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Non erano neanche finiti i conformisti anni Cinquanta quando, al dodicesimo Festival di Cannes, fu proiettato I 400 colpi, primo lungometraggio di François Truffaut. Ma la rivoluzione della Nouvelle Vague, a quel punto, era in atto. E, oltre sessant’anni dopo, il volto del giovanissimo protagonista Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), che vedremo crescere in successivi quattro film, è ancora il manifesto di un cinema d’autore che riesce ad essere dirompente con anarchica, irriducibile leggerezza.

La rivoluzione di quel ragazzino (e quel cinema) che “fa i quattrocento colpi” (espressione francese che indica il ribellarsi contro regole e convenzioni) non spara e taglia di netto come quella del Michel/Belmondo di Godard, ma ugualmente non guarda in faccia a nessuno. Si fa beffe di insegnanti rigidi e ottusi, di genitori assenti e ipocriti, inventando irriverenti storie sulla loro morte. Si nutre della cultura che fu e della tecnica che è, riscrivendo Balzac in un tema di scuola o rubando una macchina da scrivere per pagarsi il primo viaggio al mare. Fugge dal riformatorio per correre verso un altrove e un assoluto che non possono essere detti, forse solo inquadrati.

L’utopia del (miglior) cinema d’autore è ancora tutta lì: mettere in crisi i capisaldi (est)etici di una società con lo spirito di un pre-adolescente inquieto, dei suoi scherzi e delle sue rivolte, dei suoi silenzi e delle sue parole senza riguardo. Rompere i confini tra (rappresentazione del) reale e sua reinvenzione poetica, tra artista e intellettuale, cineasta e critico. (Ri)affermare le ragioni della libertà espressiva sugli sche(r)mi dell’industria incartata su se stessa. E oggi, in epoca di crisi delle alternative, quel film ci dimostra che le utopie possono diventare (e sono diventate) realtà.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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