“Sembrava il personaggio di un film sulla rivoluzione messicana, più che il miglior calciatore di tutti i tempi”, dice Kusturica guardandolo e mostrandocelo, “sembrava uscito da un film di Sergio Leone o di Sam Peckinpah che, dopo aver salutato qualche signora, entra dentro una stanza portando l’odore della polvere da sparo della rivoluzione. Ero sicuro di una cosa: se non fosse diventato un calciatore, sarebbe stato un rivoluzionario. Perché non aveva bisogno di incentivi esterni per gettarsi nella mischia, era rivoluzionario dentro”.
Il ritratto di Kusturica è perfetto: strappa il mito dall’essere umano, schernisce l’idolatria per dimostrare come il suo peso abbia spinto alla dissoluzione del corpo in favore della “santità” in terra.
Kusturica ha di fronte un mito che sa di essere mito e ne deve narrare la vita. Ma non c’è finale migliore dell’inizio di tutto: un ragazzino gracile che palleggia senza staccare mai il pallone dal corpo, solo, nel bianco e nero della pellicola, senza tifo, senza sirene, senza musica. Soltanto il rumore i quel pallone che non smette mai di rimbalzare.
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