Da 15 anni Boris risiede stabilmente nel cuore di chi l’ha vista su Fox, di chi non aveva Fox e l’ha scaricata, di chi l’ha incrociata su YouTube nelle clip da un minuto, di chi l’ha trovata per la prima volta sulle piattaforme – Netflix prima, Disney+ poi. Senza che nessuno dei partecipanti lo potesse prevedere, è diventata un classico della comicità che ha fatto ben più che sconfessare le fiction demmerda tra gli addetti ai lavori. Ci ha regalato un antidoto potentissimo alla cattiva scrittura televisiva e ci ha sbloccato una risata feroce che forse non seppellirà nessuno, ma che ci ha aiutato a riconoscerci in quelle maestranze oppresse e nella loro ambivalenza.
Boris però non arriva dal nulla: nel 2007 Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo si conoscono già da quindici anni, trascorsi a scrivere assieme per il teatro, il cinema e la TV. Ne passeranno altri dodici prima della morte di Torre e in quasi trent’anni avranno messo a punto un universo coerente di personaggi riconoscibili e temi ricorrenti. Qui cercheremo di identificarne qualcuno, muovendoci attraverso film e serie prodotti dal trio prima e dopo quella del pesce rosso. Spoiler e spiegoni saranno inevitabili, ma scalfiranno solo la superficie di una miniera comica ancora intatta.
I giovani schiacciati dal contesto
Il rovesciamento carnevalesco della meritocrazia in Boris prevede che il grosso del lavoro venga svolto dalle merde (Alessandro, Lorenzo, poi Lalla): stagisti senza stipendio e senza prospettive che prestano tempo, fatica e dedizione a una produzione che li ripaga degradandoli al massimo. Alessandro firma la propria lettera di dimissioni in bianco (e gli assegni che non percepirà) appena entrato sul set. Lorenzo, dopo anni di schiavismo muto impostogli da Biascica, assaggia le legnate della troupe quando viene promosso assistente alla fotografia. A Lalla Arianna riconosce bravura e ambizione: per promuoverla? No, per punire la sua hybris minacciando di licenziarla.
Questi momenti fondanti del patto di abiezione tra produzione e stagisti lavorano su noi spettatori in maniera duplice. Da un lato c’è il cringe dell’immedesimazione con la vittima di turno; dall’altro c’è l’enormità dell’accanimento, semplicemente insostenibile senza il ricorso alla comicità come valvola di sfogo. E, se Slavoj Žižek fosse qui con noi, non mancherebbe di farci notare come la schiavitù sul set sia il doppio osceno della gerarchia ufficiale: a Biascica che si lamenta degli straordinari di aprile mai pagati, Sergio risponde minacciando di togliergli la proprietà esclusiva di Lorenzo.
Ogni maledetto Natale (2014)
Giulia (Alessandra Mastronardi) e Massimo (Alessandro Cattelan) si frequentano da poco: lei viene dalla provincia viterbese, terra di contadini ruvidi e contatto primordiale con la natura; lui è un Marinelli Lops, la famiglia dei magnati del panettone. Si incontrano a Roma, dove entrambi vivono e lavorano. Sembrano soddisfatti della loro esistenza, a debita distanza dai luoghi d’origine. Però il Natale si avvicina e l’incombenza della cena coi parenti ricorda che la loro individualità è un capriccio passeggero da sacrificare al superiore bene familiare. Non è più la produzione di Occhi del cuore, ma non ha nulla da invidiarle quanto a capacità di annientamento: è quella che gli autori stessi definiscono poetica della vessazione.
Massimo viene accolto dai fratelli di Giulia in quanto maschio, ma la sua estraneità al contesto è così lampante che il branco, invece di inglobarlo, lo isola e si definisce per contrasto: è la stessa dinamica tra stagisti iperqualificati e maestranze timorose di essere rimpiazzate. Cominciano a chiamarlo microcredito, l’attività di cui si occupa, che perde il suo significato specifico e ne assume uno più astratto e denso: una sorta di svantaggio cognitivo, un difetto di fabbrica, un’incapacità di stare al mondo. Giulia gioca in casa, ma non per questo è meno vessata. È divisa tra l’amore per Massimo e la volontà di proteggere la stranezza della sua famiglia dallo sguardo giudicante di lui, anche quando cerca di salvarla dalle loro assurde ingerenze. L’apice comico della prima parte del film è la partita a Spurchiafiletto, gioco di carte dalle regole incomprensibili: il sigillo tombale sull’isolamento linguistico e antropologico di Massimo.
