What Did Jack Do? è uno dei numerosi cortometraggi della filmografia di David Lynch, ma anziché essere inserito in una collezione risulta un’opera a sé stante. Originariamente è stato realizzato nel 2016. Dopo due proiezioni, a Parigi e a New York, in occasione di eventi privati, è stato acquistato e distribuito solo da Netflix nel 2020, esattamente un anno fa in occasione del compleanno del grande regista.
Tra il noir e il grottesco: What Did Jack Do?
In poco meno di venti minuti What Did Jack Do? concentra gran parte del mondo di David Lynch. Un esperimento quanto meno bizzarro, su cui forse non serve farsi troppe domande. È il gioco del cinema, un modo di creare e rimescolare immagini, suoni e parole che fanno parte della nostra conoscenza comune e trarne qualcosa di nuovo e inaspettato.
Il corto è infatti scritto, diretto e montato da David Lynch, ma basta poco per accorgersi che gran parte dei dialoghi sono proverbi, frasi fatte, battute estrapolate da un qualsiasi noir hollywoodiano.
Il serratissimo dialogo tra Lynch/Detective e Jack la scimmia è una carrellata di questi luoghi comuni, così intelligentemente messi in sequenza da creare una storia a sé e un soprattutto un messaggio di senso compiuto.
E sì, avete letto bene. Avviene un reale dialogo tra l’uomo e la scimmia (una cebo/cappuccina) dalla bocca umana, sovrapposta al suo muso con effetti digitali volutamente grossolani. Lo straniamento grottesco provocato da questa scelta crea disagio e resistenza nel pubblico. Quella bocca posticcia e poco gradevole attrae lo sguardo ricordandoci di continuo che siamo di fronte a una finzione e non una qualsiasi, ma un incubo lynchiano.
E infatti mentre siamo ancora indecisi se interpretare la scimmia parlante come un’insolita metafora del freak o classificarla come indefinibile elemento metafisico, ecco che ovviamente, come in un sogno, cambia ancora. E si fa pupazzo e burattino, giocattolo canterino, assumendo carattere sempre più umano ma una forma sempre meno animata.
Ma serve davvero capire cos’è questa piccola scimmia (fun fact: la stessa già vista in Friends)?
L’universo del Possibile di David Lynch
Jack è solamente Jack, come nei titoli di coda: as himself, nei panni di se stesso. È un personaggio noir stereotipato in una scena noir apparentemente stereotipata. In realtà stravolta nella sua essenza dal lavoro di riflessione meta-testuale di Lynch. La solennità del genere – così chiaro nell’estetica del corto e nel bianco e nero pervaso da ombre – è infatti rovesciata dal dialogo surreale e beffardo tra i protagonisti.
L’universo di David Lynch lo immagino un po’ così, come la Tana del Bianconiglio. E anche lui, con quel ciuffo argenteo sembra quasi una creatura oltre lo specchio, pronta a trascinarci giù in un mondo che ha senso solo quando si accetta che esso non vada ricercato nel pensiero lineare.
Quindi sì, accetto che Jack sia solo Jack e che sia innamorato di Toototabon, la gallina, e che per violenta gelosia nei suoi confronti sia accusato di omicidio. È assurdo? Ovviamente. Ma a parte che questo è proprio l’incantesimo del cinema, e del patto tra schermo e spettatore, è soprattutto il grande merito di Lynch. La creazione di un nuova dimensione, tra l’allucinato e il filosofico, in cui tutto è realmente possibile.
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