Jafar Panahi in una scena de Gli orsi non esistono. Credits: Academy Two.

Ci sono (grandi) film politici che sono anche (grandi) riflessioni sul mezzo cinematografico, ed è il caso de Gli orsi non esistono (Khers nist)di Jafar Panahi, regista iraniano (già Leone d’oro per Il cerchio e Orso d’oro per Taxi Teheran) che ha pagato e paga la propria indipendenza dal regime degli ayatollah. Passato a Venezia 79 in assenza del cineasta (arrestato a luglio con altri colleghi e condannato a sei anni di detenzione), affermatosi nel palmarès col Premio Speciale della Giuria, il lungometraggio è arrivato nelle nostre sale per Academy Two. E intanto, nel Paese di cui ci parla, la protesta contro il regime è (ri)esplosa, assumendo la forma di una resistenza guidata dalle donne che, dopo la morte di Masha Amini e malgrado la sanguinaria repressione, non accenna ancora a fermarsi.

Una scena de Gli orsi non esistono. Credits: Academy Two.

Lo scandalo dell’immagine

Anche questo nuovo lavoro di Panahi è un atto irriducibile di opposizione, da parte di un filmmaker che dal 2010 deve realizzare le proprie opere in semiclandestinità, senza poter rilasciare interviste né allontanarsi dal suo Paese. Gli orsi non esistono prosegue allora il discorso del regista divenuto anche protagonista dei suoi film, dove interpreta un se stesso metacinematograficamente al limine tra documentazione del reale e apologo immaginario. E dopo il precedente Tre volti (2018) il cineasta-attore-personaggio si cala ancora nell’Iran rurale, muovendosi come elemento estraneo fra cortesie formali che celano ostili diffidenze, superstizioni ed equilibri di potere che, se messi in discussione, svelano il loro volto più irrazionalmente crudele.

Ed è il gesto di catturare e riprodurre frammenti di realtà ad essere additato come atto massimamente eversivo. Perché a destabilizzare gli abitanti di un villaggio al confine con la Turchia è la foto che il regista-protagonista, ospite per girare un film da remoto, avrebbe scattato a una coppia di giovani osteggiata dai notabili locali: lei promessa dalla famiglia a un altro, lui espulso dall’Università di Teheran per aver partecipato a una manifestazione.

È un’immagine, la pietra dello scandalo. E, mentre questo si consuma, il cineasta porta avanti la travagliata lavorazione del film nel film, un documentario (nella finzione) su una coppia che dallo Stato turco tenta di raggiungere clandestinamente l’Europa. Panahi li segue a distanza (impossibilitato a sua volta a varcare i propri confini nazionali), mentre affronta la tormentosa evoluzione del proprio caso personale nel paesino. Mostrandoci così, in entrambe le storie, la contraddizione mai tanto stridente tra nuove connessioni e vecchie barriere tra persone e comunità.

Mina Kavani e Bakhtiar Panjei in una scena de Gli orsi non esistono. Credits: Academy Two.

Ambiguità e responsabilità

Ma soprattutto, con la forza della sua apparente sobrietà stilistica, il film scava nel funzionamento del mezzo audiovisivo mettendone in risalto, sin dalla prima inquadratura, lo statuto ambiguo. Nel mai del tutto decidibile discrimine tra verità e rappresentazione, in un mondo dove la seconda (nei riti e nelle tradizioni plurisecolari come nella modernità ipermediatica) tende a prevalere sulla prima.

Chiamando in causa tanto più la coscienza e la responsabilità di chi lavora col linguaggio e gli strumenti audiovisivi. E che, come Panahi, può scegliere di non passare oltre. Di continuare, al netto di rischi e conseguenze, a indagare criticamente il reale. Si chiama cinema, si chiama resistenza.

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Foto profilo Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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