Funny Games (2007) diretto da Michael Haneke
Funny Games (2007) diretto da Michael Haneke

Remake shot-for-shot del film omonimo austriaco dello stesso regista del 1998, Funny Games offre al più ampio mercato americano la visione spietata e nichilistica del suo autore, Michael Haneke, sull’esplosione improvvisa e inaspettata (perché senza logica) dell’integrità familiare.

I Farber (Naomi Watts, Tim Roth e Devon Gearhart) si stanno recando come d’abitudine alla loro casa sul lago per passare l’estate, tra grigliate in compagnia e partite di golf. L’entrata in un idillio bucolico lontano dalla città si trasforma presto in un progressivo distanziamento dalla civiltà, nella forma di un’irruzione violenta del caos calmo dell’impietosa mancanza di empatia. L’invasione operata da Peter e Paul (Brady Corbet e Michael Pitt), asettici corpi bianchi di kubrickiana memoria, si configura come irregolare squarcio nel tessuto pacificato della famiglia borghese.

La classe sociale dei Farber, così come l’annuncio della brutale ingerenza della violenza, emerge fin dalle prime immagini, che ce li mostrano intenti a farsi indovinare a vicenda brani di musica classica, prima del bruschissimo irrompere dei titoli di testa. Il rosso accecante e la musica metal vanno a interrompere l’armonia sonora, compositiva (e in ultima analisi narrativa), il disordine a venire che si instaura sulla loro serenità inconsapevole.

“YOU HAVE TO PLAY WITH US”

Ha un che di perturbante, l’arrivo di Peter e Paul nella vita dei Farber, tranquilla e priva di tensioni interne: il passaggio da una situazione di familiarità e normalità a una di allarmante dissonanza è graduale, mellifluo. Si sviluppa con la placida calma di una ferita infetta, si traveste di gentilezza, garbo e buone maniere che si trasformano in imperiosa maleducazione e violenza.

Vediamo Peter e Paul, per la prima volta, non in procinto di entrare in casa dei Farber, ma a invasione già avvenuta nella proprietà dei loro vicini: è una cupa anticipazione di cosa il futuro ha in serbo per loro.

Si gioca molto sul contrasto, sull’inquietudine dell’assenza, sulla vastità dei grandi spazi che assumono connotati dissonanti rispetto alla loro solita familiarità: la mancanza di Jenny, amica di Georgie, il cane che all’improvviso smette di abbaiare, i panorami ben noti che si riempiono di presenze sconosciute.

Il continuo dentro e fuori dalla casa dei protagonisti diventa disturbante quando sfocia nella tranquillità ed estrema libertà con cui Paul e Peter invadono gli spazi intimi personali, nella forma della richiesta insistente delle uova.

Funny Games (2007) diretto da Michael Haneke

“I MEAN, WHAT DO YOU THINK? DO YOU THINK THEY STAND A CHANCE? YOU ARE ON THEIR SIDE, AREN’T YOU? WHO ARE YOU BETTING ON?”

Peter e Paul, anche alla luce dei giochi metatestuali messi in atto dal film, assumono i contorni di due bianchissimi sceneggiatori vogliosi di lasciar sbizzarrire la loro malata fantasia senza alcun tipo di freno inibitorio, morale o logico che sia.

Il confine tra finzione e realtà viene messo in discussione (finanche narrativamente) e scardinato nella celeberrima scena del rewind, in cui Peter rifiuta ciò che è successo e – letteralmente – manda indietro la narrazione per avere una seconda chance e far sì che le cose vadano come vuole lui.

I nessi logico-causali vengono infranti in una commistione di ciò che appartiene alla narrazione e di ciò che quella narrazione la rende possibile. Che non è, in ultima analisi, l’opera di Haneke regista e sceneggiatore, ma quella di Paul (e in misura molto minore Peter), mente che plasma ciò che stiamo vedendo. Esempio più che esplicativo: quando danno indicazioni ad Ann su come sistemare George sul divano non vengono inquadrati, e le loro direttive sembrano provenire proprio da due registi che dicono agli attori come agire in scena.

I suoi accenni plateali a noi, al di qua della macchina da presa, che rompono più e più volte la quarta parete, ci implicano, facendoci diventare complici silenti degli aguzzini anche se tifiamo spassionatamente per i buoni senza macchia. L’unico tramite diretto tra noi e lo schermo è Paul, che sa che siamo lì. Non solo sa della nostra presenza; fa ciò che fa a nostro beneficio, per farci divertire.

Perché per quanto ci impuntiamo nel rifiutare la brutalità che stiamo testimoniando, i funny games sono per noi, per il nostro diletto, per inchiodarci alla poltroncina, al divano, con gli occhi sullo schermo.