Il malessere esistenziale del lavoratore
Essere giovani, avere interessi e nutrire fiducia nel proprio contesto di riferimento: tutti peccati mortali che verranno espiati – crescendo – a colpi di protezioni politiche, compromessi creativi, abuso di sostanze, genuflessione ai capricci della rete o dell’algoritmo. Il disagio della vita adulta è reale, schiacciante, ma nella scrittura di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo si manifesta in modi inaspettatamente poetici. Come nell’improbabile incontro tra Biascica e la psicoanalisi, propiziato dal meccanico Colla e causato da delle botte di paura forti. O come nel peculiare rapporto di Duccio con la vista, dalla rinuncia alla lettura al crogiolarsi in una cecità temporanea per evitare una realtà deludente.
Arrivata in paradiso quarant’anni prima, la classe operaia non ha mai lasciato la sua stanza imbottita: ha finito con l’appenderci i quadri alle pareti. La chiave comica è feconda, in quanto l’abbrutimento lavorativo e l’escapismo filosofico, apparentemente inconciliabili, coesistono nello stesso individuo. Spesso non ha le parole per esprimere il suo malessere, ma ci prova comunque. E noi ridiamo, perché lo spettacolo della sua inadeguatezza ci permette di esorcizzare la nostra.
Buttafuori (2006)
Sergej (Marco Giallini) e Cianca (Valerio Mastandrea) sono i due buttafuori dell’UFO, discoteca gestita da un minuto quanto mordace Capo (proprietario di “mezza Udine”). Quando non fanno selezione all’ingresso, non attaccano briga con qualcuno o non scambiano battute taglienti col resto dello staff, discutono dei libri che hanno letto, del senso della vita che sfugge a entrambi, di quanto sono infelici. Sergej è più pragmatico e guarda agli affanni del mondo dall’alto della sua rinuncia ai sentimenti. Cianca è emotivo, instabile, facile allo scoramento e ostaggio delle repliche asciutte del collega.
Gli episodi di Buttafuori sono suddivisi in brevi sketch: talvolta uno scambio fulminante di battute, più spesso una situazione complessa dove i due protagonisti danno prova di insospettabile acume, o di irredimibile scempiaggine. Il gusto per le microstorie del trio di autori qui ha già raggiunto la capacità sintetica di descrivere un mondo che ritroveremo in Boris. Così l’attività dei buttafuori ha un suo Pantheon di riferimento: Lanfranco Raggi, detto Colera, che negli anni ‘60 “ha messo sottosopra tutta Forte dei Marmi”; il buttafuori più famoso del Tibet, Er Malaya; le serate di banditi al Mundo Secundo di Torvajanica, dove hanno ammazzato il Molestia.
Narcisse
In uno dei rari casi in cui il dialogo è esteso a più personaggi, Sergej racconta alla cubista Anita (che studia filosofia) come ha conosciuto Narcisse, l’aiuto-buttafuori rumeno. Narcisse è lì con loro ma sembra stare su un altro pianeta: mastodontico e impassibile, con lo sguardo fisso sulle persone in attesa di entrare. Sergej ne magnifica le doti di forza bruta, ma ammette che non abbia puntato proprio tutto sull’intelligenza. A Cianca che gli chiede se è vero, Narcisse risponde nella sua lingua: sarei uno stolto se avessi puntato tutto sull’intelligenza e non sul cuore.
Avviene così un piccolo miracolo dell’incongruo: mirando a Flaubert si arriva ai Baci Perugina, al romanticismo in pillole, a Tolstoj letto sillabando le parole sottovoce (come fa Cianca per rilassarsi a fine turno). E la domanda di fondo (che forse è già un’affermazione) è: sono i buttafuori che costringono lo scibile umano nello spazio angusto delle loro interazioni o è lo scibile umano che libera i buttafuori dalla routine coatta delle loro serate davanti all’UFO?
