Tedy Ursuleanu in

Fa male, vedere Collective, il film di Alexander Nanau disponibile su IWonderfull (la piattaforma streaming del distributore italiano I Wonder): EFA 2020 come miglior documentario, in corsa nella stessa categoria (e in quella di miglior film internazionale) ai prossimi Oscar. Farebbe male sempre e comunque, perché racconta la tragedia (vera) di oltre 60 vite spezzate, non solo e non tanto da un incidente (l’incendio nel Club Colectiv di Bucarest, il 30 ottobre 2015), quanto da un regime politico-economico marcio che, in nome del profitto e del potere, dimentica i diritti. Ma fa male ancora di più vederlo oggi. Perché le ingiustizie e i crimini di cui si parla riguardano il sistema sanitario che la pandemia ha posto al centro del dibattito. Rivelandone, ben oltre il caso rumeno, contraddizioni e umiliazioni arrecate da governi che non hanno messo (e spesso ancora non mettono) la salute pubblica al primo posto.

Lo scandalo (politico) della verità

Il ministro Vlad Voiculescu in Collective. Credits: Alexander Nanau Production, Samsa Film, HBO Europe, I Wonder Pictures.

«Con questo film voglio dimostrare la necessità di non dare per scontate la democrazia e la giustizia sociale», ha dichiarato Nanau (anche direttore della fotografia, co-produttore, co-autore del montaggio e della sceneggiatura) presentando il film, passato nel 2019 per i festival di Venezia e Toronto. È infatti esplicitamente politico il discorso di Collective, a partire dai terribili fatti del 2015 nella capitale rumena: dopo l’incendio nel locale (privo di uscite di sicurezza), che provoca la morte di 27 persone, altre 37 muoiono nei giorni successivi al ricovero. La causa di questi ultimi decessi, tuttavia, non è da attribuirsi alle ustioni, ma a infezioni batteriche contratte dai pazienti nell’ospedale, dove, tra le altre cose, i disinfettanti utilizzati risultano diluiti fino a dieci volte più del dovuto. Tutto questo mentre il governo assicura che le cure offerte sono «al livello dello standard europeo», anzi addirittura «come in Germania».

Il film segue l’inchiesta giornalistica che, da questi eventi, fa emergere una rete di corruzione in cui tangenti e favori legano case farmaceutiche (come la Hexi Pharma, produttrice dei disinfettanti diluiti), direttori di diversi ospedali e governanti. Ma si sofferma a lungo anche sui tentativi del neoministro della Salute Voiculescu (nominato dopo che lo scandalo ha costretto il precedente governo alle dimissioni) di riformare il sistema marcio. A rubare la scena tanto all’indagine giornalistica quanto al rappresentante delle istituzioni sono però le donne e gli uomini che hanno vissuto in prima persona le conseguenze atroci della malasanità: parenti delle vittime o sopravvissuti che cercano di andare avanti.

Non solo un film sul “quarto potere”, dunque, ma un affresco del “collettivo”, appunto, che è la società (ogni società), dove per garantire quella democrazia e quella giustizia a cui fa riferimento Nanau è necessario che ogni attore sociale faccia la propria parte: i governanti mettendo al centro l’interesse generale, i giornalisti esercitando la propria funzione informativa e critica, i cittadini comuni mobilitandosi attorno a istanze condivise. E, purtroppo, non è detto che tutto ciò basti, almeno nel breve periodo, a cambiare le cose. Ma, se non altro, può servire a far emergere la verità di una situazione inaccettabile, obiettivo comune al lavoro dei giornalisti e al film che li mostra e racconta.

Il thriller del reale

I giornalisti Mirela Neag e Catalin Tolontan in Collective. Credits: Alexander Nanau Production, Samsa FIlm, HBO Europe, I Wonder Pictures.

All’origine del successo di Collective c’è però anche e soprattutto una scelta stilistica, quella di far entrare in cortocircuito la forma documentaristica con il thriller investigativo. Inserendosi così, a modo suo, in quella felice new wave del cinema rumeno che sembra avere proprio nel thriller (variamente inteso e sfumato) uno dei moduli fondamentali per declinare il racconto della società. Pensiamo al bellissimo Poppy Field, visto all’ultimo Torino Film Festival (e speriamo, al più presto, anche altrove). O a un autore come Cristian Mungiu, Palma d’oro per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, a modo suo un thriller sull’agghiacciante realtà degli aborti clandestini durante la dittatura di Ceausescu. Proprio Mungiu, col più recente Un padre, una figlia, aveva già toccato con cadenze noir molti dei temi approfonditi in Collective, dalla sanità corrotta all’Europa centro-occidentale come “faro” ancora lontano.

Stavolta però le coordinate non appartengono alla fiction ma al documentario, dove i personaggi, dai giornalisti Catalin Tolontan e Mirela Neag al giovane ministro Vlad Voiculescu, sono i veri protagonisti dei fatti mostrati. E però il doc sconfina, anzi addirittura si (ri)plasma come film “di genere”. Non solo per il ritmo impresso alla narrazione, ma per i veri e propri topoi del thriller politico-giornalistico che fanno capolino in Collective, già paragonato dal Times a un classico come Tutti gli uomini del presidente (opera di fiction, seppur aderente ai veri fatti dell’inchiesta sul Watergate). Dalle scene di appostamento dei reporter-detective armati di fotocamera alle tese riunioni del ministro col suo staff per decidere la strategia politica, tutto nel film fonde lo sguardo (etico) sulla realtà con la trasfigurazione di quest’ultimo in spettacolo coinvolgente e ben leggibile secondo il codice prescelto.

Paradossalmente, tuttavia, il vantaggio di Collective rischia a tratti di trasformarsi in un limite. Narrare la realtà come thriller, infatti, sembra ridurre la complessità del (vero) quadro politico-sociale agli schemi efficaci ma semplifica(n)ti del genere, o della realtà come genere. Possibile che tutti (o quasi) i politici siano complici e fautori del sistema malsano a parte l’integerrimo ministro “tecnico”? E che gli unici giornalisti a voler perseguire senza reticenze la verità siano quelli della locale Gazzetta dello Sport? Collective ci ricorda, meritoriamente, che il confine tra giustizia e ingiustizia esiste, e nella nostra responsabilità di schierarci per l’una o l’altra sta il futuro della società, ma forse traccia una linea fin troppo netta tra “buoni” e “cattivi”.

Ed è per questo che, ancora più dei protagonisti-eroi, ad entrarci nel cuore è la figura (solo apparentemente in secondo piano) di Tedy Ursuleanu, sopravvissuta all’incendio e al calvario ospedaliero, che rimette in gioco il suo corpo ferito in un’intensa performance: l’emblema di un film comunque potente e necessario.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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