Billie Holiday, Downbeat, New York, N.Y., ca. Feb. 1947, Gottlieb, William P.
Billie Holiday, Downbeat, New York, N.Y., ca. Feb. 1947, Gottlieb, William P.

Una bambina afroamericana entra in un riformatorio cattolico. Ha 11 anni ed è quello il luogo nel quale viene rinchiusa dopo essere stata violentata. È la Baltimora del primo decennio dello scorso secolo, una città di porto, piena di bordelli e locali jazz. Quella bambina è figlia di tutto questo: si chiama Eleanora Fagan, suo padre è un jazzista itinerante per gli Stati Uniti, sua madre si arrangia tra il lavoro da domestica e quello nelle case chiuse. 

Un giorno, in quel riformatorio, è vestita di bianco, ride raggiante e non sembra camminare, ma volare a qualche centimetro da terra. Non importa che sia sull’altare di una chiesa per ricevere la sua prima comunione o sul palco della Carnegie Hall per iniziare un concerto: ciò che conta è che ci sia qualcuno a guardarla, un pubblico ad ascoltarla, o, forse, solo qualcuno che le impedisca di sentirsi sola. 

Ciò che conta, dopotutto, è che quel giorno la piccola Eleanora Fagan inizia a diventare la grande Billie Holiday. 

Uno strano frutto

Anche se i primi palcoscenici di Billie sono quelli dei bordelli di Baltimora, più canta e più acquista sicurezza in sé stessa. Perché non c’è proprio nulla che faccia passare inosservati quel suo straordinario senso del ritmo e quell’innato talento nell’improvvisazione. Ancora minorenne e già incide dischi con i grandi del tempo, da Duke Ellington a Benny Goodman, fino a partire in un tour per il sud degli Stati Uniti.

Ma come accadrà forse nell’arco di tutta la sua vita, più dei suoi successi, sono i suoi fallimenti a spingerla in avanti. E quel tour è un fallimento: la band con cui parte è composta da bianchi e né i proprietari dei locali, né il pubblico accettano l’idea che a guidarla sia una donna nera. 

Billie viene spesso lasciata dietro le quinte e sostituita da una cantante bianca. 

Eppure, è proprio lasciato quel tour che, un istante prima di perdere tutta la sicurezza acquisita fino a quel momento, viene ingaggiata in un locale di New York. Il Café Society del Greenwich Village, per la precisione, dove già negli anni ’30 vige un sano e ancora puro anticonformismo che permette l’apertura di numerosi locali interrazziali. 

C’è una sola clausola alla quale Billie deve sottostare: cantare Strange fruit. Un brano particolare scritto da un comunista ebreo, un bianco, che parla senza troppi eufemismi di quegli strani frutti che pendono dagli alberi in quel periodo: gli afroamericani impiccati nelle città del sud degli Stati Uniti.

È il 1939 e quella del linciaggio degli afroamericani è una pratica ancora tollerata al Sud. Strange fruit è una canzone che non si può cantare senza caricarsi di una responsabilità e Billie lo sa bene. Per questo accetta e con la sua voce dà ad essa un’anima. Anzi, diventa lei stessa quell’anima.

Perché Strange fruit è il brano che fa diventare Billie Holiday una militante dei diritti civili e al tempo stesso una star. Due dimensioni differenti che in lei si uniscono e che trasformano la sua stessa vita in un simbolo di questa unione, mescolandosi in maniera perfetta e letale al suo carattere, alla sua testarda ostinatezza, alla sua irrinunciabile libertà. Ma anche alla sua costante insicurezza.

Testarda e libera 

Billie Holiday è una figura controversa che in qualche modo riesce a condensare in sé il ruolo di vittima e quello di carnefice. Non verso gli altri, ma verso sé stessa. Qualcuno parlerebbe banalmente di masochismo, eppure c’è qualcos’altro oltre la continua scelta dell’uomo sbagliato, la sua insana attrazione verso uomini brutali. 

Uno dei brani che lei stessa afferma la rappresentino di più è Don’t explain. E proprio in questa canzone, sullo sfondo delle sue parole sembra adagiarsi inquietante l’ombra di un terrore, qualcosa che assomiglia tantissimo alla paura di restare soli.

Ma Billie è una donna dal fascino immenso, capace di irretire chiunque, di amare e farsi amare, da uomini, come anche da donne. I suoi due più grandi amori sono stati due uomini gentili, uniti a lei dal jazz: Lester Young e Louis Armstrong.

Ed è proprio Armstrong, col quale recita in film di poco successo intitolato New Orleans, a dirle la sconsolante verità: “Sei una musicista nera e devi avere un agente bianco che ti protegga, altrimenti in questo mondo affoghi, senza qualcuno che vada in giro e dica alla gente, Ecco, questo è il mio n**ro“.

Billie in fondo sa che Louis ha ragione e lo asseconda. Ma lo fa a modo suo: si sceglie un agente, bianco, ma anche mafioso. 

Portrait of Billie Holiday – Carl Van Vechten, 1949

D’altronde lei è così, libera e testarda. Come quella volta in un bar di New York negli anni ’40, seduta a un bancone di un bar a bere il suo cocktail. Entrano dei Marines, e le si siedono affianco. Il barista gli chiede loro cosa vogliano da bere e uno risponde secco: “Avremmo voluto un drink, ma ora che sappiamo che servite anche i n**ri non lo vogliamo più”. Billie ascolta, finisce il suo cocktail, si volta e gli spacca il bicchiere in faccia, continuando a spingerglielo sulla pelle del viso per tagliarlo quanto più possibile.

O come quella volta in cui ha inciso Strange fruit, forse non una volta qualunque, ma quella decisiva per la sua carriera e per tutta la sua vita. 

Dopo averla incisa, infatti, la sua etichetta decide di non pubblicarla per paura di ritorsioni razziali. Qualcuno dice che è stata la stessa FBI a consigliarle di smettere di cantare quella canzone: “Non cantarla più e ti lasceremo in pace”, pare le abbiano detto senza mezzi termini. 

Ma la risposta di Billie era pressocché scontata. “Fottetevi”, dice senza dirlo, con la sua immensa eleganza: cambia etichetta e la pubblica. 

La persecuzione 

Ma l’FBI è quella di J.Edgar Hoover (quell’uomo raccontato così bene da Clint Eastwood e Leonardo DiCaprio) e da lì inizia la sua inevitabile e infinita persecuzione. 

D’altronde Billie non è certo una santa. Come molti ha scoperto l’eroina e ne diventa dipendente, in modo abbastanza cauto da poterlo nascondere. Almeno finché non è costretta ad indossare lunghi guanti per coprire i segni della siringa. Ancora una volta la sua straordinaria eleganza.

Finalmente, un giorno conosce un ragazzo gentile, si chiama Jimmy, Jimmy Fletcher. Lo ama, e lui ama lei al punto da essere lui stesso a rivelarle la sua vera identità: è un agente FBI sotto copertura mandato appositamente per lei. 

Lei gli risponde come se non le importasse, come se già lo sapesse e avesse deciso di ignorarlo scegliendo di vivere l’attimo. Gli sorride e dice semplicemente, con la voce setata di una bambina innamorata: “Oh Jimmy, vedrai che andrà tutto bene”.

Si amano e continuano ad amarsi pur sapendo di essere uno la rovina dell’altro. Si amano e continuano ad amarsi finché il suo manager, bianco e mafioso, non la denuncia per salvare sé stesso.

Il giorno dell’arresto Jimmy le ha già annunciato che l’andranno a prelevare dentro la sua stanza d’albergo. Lei li sta aspettando e appena superano la soglia della porta, con calma, entra in bagno lasciando alle spalle la porta aperta. Non indossa le calze e quindi solleva solamente la gonna, senza sedersi sul water, regalando alla polizia l’immagine sacra e provocatoria di una musa inquietante

È il 1947. Billie resta in carcere un anno durante il quale le viene strappata la sua forza più grande, la sua sicurezza, la sua voce, il suo canto. Una simile esperienza può cambiare radicalmente una persona, ma lei non cambia, semplicemente qualcosa in lei si piega facendo riemergere tutta la sua insicurezza. 