L’artista indigente
Stanis sente che la televisione è troppo stretta per le sue debordanti capacità sceniche e vorrebbe metterle alla prova in un contesto più consono: il teatro. Nella galassia Boris il teatro è il tempio della recitazione, il luogo d’elezione dove dedicarsi all’arte pura – almeno fino al sopraggiungere della morte di stenti. Perché si sa, le produzioni teatrali danno prestigio ma non da mangiare: capita così che un Orlando Serpentieri approdi alla fiction televisiva, destreggiandosi confuso tra cani e raccomandati, perché il mutuo non si estinguerà da solo.
Il vero simbolo del teatrante indigente è però Tino Tini, che fa la sua timida comparsa sul set di Occhi del Cuore quando Stanis decide di ingaggiarlo come consulente alla recitazione. Tino si trova nella scomoda posizione di essere definito “il più grande drammaturgo vivente” – lui che al massimo ha messo in scena qualche testo sperimentale in teatri off – e allo stesso tempo dover dipendere dai capricci di Stanis, che in fondo lo tratta come tratterebbe un qualsiasi schiavo.
Gli scherzi che ti fa la fame
L’artista indigente ritorna spesso nel lavoro di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo ed è una variante sia del giovane schiacciato dal contesto che del malessere esistenziale del lavoratore. Tino fa la fame, ma artisticamente è libero di esplorare dimensioni interpretative che Stanis può solo immaginare, nell’intervallo tra una faccia basita e l’altra. Spinto da una volontà di rivalsa, Stanis si appropria delle competenze di Tino per aumentare le sue quotazioni attoriali, senza per questo riconoscergli un giusto compenso. Da parte sua Tino, abituato a una vita di privazioni da ben prima di conoscere Stanis, è così emozionato all’idea di avere accesso ai teatri maggiori da trovare tutto sommato tollerabili le sue angherie.
Questa tensione irrisolvibile tra chi ha potere ma non ha creatività e chi ha creatività ma non ha potere è un tema che Boris mette a fuoco con precisione chirurgica, applicandolo all’industria dell’intrattenimento. Ma non è una denuncia moralizzante: non è nell’intenzione degli autori riformare il sistema dall’interno, neanche quando mostrano i tentativi di sindacalizzazione di attori e maestranze. L’intento è piuttosto quello di sbugiardare la retorica da conferenza stampa: quella dove la troupe è sempre unita, il regista sempre impegnato, i protagonisti sempre ispirati, le trame sempre avvincenti, il settore sempre in crescita. Rovesciando la prospettiva è un miracolo quando, a margine della monnezza imperante, un barlume autoriale sopravvive fino a trovare forma compiuta (come in Liberté! Egalité! Prensilité!, 4×06).
Buttafuori – Passione per il teatro
A dirla tutta, poi, Tino Tini non è neanche il teatrante che se la passa peggio. Il suo collega che vuole appendere la locandina de La morte lenta fuori dall’UFO (sempre interpretato da Giulio Ferretto) ne sa qualcosa.
Un uomo tenta di impiccarsi, non ce la fa e da appeso fa un lungo discorso col pubblico: è uno spunto comico o amaro? La divergenza di lettura tra i buttafuori e il teatrante è legittima. Il lavoro dei primi è – metaforicamente – rimanere appesi per un turno di otto ore, con attorno al collo il cappio di un’esistenza vissuta a metà (Cianca ne sa qualcosa). Riconoscere l’amarezza della situazione comporterebbe un surplus di vessazione francamente intollerabile: è uno spunto comico. Viceversa il teatrante ha bisogno di una motivazione forte per sconfiggere il senso di inutilità derivante da un mestiere a cui si dedica anima e corpo e che neanche può definire tale. Riconoscere la comicità della situazione sminuirebbe il suo patimento (e la sua importanza autopercepita): è uno spunto amaro.
