battiato-andres arce maldonado
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Franco Battiato – Foto: Andres Arce Maldonado

Fermo al semaforo, mi si affianca una “macchinetta”, quelle che si guidano senza patente. Nonostante i finestrino chiusi, da quella scatoletta esce un basso che fa tremare anche i vetri della mia auto, dettando un ritmo ossessivo, ipnotico. Ogni tanto si sente qualche frase, parole che sembrano gettate a caso, senza un senso apparente da una voce strascicata, indolente. È trap, penso rovistando tra i dischi sparsi dentro il cruscotto per offrire un’alternativa alle mie orecchie.
E trovo un disco di Franco Battiato. Mentre inizia ad andare il primo brano, scatta il verde.
La trap si allontana velocemente, ma io resto li, immobile, ad ascoltare quella voce fragile, poco dotata, che getta frasi confusionarie, disconnesse, apparentemente insensate.

Qualcuno alle mie spalle inizia a suonare insistente il clacson. Alzo il volume fino a far tremare i bassi e riparto.

D’altronde, quello che gli adolescenti di oggi fanno con la trap, lo facevano anche gli adolescenti degli anni ’80. Proprio con Battiato: con pezzi come Cuccuruccucù, Voglio vederti danzare e Centro di gravità permanente.
Eppure oggi, a 76 anni appena compiuti, Franco Battiato è considerato un “Maestro”. Forse perché lo è sempre stato, anche e soprattutto quando il suo pop nonsense faceva ballare i ragazzini. Perché il suo linguaggio è sempre stato tutt’altro che casuale, ma puntuale nel dire precisamente quel che “non” dice.

È un Maestro perché studia intelligentemente la formula esatta per diventare una popstar, e quando la trova la cambia radicalmente, cambiando l’intera musica italiana. E con questa musica gioca, spingendola al suo limite estremo, per stordire il pubblico: attrae la massa generalista con melodie popolari e la respinge montando su di esse concetti ricercati esagerati fino all’intellettualismo.

D’altronde, mi dico ascoltando la sua voce nello stereo dell’auto, un Maestro è qualcuno che porta innovazione alla propria arte, dandole qualcosa di nuovo e impensabile prima di lui.

E qual è davvero quella novità che Battiato porta nella musica?, mi domando mentre scalo la marcia nell’avvicinarmi ad un altro semaforo rosso.

Gli inizi nei cabaret

Ripenso alla prima esperienza artistica di Battiato, quella nei cabaret milanesi, tra mostri sacri come Jannacci e Gaber. Battiato è poco più di un adolesacente che arriva dalla Sicilia dove ha studiato la musica fin da quando aveva 10 anni.

Ma già da questa primissima esperienza dimostra i due aspetti più forti del suo carattere: la raffinatezza culturale e l’autoironia. Battiato si presenta sulla scena, infatti, con pezzi di musica popolare siciliana che cerca di spacciare per brani rinascimentali.
Non fa ridere, almeno non come vorrebbe, e comprende che quello non è il suo mestiere. Ed è proprio questa esperienza fallimentare a rinforzare la sua cultura e la sua ironia, aggiungendo ad esse la consapevolezza di ciò che si intende per pop.

La sperimentazione anni ’70

Eppure è proprio questa consapevolezza, forse, a fargli scegliere la strada opposta al pop, quella della sperimentazione.

“A metà degli anni ’70 eravamo tutti eravamo sperimentatori”, afferma Battiato stesso, “il mercato non esisteva e la voglia di attraversare la musica con qualcosa di diverso aveva la meglio su tutto”.

Sintetizzatori e testi nonsense, pop concettuale e psichedelia, citazioni colte di musica classica e suoni disturbanti, ritmiche ripetitive e melodie circolari che si fanno centro di gravità musicale. Minimalismo, avanguardia e orientalismo: questo è il Battiato nella sua musica sperimentale. Un raffinato compositore che ama e stringe amicizia con Stockhausen (il massimo esponente dell’avanguardia musicale del XX secolo).
Una dilatazione artistica realizzata attraverso piccole etichette in un mondo che corre senza sosta. La lentezza erotica del piacere musicale che si scopre nota dopo nota, senza alcuna fretta, distante dalla pornografia del mercato che vuole consumare tutto subito.

Pop, ma non semplicemente pop

Poi, all’improvviso, il pop.
Come se lo avesse programmato dall’inizio del suo percorso, ogni tappa, ogni disco, ogni brano, una preparazione per fare breccia nel pop e diventarne protagonista, popstar. Forse già con lidea di ribaltare quella figura e le regole del gioco.

Nel 1979 scrive un intero album e lo porta alla EMI. La celebre casa discografica non può far altro che pubblicarlo: è perfetto, orecchiabile e ricercato al tempo stesso. È pop adulto: è L’era del cinghiale bianco.

Franco Battiato – L’era del cinghiale bianco (1979)

Rispetto al periodo sperimentale, Battiato tira fuori la voce come non ha mai fatto prima. È lieve e raffinata, lontana da qualsiasi canone pop, eppure funziona. Sembra che solo quel filo di voce possa dare un simile effetto a quei testi stranianti, surreali, ironici, malinconici e profondamente poetici.

Con questo album e i successivi Patriots e La voce del padrone Battiato cambia il pop italiano, trascinandolo fuori dalle paludi del commerciale e riportandolo a quelle sonorità popolari, familiari eppure nuove, perturbanti.

Nel 1981 si consacra definitivamente come popstar: al Festival di Sanremo vince il suo brano, Per Elisa. Un pezzo scritto alla perfezione per la voce stentorea di Alice, che cita Beethoven, ma rimanda impercettibilmente alla dipendenza, dalla droga come dall’amore.

Giorgio Gaber, uno che lo conosce da molto tempo e che da ancor più mastica di musica, arriva a dire che sia migliore come paroliere piuttosto che come musicista.
Difficile dargli ragione: difficile dargli torto.

Oltre il pop e ancora più in là

Ma all’apice della sua carriera da popstar, sceglie di cambiare ancora. Afferma di non avere altra scelta, se vuole evitare di diventare la parodia di sé stesso.
“C’era una cosa che mi stava più a cuore del pop”, dice con un sorriso malizioso, “l’ascesi, la ricerca mistica”. L’esotico si apre, sempre con ironia, come se fosse lo sguardo dell’oriente a rivolgersi verso l’occidente e a provare una profonda malinconia verso le proprie radici.

Battiato non cerca più il pop, ma ormai ha cambiato il gusto comune ed è condannato a cambiarlo qualsiasi cosa faccia. Come non possa più fuggire dalla condizione di popstar. Questa, in qualche modo, è la condanna di un Maestro: essere sempre preso sul serio, anche quando fa il possibile per dimostrarsi ironico.

La forza del Maestro

Sto pensando a tutto questo, mentre raggiungo un nuovo semaforo rosso al quale ritrovo la “macchinetta trap”. Abbasso il volume e tiro giù il finestrino: un ragazzino guarda fisso il semaforo, teso e serio, quasi incapace di attendere che diventi verde, mentre la musica dal suo stereo prosegue assordante senza che lui se ne renda conto.

Ecco, penso mentre scatta il verde, è un Maestro perché lavora su una contraddizione insanabile, quella tra il radical-chic e il pop. Ma la sua vera maestria sta nel non risolverla mai questa contraddizione e giocarci per mantenerla costante attraverso la sua forza più grande, quella che forse non possiede nessun trapper, anche il più culturalmente educato, e che gli impedirà sempre di esser considerato un Maestro: l’autoironia.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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