L’importanza dello spettatore, il suo potere partecipativo e creativo, il suo ruolo decisivo nel modellare ciò che vede vengono resi attraverso un gioco malato, tanto con i Farber quanto con noi.

“WHY DON’T YOU JUST KILL US?”

“YOU SHOULDN’T FORGET THE IMPORTANCE OF ENTERTAINMENT”

Quello che Peter e Paul decidono di fare con le proprie vittime è un gioco, come si evince da ciò che Peter stesso chiede: “Is lying allowed?”. Quali sono le regole? Si può mentire? Si può barare? O bisogna per forza attenersi a quanto stabilito al via delle danze?

In questo gioco, fatto di conte e di premi, non bisogna nemmeno usare sempre e per forza il proprio vero nome: Peter e Paul (ma saranno poi questi, veramente, i loro nomi?), diventano Tom e Jerry, Beavis e Butt-head, esilaranti coppie dell’animazione.

Così come cambiano le spiegazioni delle loro azioni: Paul si inventa delle storie sull’infanzia e sulla famiglia di Peter, insistendo su una presunta componente di depravazione sessuale. Peter nega, lui ritratta, ma qual è la verità? L’impressione è che Peter voglia solamente compiacere i suoi “ospiti” con la versione più scabrosa, che voglia divertirsi confondendoli, presentando loro una pletora di possibilità, che proprio per la loro molteplicità sono tutte valide, tutte vere e tutte false.

È un gioco sadico, come tra gatto e topo, quello che viene agito sulle menti e sui corpi della famiglia: come dei burattini nelle mani dei carnefici, i Farber sono costretti, per proteggersi a vicenda e combattere contro il loro venire usati in alternanza come ostaggi, ad obbedire a ogni malata richiesta.

I giochi sono quanto di più basico si possa pensare: sono trastullamenti da bambini, scommesse illogiche che non riescono neppure a stabilire una posta in palio per cui valga la pena lottare.

La violenza è fredda, il ritmo strano. Dal punto di vista registico, l’infinita sequenza che segue la morte di Georgie, è senza dubbio la più interessante. La sua morte non viene mostrata in campo, noi rimaniamo su Paul che traffica in cucina, e sentiamo solo i rumori, lo sparo, i versi dei genitori impazziti di dolore; l’inquadratura seguente è sul televisore acceso, grondante sangue schizzato. All’uscita di scena di Peter e Paul seguono le inquadrature fisse lunghissime, prima su Ann (con il corpo del bambino in campo, in un angolo di fianco al televisore) e poi su George, le loro reazioni a quanto avvenuto.

Naomi Watts, incredibile nei panni di Ann, prima fatta indirettamente passare per una pazza isterica dal marito George, quando non credeva alla sua crescente inquietudine nei confronti dei due intrusi, diventa protagonista attiva di Funny Games.

Come spesso accade negli horror, e soprattutto negli home invasion, ad un certo punto la mascolinità dell’uomo viene compromessa, rendendolo inabile ad agire al massimo delle sue capacità. A George viene spaccato un ginocchio a inizio film, e si ritrova quindi fin dal primo insorgere del pericolo in una posizione di subalternità rispetto alla moglie, a cui passa l’agency.

Quando George dice ad Ann di perdonarlo, sembra proprio che si stia scusando per non essere stato in grado di adempiere al proprio ruolo di protettore della famiglia: non per altro è proprio George a venire annichilito dalla morte di Georgie, ed è Ann a prendere le redini della loro sopravvivenza.

“DO YOU THINK IT’S ENOUGH? I MEAN, YOU WANT A REAL ENDING, RIGHT? WITH PLAUSIBLE PLOT DEVELOPMENT, DON’T YOU?”

Il discorso del film sul rapporto tra finzione e realtà viene esplicitato alla fine, dopo che, venendo meno alle supposte regole del gioco, Paul getta Ann, legata, nel lago. Paul dice infatti che la finzione è reale tanto quanto la realtà, poiché è visibile ai nostri occhi, la possiamo vedere nei film: se la vediamo esiste, quindi è realtà, no?

La mescolanza tra questi due domini, esplicita nella scena del rewind e nella continua rottura della quarta parete, rende Paul traghettatore dello spettatore fra l’uno e l’altro. Personaggio e persona, fittizio e reale, forte del potere della creazione della finzione e parte della stessa, consapevole di starsi rivolgendo a qualcuno che fa parte di un altro “mondo”, si fa autore e sceneggiatura. Da vedere e rivedere, lasciandoci trasportare dai pensieri che il leggero didascalismo non impedisce prendano il largo nei mari infiniti della riflessione sul mezzo cinema.

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