Ci sono alcuni momenti memorabili a Broadway, e poi c’è il finale del primo atto di Wicked, con l’ultima nota di Defying Gravity che sfida il cielo. Non importa se lo si scopre la prima volta direttamente dall’originale, Idina Menzel, da Rachel e Kurt in una puntata di Glee o, come nel caso del film di Jon M. Chu, dall’intensa, stupenda e commovente interpretazione di Cynthia Erivo.
L’effetto è sempre lo stesso: un rinnovato senso di potenza che cresce, come la musica, dal basso verso l’alto. Un senso di autodeterminazione, di forza mostruosa perché incontenibile e terrificante, almeno agli occhi di chi, al contrario, prova a “tenere a terra” Elphaba, strega e donna ribelle. E tutte le donne, streghe e ribelli come lei.
I’m through with playing by the rules of someone else’s game
L’adattamento cinematografico di Wicked non nasconde affatto temi politici molto attuali, dalla discriminazione alle microaggressioni razziste e dalla corruzione al marciume del potere, che si trasforma in autoritarismo, cospirazioni e propaganda. Affronta spesso la diversità, chiaramente, rappresentata dalla pelle verde della sua protagonista, ma soprattutto dal modo in cui sono le altre persone a reagire, facendo di lei un’emarginata.
Sono tutti argomenti sociali, che riguardano la collettività, gli studenti della Shiz o il mondo di Oz. È negli ultimi venti minuti del film, tuttavia, che emerge qualcosa di molto diverso. Emerge il mostruoso femminile, come direbbe Jude Ellison Doyle, la Strega come simbolo e come concetto: la donna che non si piega alla società, alle regole imposte dagli altri, e per questo ne viene perseguitata.
I hope you’re happy now
C’è, perciò, un momento esatto nel finale di Wicked – Parte 1 che prende le sembianze di un rito che va oltre la magia, va oltre il film, ed entra direttamente nella carne, nella memoria di tutte le donne bruciate, picchiate, internate o uccise, perché ribelli. È una vestizione che riflette all’esterno un cambiamento già avvenuto all’interno (Something has changed within me, canta Elphaba) ed è il momento in cui la protagonista, appropriandosi di una sua nuova immagine – il mantello e la scopa, oltre al cappello – al tempo stesso sembra dire al pubblico di fare lo stesso. Di cogliere e accogliere la voce dentro sé che non vuole piegarsi alla sottomissione (Grovel in submission), a costo di farlo da soli e da sole.
Quando Elphaba vola via, lontano da Glinda, in quei loro I hope you’re happy now si nasconde infatti anche tutta la fatica necessaria per compiere un atto di dissenso e percorrere la strada scelta per sé. Un sacrificio necessario, per rimanere fedeli a se stesse (And if I’m flying solo/At least I’m flying free). Elphaba sa bene che in due, insieme, le streghe sarebbero invincibili (Together, we’re unlimited), come sa bene di non poter obbligare né Glinda né nessun’altra all’esilio che ha scelto per sé. Non è una lotta né una rivoluzione ciò che invoca (al massimo quella spetta al pubblico che guarda), ma solo un atto di emancipazione.
So if you care to find me/Look to the western sky
Arriva così in Wicked il momento in cui non potrebbe essere più chiaro che la perfida Strega dell’ovest altro non è stata che una bugia. Una versione della storia raccontata da chi, al contrario, voleva creare in lei il nemico. Il mondo di Oz – che culturalmente ha forgiato gli Stati Uniti – l’ha resa un’antagonista perché non è riuscito a sconfiggerla e a inglobarla. Come è accaduto a tutte le streghe della Storia. Da Salem ai manicomi; dai femminicidi alle piazze di Donna Vita Libertà.
I Maghi non hanno ancora capito, però, che siamo tutte Wicked Witches, e no Wizard that there is or was/Is ever gonna bring (us) down.