Sono passati ormai diversi giorni da quando la notizia dello smascheramento del writer noto come GECO, tag che da anni appare su innumerevoli muri di Roma, è diventata da notizia locale ad argomento di discussione dei più svariati media italiani.

Tutto incomincia quando il 9 novembre la sindaca di Roma Virginia Raggi annuncia trionfante, sulle sue pagine social, l’identificazione e la denuncia di GECO: imprendibile writer romano. Una “cattura” che avviene dopo un anno di indagini coordinate dalla procura di  Roma e che renderebbe giustizia alla volontà di decoro urbano così voluta da chi vive nella città. Decoro che in questo caso andrebbe ripristinato e “ripulito con i soldi dei cittadini”, sempre per utilizzare le parole della sindaca.

Questione di necessità

Ora, è assolutamente innegabile che la stragrande maggioranza delle persone che vivono, ma anche che transitano, a Roma vorrebbe una città più pulita e più decorosa, con tutte le sfumature che una parola come decoro può riservare.

Probabilmente però è anche altrettanto vero che questa stragrande maggioranza di cittadini non sarebbe poi così favorevole nel sapere che i loro soldi pubblici verrebbero utilizzati nel rimuovere i GECO dai muri della città, invece di indirizzare quegli stessi soldi per risolvere problemi ben più urgenti che una città come Roma necessita. Sarebbe fin troppo facile concludere che tutta questa operazione non sia altro che banale campagna elettorale utile per mascherare l’operato politico dell’amministrazione (giusto o sbagliato che sia). Tutti concetti già ampiamente espressi in questi giorni, il fatto è che non è questo il punto.

Senza via di mezzo

In effetti il dibattito su GECO si è subito polarizzato su due estremi, come spesso accade, identificabili facilmente con i suoi detrattori o con i suoi fan. Come se fosse un qualsiasi match con le rispettive tifoserie. Da una parte c’è chi lo vede come nient’altro che un vandalo che ha deturpato una delle città più belle al mondo, identificandolo come un criminale da catturare, dall’altra c’è chi lo identifica come un eroe da emulare e da liberare (come se fosse stato rinchiuso in carcere).

Certo, nel mezzo non sono mancati commenti e analisi più sobri o ragionati, ma le prese di posizione nette e spesso aggressive (con l’ago della bilancia che tende prepotentemente dalla parte dei suoi detrattori) sull’operato di GECO è ciò che risulta più evidente a chiunque sia capitato di informarsi sulla questione.

Chi è GECO

GECO è un nome che da anni compare sui più svariati muri di Roma e di altre città europee (la più nota è Lisbona). Una nome, una tag, semplice, in caratteri fin troppo leggibili. Un nome che è anche un logo, quello del writer romano che per anni ha invaso la sua città in maniera ossessiva e per certi aspetti indecifrabile, raggiungendo ora quello che forse è sempre stato il suo scopo: si sta parlando di lui, nel bene e nel male. Un nome che appare e si moltiplica in forme e luoghi diversi tra loro.

Da quella banale e compulsiva degli sticker appiccicati nei più svariati spazi urbani (lampioni, semafori, cestini, corrimano ecc), alle rullate colossali e pirotecniche nei cosiddetti heaven spot (luoghi all’apparenza inaccessibili e pericolosi su cui il writer si arrampica per poter imprimere in maniera più evidente il suo nome), fino ai più classici throw up lungo i binari delle stazioni.

CREDITS: Web

Sui media nazionali, con le dovute differenze (Repubblica, Il post, Huffingtonpost, Wired ecc), si è parlato di GECO identificandolo come un artista, chiedendosi se quello che fa è da considerare arte o vandalismo, se addirittura “esisterà mai nella storia del pensiero questo suo nome visivamente assordante”.

Qualche giorno fa è comparso un pezzo sul New York Times in cui si afferma:

Geco is not nearlyas well-know as Banksy, the world’s most famous artist-provocateur, whose real identity remains a secret. But he has made a name for himeself in Rome, where his tagsseemed to be everywhere, while his true identity – in the spirit of his more famous counterpart- was kept secret.”

In questo caso si fa un paragone diretto con Bansky, ma il punto è proprio questo: GECO non è Banksy. Per quanto il famosissimo artista “anonimo” di Bristol abbia iniziato facendo azioni che si potrebbero associare a quelle del writer romano, le due sfere non sono paragonabili. Michele Serra in questi giorni si è addirittura spinto a paragonare GECO con artisti quali Giotto e Caravaggio (oltre a Banksy) e di come quest’ultimi riescano nell’intento di emozionare l’osservatore, non cogliendo quanto sia fuorviante associare GECO al mondo dell’arte e ai suoi parametri.

GECO è un grido

Risulta infatti inutile, se non proprio sbagliato, giudicare i graffiti urbani in base a come giudichiamo l’arte. Che senso avrebbe dare giudizi di qualità a un graffito con gli stessi criteri estetici ed etici con cui ci riferiamo al concetto di arte tradizionalmente accettato.

Eppure al fatto che qualcosa possa essere bello e di qualità senza essere identificato con la parola arte, è una conquista a cui eravamo già arrivati da tempo. Inoltre chi l’ha detto che non ci si possa emozionare di fronte a un GECO di 5 metri a più di 50 d’altezza, su un architettura in rovina e abbandonata nella periferia romana. Non tutti i GECO, sia chiaro, si trovano su architetture abbandonate e in periferia, altri si trovano in zone più centrali e su pareti più “nobili” come quella famigerata del mercato coperto in via Magna Grecia o la torre piezometrica della stazione Termini.

Inoltre l’identificazione e l’emozione possono avvenire non per il contenuto di quello che si vede, ma per come quella mancanza di contenuto si è palesata sotto gli occhi di tutti, in posti che sarebbero inaccessibili a chiunque. Ci si può emozionare anche pensando al rischio che quella persona corre per realizzare ciò che vuole, e di come questo rischio sia accettato solipsisticamente. In fondo anche l’azione del gesto è stata riconosciuta come un’espressione fondamentale dell’arte.  Si potrebbe anche azzardare a leggere la ripetizione compulsiva ed egocentrica del nome GECO come uno dei tanti specchi contemporanei di una gioventù vacua di valori, che ostenta loghi in una società che ha sempre meno spazio per loro. In cui ciò che conta è l’esibizione del prodotto comprato, anzi conquistato. Cos’è GECO se non il grido del proprio logo.

Una diversa prospettiva

In queste righe non si sta affermando che GECO è arte, o almeno che non lo è necessariamente, come non si vuole difendere a spada tratta tutto ciò che è graffiti o writing. Si sta solo guardando la questione da una diversa prospettiva.

È più che legittimo indignarsi per le azioni dei writer o identificare GECO come un atto vandalico e illegale, come qualcosa di non richiesto allo spazio visivo e quotidiano – e infatti è quello a cui si assiste solitamente. È altrettanto legittimo però accettare che un’altra parte della popolazione, sicuramente una minoranza, possa apprezzare GECO e più in generale i graffiti urbani. Una parte che preferisce vedere la scritta GECO anziché immensi cartelloni pubblicitari, anche questi non richiesti allo sguardo quotidiano. Per tante persone vedere GECO significa essere a casa.

Geco sta lì, sui muri, piaccia o non piaccia. Per ora.

Continuate a seguirci su FRAMED.

1 commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui