Brian Jones

Rolling Stones – Brian Jones (A&BC Chewing Gum Cards)” by Bradford Timeline su licenza CC BY-NC 2.0

È il 5 luglio. Londra è soffocata da una pesante cappa di umidità alla quale si cerca di sopravvivere, pur sapendo che il plumbeo cielo, oggi, non concederà la sua classica, consueta pioggia. Sono le 6 del pomeriggio e Hyde Park inizia lentamente a riempirsi di gente. Tutto è avvolto in una lentezza totalmente estranea al ritmo tipico dei londinesi. Anche gli operai lavorano sornioni nell’allestire il palco attorno al quale le persone si stanno radunando. A guardare quella scena, si potrebbe pensare che nessuno sia convinto che quell’evento avverrà davvero. E non perché si tratta del concerto gratuito di una delle due più grandi band della storia, i Rolling Stones.

È il 1969 e sembra che il mondo stia cambiando. Soprattutto il mondo della musica: i Beatles, barbe lunghe e pellicce, hanno inaugurato l’anno con uno strano concerto sul tetto di un edificio, lasciando a tutti l’inquietante impressione dell’addio. Da qualche ora, invece, i Rolling Stones hanno appena visto morire uno dei loro fondatori, Brian Jones.

È successo appena due giorni prima e ancora non è chiaro come sia potuto accadere. D’altronde, non lo sarà ancora per moltissimo tempo. Quel che è certo è che il 3 luglio di quel 1969 Brian è stato ritrovato sul fondo della sua piscina, affogato. 

La notizia si è già diffusa in maniera inevitabile, rendendo inutili i tentativi di nasconderla da parte dei manager e degli stessi compagni della band. Il rispetto per la tragedia accaduta ad un amico, certo, ma anche l’interesse nel non trasformare in un oltraggio alla sua memoria quello che era stato programmato, già settimane prima, come l’evento di presentazione del suo sostituto, Mick Taylor

L’abbandono

Brian Jones, infatti, non era più ufficialmente un membro degli Stones da poco meno di un mese. La sua crescente e inarrestabile dipendenza dalle droghe lo aveva portato alla depressione e alla totale inabilità nel suonare qualsiasi strumento. Una problematica iniziata già nel 1967, durante le incisioni di Beggars Banquet, e peggiorata in quelle dell’album successivo, Let It Bleed, durante le quali Brian, le rare volte in cui si presentava, veniva ritrovato in un angolo degli studi a piangere. Ma è quando i Rolling Stones programmano il tour negli Stati Uniti per l’estate del 1969 che Brian diviene definitivamente un peso da scaricare: le autorità statunitensi gli negano il visto, dati i suoi precedenti penali per possesso di droga.

Nel primo pomeriggio dell’8 giugno, Brian sente suonare il campanello della sua sontuosa villa londinese. Sono gli amici di una vita: c’è Mick in testa, seguito da Keith e, poco più lontano, Charlie. Ma non hanno le facce di chi è venuto a fare baldoria, come loro solito. I volti sono cupi, i lineamenti forzati in espressioni di compassione: Brian si è calato un acido qualche ora prima, ma nemmeno così riesce ad ignorare il motivo per il quale sono andati a trovarlo. In fondo, sa che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. 

Il giorno dopo Brian annuncia ufficialmente la sua decisione di abbandonare i Rolling Stones.

Sperimentazione, ribellione: eccentricità

Quando nel 1962 li aveva conosciuti, Mick e Keith erano poco più che due ragazzini innamorati del blues. Come Brian, dopotutto. Ma lui aveva qualcosa in più: aveva già vissuto una vita, in un viaggio bohémien nel nord europa, a suonare per le strade e sperimentare, nei primi anni ’60, quando ancora non nessuno osava farlo. Sesso, droga e, soprattutto, musica.

Già da bambino passava da uno strumento all’altro: se lo faceva regalare dai benestanti genitori, lo studiava e lo suonava fino a consumarne l’interesse, poi si rivolgeva verso qualcosa di nuovo. Una sorta di genetica predisposizione al polistrumentismo. Già a 22 anni veniva considerato come il miglior virtuoso bianco di slide guitar, suonava abitualmente più di 15 strumenti, diversissimi tra loro, dalle corde ai fiati, e continuava ad impararne con una semplicità disarmante per qualsiasi altro musicista. Tutto questo in lui si abbinava alla ricerca costante di nuove sonorità, che lo portò perfino ad entrare negli spazi sconosciuti di quella che, oggi, viene considerata come l’origine primordiale della musica elettronica. Una sperimentazione spasmodica che solo la morte sembrava poter interrompere. 

È lui a dirigere la chitarra di Keith verso quei ritmi che lo renderanno mitico. È lui a gettare per la prima volta Mick su un palco, davanti a un microfono. Al loro fianco, Brian inventa sound, melodie, il nome che li consacra alla Storia. E inventa anche il loro stile.

Perché tutti ricordano Mick nella veste di icona della moda, rockstar per antonomasia, simbolo indiscusso del pop. Ma Brian era pop prima che il concetto di pop venisse istituzionalizzato. Aveva rievocato la moda bohémien e anticipato quella hippy, creato la figura della rockstar prima ancora che avesse senso esserlo, quando Mick Jagger combatteva ancora contro la timidezza. Per le strade di Londra, tutti sapevano che stava passando Brian Jones, annunciato dalla sua mastodontica Rolls-Royce Silver Cloud, accompagnato dall’autista e da almeno due ragazze, sempre diverse. 

