Fiore mio, il debutto alla regia dello scrittore Premio Strega Paolo Cognetti è difficilmente catalogabile come documentario. È al contrario un affascinante lavoro contemplativo e autoanalitico, un inno alla natura e alla sua forza trasformatrice.
«Mi piace usare frasi interrogative, per esempio: come sarà la montagna quando non ci sarò? Le mancherò, in qualche modo, come lei manca a me?», è un quesito più che aperto quello che lo scrittore Paolo Cognetti rivolge a se stesso. Non vi è risposta più sincera nei ruscelli, nella flora variopinta, nelle stalattiti di ghiaccio o nei più fievoli sottofondi che animano Fiore Mio. Presentato in anteprima alla 77ª edizione del Festival di Locarno, l’opera prima dell’apprezzatissimo scrittore lombardo si colloca come una sorprendente ‘anomalia’ della produzione documentaristica nostrana.
La montagna protagonista
Sarebbe in effetti alquanto riduttivo, se non improprio, imbrigliare Fiore mio tra le maglie figurative e stilistiche tipiche del documentario in senso lato. L’arco narrativo tracciato dall’autore, sorretto dall’ottimo lavoro del direttore della fotografia Ruben Impens, dichiarano in realtà un’anima molto più definita: una poetica che si discosta dalle ansie dell’attualità moderna, sospendendo il dibattito sulla crisi climatica in favore di un’intima riflessione sulla natura. Una natura maestosa, ricca, ferale e dinamica, materializzata in tutte le sue forze e attriti nella montagna. Il Monte Rosa, quello che nella diceria urbana milanese dovrebbe il proprio nome «all’apparire rosa al tramonto», assurge a vero protagonista della vicenda, soverchiando e dando senso a ogni transito umano.
Sul piano estetico e tematico, l’opera si pone in continuità e sullo stesso solco mappato ne Le otto montagne (2022) a firma di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Traduzione filmica dell’omonimo romanzo Premio Strega 2017 in cui due amici, Pietro e Bruno, rispettivamente impersonati da Luca Marinelli e Alessandro Borghi, incarnavano due diversi spiriti e posture: la dimensione esplorativa, quasi pionieristica, di chi sperimenta e cerca la montagna oltre ai paesaggi di gioventù, con cui ha modellato il proprio immaginario (si pensi alle alture del Nepal raggiunte da Pietro), e il senso di isolamento e marginalità di chi invece a quei luoghi, a quei silenzi e a quelle abitudini ha scelto di abbandonarsi (come nel caso di Bruno). Viversi o perdersi nella montagna.
Questa volta Cognetti si espone direttamente, nel suo corpo e nelle sue parole, calcando quegli stessi paesaggi in compagnia del suo inseparabile cane Laki. Le ambivalenze e unicità di quei luoghi del sentire tornano qui a colorare il grande schermo, proponendo però uno sguardo più introspettivo e ravvicinato; uno sguardo che trova sostanza nell’ottimo lavoro estetico di Impens che, come ne Le otto montagne, sembra accompagnare e adattarsi in modo sorprendentemente adesivo al sentimento dell’autore.
Uno spazio emotivo
Sull’eccelso esempio delle xilografie di Katsushika Hokusai, Le 36 vedute del Monte Fuji, Cognetti racconta la montagna come spazio emotivo da ogni angolazione, interpellando i suoi interpreti più privilegiati: i rifugisti. Partendo da Estoul, piccolo borgo in cui vive a 1700 metri di quota, attraverso l’intera area alpina, troverà infatti ‘rifugio’ in tre diverse strutture (il Quintino Sella, l’Orestes e il Mezzalama), degli autentici eremi spirituali per dialogare e conoscere i volti e i corpi di chi vi è radicato: dall’alpinista sherpa Sete, con i suoi racconti animisti sull’Everest, imbevuti quasi di mitologia, passando per Arturo, mentore ideale che iniziò Cognetti all’esplorazione del ghiacciaio, fino alle donne ‘d’alta quota’, Corinne e Mia, antropologa che ha trovato nel Mezzalama un felice avamposto, un angolo dove potersi concedere all’immobilismo, alla sospensione.
Tale sospensione sembra figurativamente materializzarsi nel falco di una sequenza emblematica: volteggia fermo e deciso in un intervallo apparentemente inerte, ma in realtà pregno di energia, l’atto che prelude la caccia. Appare fermo, almeno in superficie, anche il Monte Rosa esplorato da Cognetti. Ma la sua energia è così dirompente da poter vantare una vita indipendente dagli umani che ne improntano i cammini. «La natura seguirà il suo corso, anche se siamo stati sprovveduti» racconta l’autore. Più che la ridonante critica all’antropocene, agli abusi e ai rapporti di interdipendenza tra essere umano e ambiente, il film predilige un omaggio sincero al paesaggio e alla sua ineluttabile ciclicità (propria non per forza di una natura matrigna, in senso leopardiano, ma coerente al suo spirito).
A quello di Cognetti si associa infine un secondo altresì pregevole esordio, quello di Vasco Brondi, autore della sua prima colonna sonora per un lungometraggio. Composizioni degne di menzione per la potenza evocativa dei testi e arrangiamenti. La natura contemplativa e trascendente del racconto trova intesa nelle note dei brani, storie di amori e destini ritrovati tra le pendici, come nel suggestivo singolo Ascoltare gli alberi.
Fiore mio arriva in sala come evento speciale solo per tre giorni, dal 25 novembre 2024, con Nexo Digital. Per saperne di più continua a seguire FRAMED anche su Instagram e Telegram.