Ideata da Francesco Ebbasta e in collaborazione quindi con The Jackal, arriva su Netflix Generazione 56K, la serie TV che ci ha sorpreso come uno dei prodotti più piacevoli del momento.
Un’idea semplice (ma non per questo banale), alla base una buona scrittura che rimane fedele fino alla fine al soggetto, una regia fluida che non pecca mai di presunzione e che si fonde alla perfezione con una fotografia vivida e invitante: Generazione 56K (prodotta da Cattleya) è una serie che si divora in un pomeriggio, preferibilmente estivo, intanto fuori luglio si infiamma e dal divano si ripensa alle estati passate con dolce nostalgia.
Mentre i ragazzini urlano e girano in bici, il telefono continua a segnalare notifiche su notifiche, e ho un appuntamento per cui devo prepararmi ed uscire, la serie di Francesco Ebbasta mi tiene incollata allo schermo, un po’ perché ci ritrovo quei ritmi che hanno scandito la mia stessa infanzia, un po’ perché è proprio bella.
Vederla tutta d’un fiato era l’unico modo che avevo per ricordarmi quel tipo di sensazioni e fare un viaggio nel tempo totalmente imprevisto. Quel “56k” mi riporta indietro al primo computer, al divieto di connettermi, alla sacralità di un oggetto che oggi tengo in tasca, e mi fa sentire parte di tutto. Mi riporta al rumore bellissimo di una connessione a bassissima velocità, che nel 1998 sembrava il passaporto virtuale per conoscere il mondo.
La generazione della connessione rumorosa
Generazione 56K si racconta su due piani temporali: il presente, a Napoli, e il passato, il 1998, sull’isola di Procida. Tre amici, Daniel, Sandro e Luca (Lu), prima bambini e poi adulti, presenti nel momento esatto in cui Internet inizia ad occupare un posto ben preciso come risorsa per “cercare cose”, sviluppatori di app in seguito, quando ormai la connessione riformula le vite e le relazioni in base ad algoritmi che governano quasi tutto, anche il tempo.
Ma è proprio il concetto di tempo che la serie, di puntata in puntata, cerca di analizzare, fino al settimo e penultimo episodio intitolato Message in a Bottle (e guardandolo capirete perché). A come è dilatato, sospeso, tangibile negli anni ’90 dei diari scolastici e delle VHS, e a come si fa rarefatto e sfuggente, tra profili Instagram, messaggi vocali e appuntamenti al buio tramite app ai giorni nostri. E quale miglior pretesto se non un amore preadolescenziale nato proprio tra i banchi di scuola, e poi ritrovato, per pura congiunzione astrale, in un momento dove i personaggi pensavano di non avere più con sé di quei ricordi? Un incontro che stravolge le vite dei protagonisti, proprio perché degli algoritmi se ne frega, e arriva per ridargli tutto il tempo perso, in forma nuova.
Il cast e la cura dei dettagli.
Nel ruolo di Daniel, la rivelazione Angelo Spagnoletti, i suoi amici di sempre Sandro e Lu sono interpretati rispettivamente da Fabio Balsamo e Gianluca Fru, direttamente da The Jackal, nessuno avrebbe immaginato amici migliori. Nel ruolo di Matilda, Cristina Cappelli, e Claudia Tranchese è la sua migliore amica d’infanzia Inés. Senza dimenticare gli altri componenti del cast (come il bravissimo Sebastiano Kiniger, e tutti i bambini). Gli scenari del passato sull’isola sono curatissimi e ricchi di dettagli: ogni oggetto, dalle Barbie con cui giocano le bambine alle felpe di pile multicolore riportano agli anni ’90.
Generazione 56K trasmette una nostalgia positiva, e mi fa allontanare lo smartphone per andare a sfogliare un vecchio diario di quinta elementare, per ripensare ai rapporti per come dovrebbero essere. Il tutto con una narrazione che non si fa problemi a parlare di cambiamenti e distacchi, senza però abbandonare mai una grande leggerezza, che pervade e risveglia.
Consigliatissima.
Continua a seguire FRAMED per consigli su serie TV. Siamo anche su Instagram e Telegram.