Brian aveva creato quella Londra piena di colori sgargianti e di eccentricità della quale Mick, in seguito, diventerà il re. E lo aveva fatto con la spontaneità di un bambino, con la stessa curiosità che lo portava da uno strumento all’altro, guidato da un innato senso di ribellione, forse contro le regole, forse semplicemente contro la piattezza e la noia. Fino all’eccesso, quello che lo ha ucciso a soli 27 anni.

Per tutto questo, Brian era riconosciuto come il membro più eloquente e maledetto dei Rolling Stones. Ed è incarnando la sua trabordante personalità che gli Stones hanno definito la loro identità, quella che, al di là della musica, li ha resi il simbolo di un disprezzo epidermico verso  qualsiasi conformismo e costrizione sociale. Forse, quella dei Rolling Stones e di Brian Jones sono due parabole che hanno percorso un breve e determinante tratto di strada in parallelo, per poi dividersi in direzioni opposte: mentre la prima ascendeva verso la leggenda, l’altra, che aveva acceso la scintilla di quella stessa leggenda, cadeva inesorabilmente verso il baratro. 

O verso il fondo di una piscina.

La verità e il funerale

Nel 2000, a distanza di 31 anni dalla sua morte, l’allora fidanzata di Brian, Anna Wohlin, dichiarerà che si era trattato di un omicidio. Ad assassinarlo era stato Frank Thorogood, un costruttore che in quel periodo si trovava spesso nella villa di Brian per ristrutturarla. I due, probabilmente strafatti e ubriachi, stavano giocando nella piscina, quando Thorogood spinse scherzosamente la testa di Brian sott’acqua che, però, smise quasi subito di opporre resistenza e svenne, scivolando privo di sensi sul fondo della piscina. Thorogood, preso dal panico, invece di tentare di salvarlo, uscì dalla piscina e rientrò nell’abitazione.

Frank Thorogood confesserà la verità solo sul proprio letto di morte all’allora autista dei Rolling Stones, Tom Keylock. E questa viene considerata la versione definitiva su quel che avvenne il 3 luglio del 1969

“64-0711-01 – Brian Jones – The Rolling Stones (Pop Weekly 2-46)” by Bradford Timeline, su licenza CC BY-NC 2.0

Qualche giorno dopo, il 10 luglio per l’esattezza, il tempo necessario per svolgere tutte le indagini di rito sul suo corpo (e non scoprire la realtà dei fatti), viene celebrato il suo funerale, a 150 km da Londra, nella città dove Brian è nato. Forse, finalmente, anche lì come a Londra, la cappa di afa è stata spezzata da una pioggia fitta ma leggera. Ne sono di certo contenti i becchini ai quali è stato imposto di scavare ben 4 metri di terra per evitare i tentativi di esumazione dei fan più folli. Brian viene calato lì sotto dentro una bara laminata di argento offerta da uno dei suoi tanti fan d’eccezione, Bob Dylan

Ma Dylan non c’è quel 10 luglio. E non ci sono nemmeno Jim Morrison, Jimi Hendrix, Pete Townshend, né altre decine di musicisti che lo celebreranno gli dedicandogli canzoni e poesie. Non ci sono fan, allontanati dalla segretezza e dall’esplicita richieste del gruppo stesso. Soprattutto, non ci sono Mick e Keith: hanno scelto di essere altrove. Degli Stones ci sono solo Charlie Watts e Bill Wyman, e attorno a loro pochissimi ombrelli neri e nessuno dei colori sgargianti che Brian amava. 

Sembra esserci solo molto imbarazzo e molta fretta. Tanto che, forse, nessuno dei presenti si sofferma a leggere la frase incisa sulla sua lapide: “Non giudicatemi troppo severamente”.

L’altro, autentico funerale di Brian Jones

Eppure, qualche giorno prima, quel 5 luglio soffocante all’Hyde Park di Londra, la fretta non esiste. Sotto il cielo plumbeo privo di speranze di pioggia, c’è la straziante lentezza di chi ancora non si capacita di quel che è successo, la stessa sensazione che si ha nel dormiveglia tra sogno e realtà. E quella lentezza sembra avere un rumore ben preciso, il silenzio. Decine di migliaia di persone, lente e mute, riempiono Hyde Park invadendo la natura con quella sensazione insistente e tremenda che non smette neppure quando i Rolling Stones salgono finalmente sul palco. Non hanno in mano gli strumenti, c’è solo il microfono al quale Mick si avvicina mestamente con un foglio in mano.  

Legge Adonais, la poesia che Percy Shelley scrisse per la morte del suo giovanissimo amico John Keats, scomparso prima di compiere 27 anni. Mentre la voce di Mick si spande sul silenzio assoluto della folla, alle sue spalle vengono spalancate all’improvviso delle scatole di legno contenenti migliaia di farfalle bianche. 

Solo alcune riescono a librarsi in volo, ma sono evidentemente stordite, stremate dal caldo, e a centinaia si piegano su loro stesse ricadendo sul palco: quelle decine che riescono a raggiungere a fatica la platea cadono rovinosamente sul pubblico proprio mentre Mick si allontana dal microfono.

Una pioggia di farfalle bianche sui fan della band che ha fatto nascere e che lo ha ripudiato: l’autentico funerale dell’eccentrico, ribelle, sregolato Brian Jones. 

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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