esordio al lungometraggio con Pee-wee’s Big Adventure (1985), Beetlejuice è la traccia da seguire per comprendere tutto il cinema che il regista realizzerà negli anni successivi. Per chi l’ha visto da bambino, all’uscita, il film è un cult indiscusso, chi l’ha scoperto in seguito (o chi lo guarda oggi per la prima volta) riscontra una sgangherata sceneggiatura messa al servizio di personaggi sopra le righe e situazioni paradossali, divertenti in quanto estremamente grottesche.
Ciò che lo rende fondamentale per la poetica del regista è la presenza embrionale delle sue magie orrorifiche: ovvero la cura artigianale, propria di un grande artista visuale, che prende forma attraverso vermi della sabbia a righe e modellini perfetti, una cura della materia artistica, intesa come legno, cartapesta, e non come pellicola cinematografica, che ha reso grande un immaginario inconfondibile, sviluppato poi soprattutto in The Nightmare Before Christmas (1993), in cui non è regista bensì artefice del mondo del Paese di Halloween mosso in stop-motion, e dell’idea che guida tutta la storia (ripresa da una sua poesia). Qui c’è l’apoteosi dell’estetica burtoniana, iniziata al cinema proprio con Beetlejuice, nonché un riferimento al film dell’88 con la presenza di una piccola adorabile testa mozzata uscita da un pacco regalo.
Una delle parole d’ordine per Beetlejuice è caos: narrativo, visivo, morale, e a riguardare il film oggi questo caos è invecchiato maluccio. Ma è qui che Burton, dopo tanti film falliti, trova il modo giusto di riportarlo sul grande schermo, tornando a ridefinire quel caos, inserendolo in una struttura che rimane fedele ai principi dell’originale, e superandolo con grazia citazionistica e amore per il genere, e per le sue creature: Lydia, Delia e tutti gli altri (compresi i nuovi arrivi).
I vivi e i morti
Ricordate il fantasma sboccato e viscido che tentò nel 1988 di prendere in sposa la piccola Lydia Deetz (Winona Ryder) con uno stratagemma finendo invece insieme ai suoi simili in una sorta di noioso oltremondo colmo di burocrazia? Nel 2024 non è più un problema, perché Lydia è cresciuta e ha a che fare con altri fantasmi, conduce infatti un programma televisivo su spiriti e case infestate grazie all’aiuto del suo nuovo compagno, Rory (Justin Theroux). La figlia di Lydia, Astrid (Jenna Ortega) crede che sua madre sia una cialtrona, anche perché le suona strano che riesca a vedere qualunque fantasma tranne quello di suo padre, scomparso in un incidente.
Quando anche Charles Deetz muore, la famiglia è costretta a riunirsi e a tornare alla loro casa infestata, dove Delia (Catherine O’Hara) cerca di metabolizzare la morte del marito con strane performance e opere d’arte dark e ridondanti. Rientrare in quella casa comporterà il ritorno tra le visioni di Lydia di Beetlejuice (Michael Keaton), che stavolta però fa molta meno paura dei vivi, e un cambiamento nella vita di Astrid, che vivrà un Halloween fuori dal comune. Un altro matrimonio è stato annunciato, ma stavolta a contare sono gli interessi economici e le apparenze, e non la cupidigia di un fantasma un po’ maniaco.
Tim Burton omaggia il grande cinema horror come quello di Mario Bava, ripercorre la sua stessa carriera con un autocitazionismo sfrenato e mai opprimente, dal personaggio di Delores (Monica Bellucci), una Sally in carne e ossa, al cameo di Danny DeVito (Batman – Il Ritorno, Mars Attacks!, Big Fish e Dumbo).
È scorretto, violento, divertente, ma anche nostalgico e macabro. Il regista sovrappone tutto quello che ha imparato a Hollywood al suo amore per la costruzione di scenari ed effetti artigianali, cercando di evitare il più possibile quelli in digitale.
Tutti sul Soul Train
La rappresentazione del regno dei morti torna come confusionaria, colorata e sfrenata, ma perfettamente parallela al mondo dei vivi. Qui non esistono regole, neanche per la regia o il soggetto. Burton non teme sequenze troppo lunghe, scene volutamente disgustose, doppi sensi e critiche sociali.
Fa esattamente tutto ciò che vuole, inserisce personaggi fenomenali e surreali come quello interpretato da Willem Dafoe, ma anche brani musicali incredibili, come il lungo pezzo prog recitato sul finale. Il tutto esibendo uno scatto generazionale, ben descritto da Jenna Ortega e la sua Astrid, che si consacra come uno dei nuovi volti burtoniani, ma anche con una consapevolezza del mezzo che quel caos riesce a controllarlo, come mai prima d’ora.
Beetlejuice Beetlejuice è ciò che non ci aspettavamo: un successo, e pronto a conquistare sia la vecchia guardia di fan che i nuovi arrivati, senza distinzione. Ha provato per anni ad allontanarsene ma è qui che il regista riesce a conquistare, tra fantasmi, aldilà e destini spettrali.
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