Mulholland Drive, David Lynch 2001

Ci sono momenti, nella vita, che hanno la forma perfetta di un finale. Anche se si trovano nel bel mezzo di un’esperienza, o della vita stessa. Anche se la temporalità cronologica li pone a un’incolmabile distanza da quella che consideriamo la fine. Anche se è un finale al posto sbagliato.

Li riconosciamo perché sono momenti che penetrano la pelle, trapassando la carne e raggiungendo le ossa. Le fanno tremare fino a convincerci che ci sia qualcosa di ancora più profondo dentro noi stessi. Qualcuno la chiama anima.

In realtà, è una menzogna, un’illusione. Perché non esiste nulla di più concreto e sensibile di quell’esperienza. È passione: rabbia, dolore, gioia, piacere, quiete.
Qualsiasi cosa sia, è un’emozione che si gonfia nel nostro corpo, fino al suo limite contenitivo. Fino allo stremo della sua sopportazione.
E, a volte, esplode. Nel migliore dei casi in una risata, nel peggiore in un pianto.

E seppure sentiamo che quella reazione provenga dal nostro profondo, in realtà proviene dall’esterno. Ha la sua origine fuori da noi.

È il nostro incontro con un oggetto o un evento. Ma anche con un’immagine o un suono: anche con una scena cinematografica o una brano musicale.

Perché il cinema ha promesso questo al suo spettatore: tutto ciò che vedrai è reale, anche se, in fondo, lo stai guardando riprodotto su uno schermo.
Quello che, dopotutto, promette tacitamente anche la musica al suo ascoltatore dal momento in cui è diventata riproducibile.

Il prezzo da pagare è accettare l’illusione. La ricompensa, invece, sta nel vivere quella stessa illusione: un’emozione reale.

Per questo, ci sono momenti nel cinema che hanno la forma perfetta di un finale. Anche se si trovano nel bel mezzo del film. Anche se la narrazione li pone a un’incolmabile distanza da quella che consideriamo la fine. E anche se è un finale al posto sbagliato.

Mulholland Drive: le due protagoniste-spettatrici siedono al Club Silencio - Credits: web
Mulholland Drive: le due protagoniste-spettatrici siedono al Club Silencio – Credits: web

Il Club Silencio di Mulholland Drive

David Lynch lo sa, forse fin troppo bene. E ne costruisce continuamente di momenti simili.
Ma il più grande di tutti, è quello creato all’interno di Mulholland Drive: lo spettacolo al Club Silencio, cui partecipano le due protagoniste.

Dopo aver fatto l’amore, all’apice della loro relazione, una delle due ha un incubo che le fa farfugliare delle parole sconnesse. L’altra decide di assecondarla e di accompagnarla, in piena notte, in un locale, il Club Silencio.
È un piccolo teatro, con pochissimi spettatori, e sul palco un uomo, forse un illusionista, di fronte a un microfono che riprende le stesse parole farfugliare nel sonno dalla protagonista:

Silencio. This is all a tape recording. No hay banda! And yet… we hear the band (…) It is an illusion.

Dopo essere scomparso in una nuvola blu, un presentatore introduce la performance di Rebekah del Rio.
Una donna elegante esce dal sipario e si avvicina al microfono. Canta in sudamericano un brano americano, Crying, che diviene Llorando. È una voce solitaria, senza musica, carica di corpo, sontuosa e fiera, che s’inerpica in acuti strazianti, ripetendo il ritornello sempre più alto, fino a sfiorare il pianto, mentre il volto si contrae nella stessa disperazione che sembra sorreggerla, in bilico di fronte all’asta immobile del microfono davanti a lei.

L’occhio della telecamera intrappola il nostro sguardo in una traiettoria di tensione crescente. Scivola dal tormentato volto della cantante a quello delle due protagoniste, poi torna alla prima per rivelare una lacrima scintillante dipinta sotto uno dei suoi occhi e ritorna ancora alle seconde, in lacrime. Allora, e solo allora, il nostro sguardo può sorprendere noi stessi scoprendo anche le nostre lacrime.

Rebekah del Rio sul palco del Club Silencio . Mulholland Drive, David Lynch - Credits: web
Rebekah del Rio sul palco del Club Silencio . Mulholland Drive, David Lynch – Credits: web

Il senso è la sensazione

Eccolo, uno di quei momenti della nostra vita che hanno la forma perfetta di un finale. Anche se si trova al posto sbagliato.
Perché quel posto è nel mezzo di un’esperienza cinematografica: perché quel posto è nel mezzo di una storia di cui cerchiamo di scoprire il finale. Per coglierne il significato.

E invece, all’improvviso, quando eravamo impegnati in tutt’altro, nel capire, iniziamo a sentire. Sentiamo un dolore, una passione, un’emozione che non possiamo ignorare, perché siamo costretti a contenere con un gesto concreto della mano il nostro pianto.

Non avremo mai il finale, perché questo è il finale. Non capiremo mai il significato, perché quel nostro pianto, in fondo, è il significato.
Con questa scena, Lynch ci distoglie una volta per tutte dalla convinzione che guardare è conoscere: ci sta gridando che guardare è, prima di ogni cosa, sentire.

Proprio lui che coinvolge direttamente lo spettatore nel film, chiedendogli un’interpretazione ad ogni costo. Forse tutto ciò che crea, forse tutto il suo cinema non è altro che un pretesto per realizzare un momento simile, dove non è la mente a conoscere, ma il corpo a conoscere se stesso.

Mulholland Drive: Le due protagoniste durante la performance - Credits: web
Mulholland Drive: Le due protagoniste durante la performance – Credits: web

Ma c’è altro oltre il finale

La sequenza del Club Silencio non finisce col nostro pianto. All’apice della tensione, nell’incrocio di campo e controcampo tra le due protagoniste spettatrici e la cantante, quest’ultima sviene rovinosamente a terra.

Tutto si potrebbe chiudere con questa immagine brutale: il corpo esanime non contiene più l’emozione della cantante e cede. Proprio come cedono i nostri occhi di fronte a quello spettacolo.

Un finale splendido, emblematico, penetrante, emotivamente indimenticabile.
Se fosse questo il finale.

Perché con quello svenimento, in realtà, non si interrompe nulla.
Le nostre lacrime continuano a scorrere, e così quelle delle protagoniste, mentre il presentatore trascina il corpo della cantante fuori dal palco. Tutto, mentre la voce della donna continua a cantare, ininterrotta.

Da qui in poi il film cambia, radicalmente. Come finisse e ne iniziasse uno nuovo: cambia la trama, il genere, i ruoli degli attori, anche quelli delle protagoniste.
Si può parlare di diversi piani che si sovrappongono senza distinzione, di realtà e sogno, di continuità interrotte e riprese. Si può parlare all’infinito del senso di ciò che ha realizzato Lynch. Come sempre, d’altronde, da Twin Peaks a Inland Empire, passando per Lost Highways.

Ma qui resta qualcosa oltre l’interpretazione possibile. Ed è l’immagine che ha colpito il nostro corpo, conficcandosi nell’anima.

Forse perché Lynch non voleva regalarci l’ennesima ricompensa ottenuta col pagamento del prezzo dell’illusione.
Forse voleva offrirci qualcos’altro. La cruda e brutale realtà, in modo da rivolgere il nostro sguardo interamente verso noi stessi, gridando le tremende parole dell’illusionista:

Lo sapevate che tutto era finto, ve lo avevo detto. La musica e le immagini, i suoni e i movimenti. Ogni cosa.
Tranne le vostre lacrime.

La sequenza del Club Silencio – Credits: YOUTUBE

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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