Le notti di Cabiria-Fellini
Le notti di Cabiria-Fellini

Prima de La Dolce Vita (1960), prima di (1963), c’è Cabiria.

Nel 1957 Federico Fellini realizza un film che è il frutto di pensieri e riflessioni accatastate, incontri e suggestioni. Sto parlando de Le Notti di Cabiria, ancora intenso, ancora vibrante dalla prima scena all’ultima.

Il soggetto è di Federico Fellini, Ennio FlaianoTullio Pinelli, la protagonista è Giulietta Masina (Cabiria) e la colonna sonora viene firmata da Nino Rota. Scrittura, recitazione, musica: dietro al film del 1957 c’è ancora lo sguardo neorealista ma gli elementi che lo compongono iniziano a raccontare qualcosa di nuovo. L’opera ha innanzitutto una circolarità che rende l’incipit molto simile al finale, elevando l’ingenuità bambinesca della prostituta Cabiria, ingannata dagli uomini, convinta di poter cambiar vita grazie all’amore. All’inizio del film, quando viene quasi annegata per una borsetta con 40 mila lire, come alla fine, dall’alto di un dirupo.

“Cabiria è una che fa la vita” – Illusione e disillusione

“(…) mentre giravo Il bidone tra le vecchie mura dell’antico acquedotto romano alla Borgata San Felice, notai isolata dalle altre catapecchie, una minuscola baracca che più miserabile e povera di così si poteva immaginare solo nei cartoni animati. (…) Per quanto assurda come abitazione, la baracca aveva all’interno un suo straziante lindore: tendine a fiori alle finestre (finestre?), tegami e padellette, ammaccati ma lustri, appesi in ordine alle pareti (…). In terra su un materassino da bambini c’era seduta una donna, la proprietaria. Vidi solo che indossava un accappatoio a fiori, poi, quando si voltò, una testa piena di riccetti e bigodini, e due occhietti spiritati che mi fissavano sbalorditi per la mia impudenza.” Da Fare un film, di Federico Fellini

Le Notti di Cabiria (1957), Paramount

Quell’incontro è alla base della creazione del personaggio, che Fellini lima di volta in volta, e la Cabiria finale, del film del 1957, è come la musica di Nino Rota: malinconica e su di giri, inquieta ma speranzosa. Nella circolarità del racconto ogni avvenimento importante è giocato sull’illusione, che viene prontamente disintegrata, in un viaggio senza assoluzione.

Per ogni anima pura ne affollano almeno dieci corrotte, e quasi tutte si pongono sul cammino della donna che vorrebbe farla finita, andarsene, smettere di lavorare per strada, quando in fondo quello che ha le strappa un sorriso, e incontri fugaci e notturni le fanno rinascere dentro la voglia di credere.

Religione, sogno e misticismo

Credere alle persone è un po’ come credere in Dio. Un movimento insito e altalenante che non sa che posizione tenere. Momenti in cui la sospensione dell’incredulità governa la percezione, sono numerosi nelle avventure di Cabiria, sin dalla processione notturna che le sfila di fronte una notte. Sogno e magia fanno incursione nel film, allo stesso modo si manifesta la fede, incerta e imprevista, dopotutto lei neanche voleva andarci al Divino Amore a chiedere la grazia alla Madonna.

La contemplazione della povertà reale cede a istanti sublimi in cui la narrazione cambia registro, trasformando l’opera in qualcosa di completamente diverso. Succede durante la sequenza dell’ipnosi, dove Cabiria capita per caso mentre assiste ad uno spettacolo di varietà. La magia e l’illusionismo prendono vita, e come alla Madonna Cabiria non ci crede, ma poi finisce per arrendersi. E ci crederà di nuovo, prima di farsi ingannare dall’ennesimo uomo che recita premura e slanci sentimentali, solo per derubarla.

Le Notti di Cabiria (1957), Paramount

Lo sguardo in macchina che mi fa tremare

Ma come lo spettatore guarda Cabiria, lei si volge a lui.

Ho visto Le Notti di Cabiria per la prima volta all’università, un pomeriggio buio in una piccola aula strapiena. In prima fila, attenta anche alle ombre, assorbivo quello sguardo facendolo mio. Il finale del film arriva piano, durante la camminata tra gli alberi di Cabiria e Oscar, l’uomo che vuole sposarla, fino al tramonto che si può solo immaginare, colorando mentalmente il bianco e nero. Le urla poi: “Non voglio più vivere”, e l’uomo esausto dalla pressione dell’omicidio incompiuto che scappa con tutti i soldi. E se fosse finita lì?

Ancora una volta la donna si rimette in piedi e supera il bosco, si ritrova in strada, con la guancia macchiata dal trucco nero colato che le forma una lacrima da Pierrot. Un corteo molto diverso da quello dei devoti scalzi la avvolge, la saluta, e lei risponde, voltandosi poi verso di me, attraendomi alla forza di occhi diegetici puntati fuori dallo schermo.

Quello sguardo in macchina è l’interpellazione poetica e il ringraziamento allo spettatore, per aver ascoltato la sua storia. Dopo aver gridato a squarciagola di voler morire, Cabiria si ritrova a vivere, e intorno a lei, il circo, la strada: individui che della vita assorbono le vibrazioni più sincere. Capisce che ha sempre senso ricominciare da capo, quasi sembra non ricordare nulla degli uomini che non l’hanno mai amata, e della strada dove batteva. Fino a qualche ora prima stava distesa sul fogliame secco ad invocare la fine, ma era solo una bugia, come quando diceva di non credere alla Madonna.

Prima de La Dolce Vita fu Cabiria per Fellini a qualificare il senso di quella figura linguistica che nel cinema ha varie funzioni. Incantando la percezione, unendo due mondi.

Alla fine della lezione incontrai gli occhi del mio insegnante, lucidi come i miei.

(Quel professore era Andrea Minuz e grazie a lui ho scoperto di amare questo film più di qualsiasi altro di Federico Fellini).

Continuate a seguire FRAMED per analisi appassionate e visioni sublimi.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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