La porta della stanza d’albergo è chiusa dall’interno. Dentro non c’è nessuno, anche il letto è intatto. Sopra, c’è la custodia di una tromba: lo strumento è ben riposto al suo interno, con molta cura.
Accanto ad essa, una siringa. Vuota.
La finestra è aperta, spalancata, nonostante l’aria di Amsterdam sia ancora fresca in quella mattina senza sole di un giorno di maggio del 1988.
Sdraiato sul davanzale
Chet Baker amava suonare la sua tromba seduto sul davanzale della finestra. Il suo era un bisogno: unire il fiato dei suoi polmoni con l’aria del mondo, come se fosse quell’incontro a creare la musica.
C’è ancora chi ricorda di averla sentita quella creazione, nel momento stesso in cui nasceva: basta andare a Lucca, intorno a quel carcere dove Chet è stato rinchiuso per 16 mesi nei primi anni ’60. Era stato trovato dentro il bagno di una stazione di servizio sulla strada verso il celebre locale la Bussola dove lo aspettavano per un concerto: aveva ancora la siringa nel braccio e tanta eroina, in corpo e nelle tasche.
In carcere gli concedevano di suonare la sua tromba, dieci minuti al giorno. Restava nella sua cella e semplicemente si appoggiava al davanzale sbarrato dal mondo esterno, infilava la tromba tra le sbarre e liberava la sua musica.
Dalla reclusione di una prigione, era capace di affascinare un’intera città, dieci minuti al giorno. Ed era solo la soddisfazione di uno spontaneo, innato bisogno.
Il bisogno di musica
Quando era poco più che un ragazzo, lasciata la carriera militare, si è trovato una sera a suonare in un locale piuttosto affollato, di gente comune e fuori dal comune. C’era Charlie “Bird” Parker, ad esempio, che, non appena finita l’esibizione, si è alzato dal suo tavolo per avvicinarsi a quello dov’erano seduti Miles Davis e Dizzie Gillespie. Si è chinato sussurrandogli qualcosa del tipo:
“questo piccolo gattino bianco vi darà filo da torcere“.
Qualche mese dopo, Chet è partito in tour con lo stesso Charlie Parker per il sud degli Stati Uniti.
Ma che avrebbe dato filo da torcere ai mostri sacri del jazz se ne ebbe la certezza poco tempo dopo, quando il suo modo di fare jazz, così diverso dal Bee-bop, dal jazz modale e da qualsiasi cosa già esistesse, trovò un nome: “cool jazz“.
“Cool” non è semplicemente un aggettivo, ma è un modo di essere, un fascino naturale, capace di irretire anche solo con un gesto, spontaneo e tremendamente attraente.
Cosi è il suo jazz, così è Chet Baker: note prolungate e languide, spesso improvvisate, che si distendono attraverso l’intimità della sua tromba e della sua voce vellutata. Una voce d’angelo.
Come d’angelo è il suo volto.
Almeno fino al momento in cui un altro bisogno non lo deturpa: l’eroina. Un bisogno grande quanto quello della musica, eppure così diverso rispetto alla sua libertà da esserne l’esatto opposto, una schiavitù.
Il bisogno di eroina
Forse succede proprio in quel tour con Charlie Parker, forse già era successo prima e con Charlie inizia a legarla inscindibilmente alla sua vita: Chet conosce l’eroina.
Da quel momento diventa l’altro grande bisogno della sua vita, tanto grande da arrivare al livello della musica e, a volte, superarlo, come quando impegna la propria tromba per pagarsi una dose.
Chet e l’eroina: un bisogno tanto grande da non essere stato capace di contenerlo all’interno del tempo della propria vita. Per l’eroina finisce più volte in prigione, per l’eroina abbandona i suoi figli, lascia le donne della sua vita, per l’eroina programma o cancella i suoi tour e i suoi dischi: per l’eroina rinuncia alla musica.
Succede più di una volta: Chet Baker sparisce. E dopo l’ennesima scomparsa, ormai tutti sanno che sta fuggendo da qualche spacciatore.
Una volta, però, nel 1966, sembra scomparso per sempre. Volatilizzato. Non lascia dietro di sé alcuna traccia, né alcun suono di tromba. Passano i mesi e gli anni, ma quello che forse è il più grande trombettisti jazz di sempre sembra essersi dileguato nel nulla.
Poi un giorno, senza aspettarselo minimamente, Dizzie Gillispie va a fare benzina in una stazione di servizio. Distrattamente, chiede al benzinaio di fargli il pieno della Cadillac, mentre una ragazza al suo fianco ride nel pieno del loro gioco di seduzione.
Anche Dizzie ride, ma per un attimo, dallo specchietto retrovisore, incrocia il viso del benzinaio. Ha dei solchi profondi sulla pelle e tutta l’espressione del volto è deformata dall’assenza evidente degli incisivi superiori.
Eppure, sotto un sorriso stanco col quale cerca di preservare i clienti dalla propria amarezza, Dizzie riconosce i tratti angelici di Chet Baker.
Proprio una notte di quel 1966 nel quale si perdono le sue tracce, alla fine di un concerto, fuori dal locale, Chet viene spinto in una strada buia da due uomini che lo pestano. La mascella si spezza e gli incisivi superiori, già marci dall’abuso di eroina, saltano.
Chet Baker is back
Senza denti, senza soldi, forse anche senza la propria tromba, impegnata per pagare qualche debito, Chet non ha più nulla. Nemmeno la musica. Dizzie lo sa e lo rimette in piedi: gli paga le cure alla mascella, una dentiera e gli rimedia una tromba.
“Chet Baker is back“, titolano le locandine che pubblicizzano i suoi nuovi concerti. Fuori dai locali di tutto il mondo, la fila è lunga per vedere quel jazzista che è già leggenda. Anche se forse in pochi sanno che non vedranno suonare il vecchio Chet.
È un musicista nuovo: ha dovuto adattare il suo modo di suonare la tromba a quella dentiera senza la quale non riuscirebbe ad emettere alcun suono.
Eppure, sotto quel volto segnato da rughe profonde, c’è ancora lo spirito di un angelo. D’altronde, chi è cool non può mai smettere di esserlo, qualsiasi cosa accada.
Lo si percepisce in maniera chiara dalle melodie della sua tromba, dal modo in cui le note, spontanee, continuano ad uscirne con un calore ancora più avvolgente.
Lo si percepisce da quella voce che canta ancora col timbro di un angelo, ma di un angelo passato attraverso l’inferno, del quale trasmette il dolore in ogni singola sillaba che soffia fuori dal petto.
Forse soltanto perché, in realtà, da quell’inferno non ne è mai uscito. E non ne uscirà mai, continuando ad attraversarlo avanti e indietro, anche quando si ricorda della propria natura angelica, avvicinando alle labbra la propria tromba.
Il volo dell’angelo
La porta della stanza d’albergo è chiusa dall’interno. Dentro non c’è nessuno, anche il letto è intatto. Sopra, c’è la custodia di una tromba: lo strumento è ben riposto al suo interno, con molta cura.
Accanto ad essa, una siringa. Vuota.
La finestra è aperta, spalancata, nonostante l’aria di Amsterdam sia ancora fresca in quella mattina senza sole di un giorno di maggio del 1988.
Due piani sotto, sulla strada ancora vuota di passanti, c’è il corpo di un uomo. Una pozza di sangue gli incornicia la testa fracassata dall’impatto su un piccolo pilastro di cemento del marciapiedi.
Sembra l’icona sacra di un angelo volato definitivamente fuori dall’inferno.