La famiglia, la comunità, le diseguaglianze sociali, la globalizzazione, la malattia, la morte, l’identità, la memoria, i rimpianti, il futuro ancora da scrivere e il caso, con la sua anarchia imprevedibile e spesso crudele: sono davvero tanti gli spunti intrecciati nella nuova commedia di Emmanuel Courcol, L’orchestra stonata (En fanfare).
Dopo un fortunato tour festivaliero, che ha portato il film da Cannes 2024 alla XIX Festa del Cinema di Roma, passando per San Sebastián, dove ha vinto il Premio del pubblico, arriva in sala in Italia per Movies Inspired dal 5 dicembre.
La musica, linguaggio universale
Il grande tema e il linguaggio (di cui il cinema da sempre in qualche modo si nutre), che sovrasta e unisce tutti gli altri, in L’orchestra stonata, è la musica.
È la musica che permette al lungometraggio del regista di Un anno con Godot (ispiratore del remake italiano Grazie ragazzi con Antonio Albanese) di funzionare, appunto, come un concerto, in cui le partiture dei singoli strumenti, benché non nuove, si integrano senza mangiarsi a vicenda, in un unico discorso sulle fanfare della società e dell’esistenza.
Quelle che sanno essere davvero stonate, come ci mostrano i differenti destini dei protagonisti Thibaut (Benjamin Lavernhe) e Jimmy (Pierre Lottin), adottati da due famiglie diverse. Aprendo all’uno la possibilità di una vita più che benestante e di una carriera internazionale come direttore d’orchestra, mentre l’altro, non meno (anzi forse più) talentuoso, suona nell’arrangiata banda (degna di Monicelli) degli operai di un’azienda in procinto di chiudere e licenziare i lavoratori. Ma le gerarchie della fortuna si ribaltano quando Thibaut scopre di avere la leucemia, e che solo Jimmy può salvarlo con un trapianto.
L’orchestra stonata, tra dramma e ironia
Il film di Courcol (sceneggiatore con Irène Muscari) si muove da qui, con fluidità e leggerezza dolceamara, tra ironia e dramma, apparenti risoluzioni e amari capovolgimenti, interpreti professionisti e non. E un mosaico di brani, da Ravel ad Aznavour passando per il jazz, testimoniando l’onnivora passione musicale che innerva l’opera e rispecchiando tanto più la varietà di forme e ritmi del vivere.
Col merito ulteriore di farci riflettere sugli antichi vizi classisti e le nuove derive turbo-capitaliste del nostro sistema (tra i produttori c’è il “Ken Loach marsigliese” Robert Guédiguian, e si vede). Ed evitando enfasi pietistiche e scorciatoie consolatorie, per celebrare senza retorica un senso di solidarietà che è forse l’unico vero appiglio per strappare, e magari far crescere, momenti di armonia collettiva tra i rumori alienanti del mondo.