La situazione degenera quando l’attore dichiara candidamente che la sua è un’attività improduttiva: non prendo nulla, anzi è un miracolo quando non ci rimetto. Paranoia, impazienza e aggressività sono le reazioni di Sergej e Cianca di fronte a qualcosa che non solo gli è ignoto, ma anche inconcepibile. Lo bullizzano, lo chiamano Arlecchino, gli fanno la predica. Ridiamo sapendo quanto sia sbagliato prendersela con lui, ma non possiamo dare torto ai buttafuori per la loro reazione. Forse perché intuiamo sia all’opera lo stesso trauma intergenerazionale di Biascica: la violenza che usano sugli altri è la stessa che è stata usata su di loro.
Il comico trucido
Nando Martellone viene chiamato a partecipare a Occhi del cuore per sviluppare la cosiddetta “linea comica”, individuata da Lopez come l’elemento mancante per replicare il successo di Libeccio. Martellone è diventato famoso con lo spettacolo Bucio de culo, ma sta pensando di virare decisamente verso destra col monologo successivo, E ‘sti cazzi. Nonostante le perplessità di René il suo personaggio raccoglie consensi, e sopravvive (seppur in coma) allo scandalo sessuale che lo coinvolgerà più avanti.
Finisce Gli occhi del cuore, inizia Medical dimension: la produzione chiede più realismo e Nando ne approfitta per mettersi alla prova come attore drammatico, “come Lino Banfi”. Nel frattempo il pubblico ha dimenticato lo scandalo sessuale e acclamato Martellone come personaggio di spessore dopo la sua sofferta partecipazione al reality La casa senza bagno. René lo convolge ancora una volta nella serie Vita di Gesù, dove si verifica un peculiare corto circuito: il regista pensa a lui per uno Zaccheo simpatico, lui vuole farlo come Gifuni.
Ciarrapico, Torre e Vendruscolo creano con Martellone un personaggio duplice. È il cabarettista di terz’ordine che fa le battute sul traffico e sulla suocera, che scrive i suoi spettacoli con piglio qualunquista, che riempie i buchi di senso con tormentoni e pernacchie. È anche il personaggio pubblico che riesce a sopravvivere a sé stesso nonostante i rovesci di fortuna, che si adatta alle ospitate più degradanti e riesce a volgerle a suo favore, che si pensa artista versatile perché è il primo ad abboccare alle sue stesse campagne di immagine.
Dov’è Mario (2016)
Togliamo a Martellone lo status di attore di fiction e guardiamolo mentre si fa le ossa in qualche teatro del sottobosco capitolino, dove sogna di diventare il prossimo Enrico Brignano, ma senza lo charme sornione da prima serata su Rai Uno. Di più: facciamolo diventare la seconda personalità di un intellettuale borghese di centrosinistra, venuta fuori dopo un incidente automobilistico (forse un tentato suicidio). Questa, in breve, è la trama di Dov’è Mario, scritto da Mattia Torre e Corrado Guzzanti, con lo stesso Guzzanti protagonista.
Mario Bambea (l’intellettuale) e Bizio Capoccetti (il comico) si contendono lo stesso corpo, ma sono in lotta anche per l’egemonia culturale. Bambea non vuole arrendersi all’idea che la sua funzione civica di accademico girotondista si sia esaurita; Capoccetti scalpita per avere la visibilità che merita nell’epoca del politicamente (e grammaticalmente) scorretto. Quello che entrambi capiranno (Martellone docet) è che basso e alto si alternano sulla giostra della legittimazione pubblica, e solo chi padroneggia entrambi i registri riesce a rimanere a galla. A patto, ovviamente, che ci sia un intellettuale disposto a pontificare sull’opportunità dell’avvicendamento.
Rispetto alla vocalità disarticolata di Martellone o alla comicità anemica degli interpreti di Troppo Frizzante (la sit-com che Renè dirige all’inizio della terza stagione), le performance di Capocetti sono ancora discutibili, ma dimostrano una padronanza del mezzo mai vista prima nella galassia Boris. Si esibisce dal vivo di fronte a un pubblico che salta alla giugulare dei comici meno divertenti, e ne guadagna il rispetto asfaltando i disturbatori. Sottrae pezzo e identità a un resident dell’Odeon Off, sostenendo che “la merda non si ruba, si migliora”. Il suo umorismo osservazionale è trucido, ma anche stranamente colto: non si può ascoltare il monologo sulla famiglia persa nel parcheggio del centro commerciale senza pensare a uno degli episodi più riusciti di Seinfeld.