E forse non basta a recuperarla quel grande concerto che i suoi amici le organizzano subito alla Carnegie Hall. Quella sera è come se la sorpresa di non essere stata dimenticata venisse oscurata da una tremenda convinzione: che tutte le centinaia di spettatori siano accorse solo per saziare la curiosità di vedere come sia diventata dopo il carcere. Tutte, ancora, ad ammirare morbosamente uno strano frutto.

La conseguenza più drammatica di quell’arresto è la revoca a vita della Cabaret card che le permette di suonare in locali che servono alcol.

È costretta a girare il Paese, a trovare nuovi spazi di concerto, ad esplorare nuove zone, ma come in una trappola costante l’FBI la segue facendole terra bruciata attorno. Il suo nuovo agente li avverte in anticipo dei suoi spostamenti e loro minacciano e sconsigliano ai proprietari dei locali di lasciarla suonare, perché, dicono, è soltanto una drogata. Arrivano addirittura al punto di ingaggiare dei disturbatori che le rendono impossibile portare a termine i suoi spettacoli.

Quando nel 1949 viene di nuovo arrestata per possesso di oppio, nonostante le accuse contro di lei cadano, Billie capisce che la sua sola possibilità è raccontare al pubblico la sua verità.

Ma per farlo il solo mezzo possibile sono i media che ormai sembrano avere un conto aperto nei suoi confronti. Il titolo che i giornalisti danno sulle prime pagine al suo articolo rivelazione è semplicemente: “Può un tossicodipendente tornare indietro?”.

Un finale tutt’altro che annunciato

Billie fugge in Europa dove si sente più libera e forse lo è davvero, anche se la critica continua a fare il suo sporco lavoro, minandole ogni sicurezza: un’artista in declino, una voce indebolita e svuotata della sua grinta originaria. 

Rinvigorita nelle sue sicurezze, nel 1956, torna a New York e scrive un’autobiografia. In essa fa emergere una donna vittima delle circostanze, che il destino meschino, la sofferenza, le violenze, gli abusi hanno avvicinato inevitabilmente alla droga.  

Eppure, come se ormai fosse una questione privata, Billie Holiday contro gli Stati Uniti, viene di nuovo coinvolta in un altro scandalo legale. Stavolta quello che la prima volta in lei si era piegato inizia a spezzarsi sotto la pressione di un’esecuzione che non sembra ormai aver più una fine. 

Forse è quando muore la sua anima gemella, Lester Young, che Billie si spezza definitivamente. Al funerale la famiglia di lui, che non ama il jazz, le impedisce di cantare e lei perde la testa e si chiude in sé stessa.

Dentro la sua casa nell’Upper West Side guarda cartoni animati e beve gin, finché un giorno collassa. 

Viene ricoverata e attaccata al respiratore. A fatica, dopo qualche tempo, inizia a migliorare. Ma proprio allora un’infermiera dichiara di averle trovato addosso una dose di eroina e viene arrestata di nuovo. Stavolta l’arresto è soltanto un’atroce umiliazione: legata con le manette a quel letto di ospedale, muore poco dopo. 

È il 19 luglio 1959. Billie Holiday ha 44 anni.

A New York, c’è un celebre cimitero, il Woodlawn Cemetery. Qui c’è uno splendido spazio chiamato jazz corner dove sono sepolti i grandi del jazz.

Ma Billie Holiday non è lì. Lei è sepolta in uno squallido cimitero del Bronx. Nella città in cui è nata, a Baltimora, c’è una sua statua: si erge in un angolo di un parchetto di cemento in un ghetto di tossicodipendenti. 

È troppo facile pensare che Billie Holiday sia stata soltanto uno strano frutto e questo sia il suo inevitabile destino, in un Paese che continua ad accettare soltanto frutti “normali”.

Forse ha ragione Dan Morgenstein, un giornalista che Billie l’ha conosciuta, vissuta e probabilmente, come molti, anche amata: “Non era affatto una vittima, ma per natura piuttosto era una persona che ha fatto quello che voleva e sempre per sua scelta. Era una donna indipendente, aveva il suo modo di ragionare. E qualsiasi cosa le accadesse, per quanto sfortunata era stata lei, lei stessa, a volerlo“.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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