Onoriamo il ricordo di Chadwick Boseman parlando del film che lui stesso ha definito l’onore della sua carriera, perché Black Panther non è mai stato solo un cinecomic.
Gli eroi, per quanto potevo vedere, erano sempre stati bianchi e non solo a causa dei film ma anche della terra in cui vivevo, di cui i film non erano che un riflesso (…). È un grande trauma scoprire che il Paese in cui si è nati, a cui si devono vita e identità, non abbia creato un posto per noi nel suo sistema di realtà.
James Baldwin
Ecco, bastano queste celebri parole di James Baldwin per capire che generazioni di afroamericani sono cresciute facendosi spazio tra la violenza e il rifiuto della società a cui appartengono. Bambini, poi diventati adulti, hanno visto la loro immagine svilita, umiliata, mal rappresentata per decenni nel sistema dell’intrattenimento statunitense. Il principe T’Challa, nel corpo e nel volto di Chadwick Boseman ha cambiato tutto questo per sempre. Ha dato ai ragazzi afroamericani il riflesso di un supereroe che somigliasse veramente a loro. E forse noi non ce ne rendiamo conto perché abbiamo infinite versioni di Batman e Superman, ma le politiche della rappresentazione sono una cosa seria. Determinano cosa siamo disposti a vedere, notare e conoscere nella vita reale, per questo Black Panther ha fatto la storia.
Black Panther, il grande crossover
Black Panther è l’esempio più eclatante e più riuscito di produzione crossover degli ultimi anni. È cioè un film che agisce su due livelli, per due tipologie di pubblico che si intersecano. È un cinecomic Marvel ma contemporaneamente un black movie. Da un lato si inserisce in un universo culturale decisamente pop, dall’altro è il risultato del lavoro di un cast artistico e tecnico molto specifico e prevalentemente black. È come se si trattasse di due film diversi che collimano e riescono a trovare un compromesso.
Un aspetto molto interessante del film, infatti, è il modo in cui gli elementi culturali specifici sono introdotti in una narrazione generalista. Il regno di Wakanda sarà pure un’utopia, ma riassume in sé molti elementi reali dell’enorme ricchezza culturale dell’Africa. Black Panther riesce innanzitutto a concretizzare e umanizzare la complessità delle diverse identità africane a partire dalla costruzione delle immagini e della messa in scena. Solo alcuni esempi sono il copricapo tradizionale Zulu della Regina Madre o i dreadlock rossi degli Himba. Ed è bene ricordare che scenografia e costumi, premiati con i rispettivi premi Oscar, sono memorabili opere di artiste afroamericane: Hanna Beachler e Ruth Carter.
Ancora più rilevante è il fatto che i personaggi parlino idiomi esistenti (come la lingua Xhosa) e non inverosimili accenti da stereotipo. La volontà del regista Ryan Coogler è stata in primo luogo quella di rappresentare in una maniera soddisfacente e rispettosa la Madre Terra Africa, considerando soprattutto quanto quest’ultima conti nel dibattito attuale sull’identità afroamericana, con particolare riferimento al Panafricanismo e all’Afrofuturismo. In quest’ottica si aggiunge la precisa scelta di un cast in grado di riflettere la diaspora africana.
Oltre agli afroamericani Angela Bassett, Forest Withtaker, Michael B. Jordan e lo stesso Boseman, molti altri popoli neri sono rappresentati. Winston Duke è di Tobago, Letitia Wright della Guyana, Lupita Nyong’o è kenyota, Danai Gurira originaria dello Zimbawe. Originari dell’Uganda sono poi i due europei del cast, Daniel Kaluuya, di nazionalità britannica, e Florence Kasumba, tedesca.
Utopia di un mondo non colonizzato
L’intento è chiaramente quello di tracciare una connessione fra i popoli neri in ogni continente. Non è solo un’alleanza simbolica o l’utopia di un mondo non colonizzato. È la costruzione di una vera e propria mitologia per il supereroe, che attinge a un mondo antico quanto l’umanità stessa.
Black Panther si presenta e si dimostra una (necessaria) fantasia sul potere nero e contemporaneamente una critica sociale. È il desiderio di un mondo ormai impossibile, ostacolato nella sua essenza dalla Storia stessa. L’idea di un protagonista nobile, il re potente e sovraumano di una nazione mai invasa e mai deturpata dalle razzie occidentali è esattamente l’incarnazione di questa utopia.
T’Challa è maestoso e autorevole, ma è una figura totalmente simbolica, non riconducibile storicamente ad alcuna realtà. Il vero soggetto afroamericano, invece, a lui complementare è Erik Killmonger, su cui si riversa la stessa frustrazione che anima le strade al grido di Black Lives Matter, la stessa rabbia sociale che invita ad agire by any means necessary.
Uno non può esistere senza l’altro, entrambi sono personaggi essenziali nell’immaginario costruito dal film. Eppure oggi ricordiamo soprattutto la forza e l’influenza di T’Challa, per il messaggio di empowerment che è stato in grado di trasmettere a grandi e piccoli spettatori. È questa forse l’eredità più grande che lascia Chadwick Boseman, young, gifted and black, strumento consapevole di una rivoluzione delle immagini attraverso il suo stesso corpo.