Il professionista lestofante
L’Italia è una repubblica fondata sulle attività illecite svolte per arrotondare lo stipendio e la galassia Boris pullula di personaggi pirateschi o, per dirla con Glauco, simpaticissimi bastardi abbronzati e corrotti. Potremmo elencarne numerosi: padre Gabrielli, l’agente di Mariano ammanicato con la camorra; l’avvocato di Cristina, che suggerisce a Lopez un modo per riciclare il denaro sporco del socio Michele; lo stesso Glauco e le sue manovre per aggirare il divieto di pubblicità occulta nella fiction televisiva. Su tutti svetta Sergio, il direttore di produzione: quello che al gabbio non ci torna fino alla terza stagione, e che nella quarta gestisce una batteria di sceneggiatori direttamente dalla galera.
Il professionista lestofante non disdegna contatti col crimine organizzato, ma non si lascia definire dall’affiliazione: mantiene una certa levità di spirito, un candore efferato che giustifica il ricorso a violenza e corruzione con passatempi ad altissimo mantenimento (la villa a Johannesburg, la collezione di pelli d’orso). Dal punto di vista economico è l’opposto dell’artista indigente, perché ha capito presto che benessere e compromesso vanno a braccetto. Ciò non significa che non soffra del malessere esistenziale del lavoratore, ma la sua è una sofferenza estroversa e gaudente, di quelle che lasciano volentieri il conto da pagare a chi arriva dopo. Ti ammiro molto, dice Duccio a Glauco, e ne capiamo istintivamente il motivo: la mediocrità che ha affondato Duccio Glauco è riuscito a domarla e cavalcarla.
Liberi tutti (2019)
Se in Boris lo spunto comico è gettare un ragazzo sprovveduto e idealista su un set di cialtroni e maestranze incattivite, in Liberi tutti si ottiene lo stesso risultato a parti invertite. Michele Venturi (Giorgio Tirabassi) è un avvocato trovato in possesso di 25 milioni di euro di provenienza illecita, arrestato e spedito a trascorrere i domiciliari al Nido, la comunità di cohousing dove vive l’ex moglie Eleonora. Qui le decisioni vengono prese collettivamente, nel rispetto dei rapporti umani e dell’ambiente. Tutti lavorano per il benessere comune, e l’arrivo di Venturi – ricco, amorale, egoista – viene accolto con l’entusiasmo solitamente riservato al rumore di unghie sulla lavagna.
Nonostante il passaggio sulla TV generalista annacqui un po’ la loro proverbiale scorrettezza, Ciarrapico e Vendruscolo continuano a costruire personaggi vulnerabili e irritanti in egual misura, resi tridimensionali dalla specificità delle loro nevrosi. C’è Iolde, la figlia dei fiori con la fissa per i drink depurativi a base di acqua e aceto; Lapo, che diventa il faccendiere di Venturi pur considerandolo una persona spregevole; Dionisotti, il militante vecchia scuola che accoglie con sgomento le contraddizioni postideologiche affrontate dal Nido. Liberi tutti si muove sulla scia di Boris mantenendone il cast corale e tenendolo impegnato in una pluralità di sottotrame che aumentano il ritmo narrativo e scongiurano l’emersione di moralismi indebiti.
Venturi finirà per prestare la sua flessibilità etica alla soluzione di un problema che rischia di far chiudere il Nido e recupererà parte della sua umanità perduta nel rapporto con la figlia adolescente. Ma il suo momento migliore sarà quello da allenatore al malaffare, quando istruirà il cohouser Riccardo su come incentivare all’azione un funzionario dell’ASL:
Con la mazzetta c’è un momento preciso, il “qui e ora”. Quando senti che arriva quel momento, tu la mazzetta la devi porgere, con grazia.
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Immagine di copertina: Boris il film (© Luisa Cosentino – Assunta Servello)