Classe 1991, il cineasta Wei Shujun realizza per la sua opera terza un thriller psicologico che ambisce a ricodificare il noir orientale. Con qualche forzatura di stile, l’esito è tuttavia ragguardevole.
Un incipit che sembra degnamente riecheggiare Twin Peaks: una donna viene trovata assassinata nel lungofiume della cittadina di Banpo (nella provincia agreste di Shaanxi, in Cina). È da qui che si articola il thriller grottesco del giovane Wei Shujun. Enfant prodige della macchina da presa, dopo un modesto trascorso da interprete, l’autore pechinese inscena uno dei racconti più anomali dell’arcipelago filmico orientale. L’anzidetto omicidio nel prologo sbriglia una tortuosa indagine ad opera di Ma Zhe, granitico capo della polizia locale, diviso tra la sua strenua intransigenza sul lavoro e i rovelli di un matrimonio conflittuale (segnato dall’arrivo di un figlio, forse non voluto).
Tra ricerche e interrogatori, gran parte degli indizi sembrano ricondurre il crimine a un responsabile per lo più ovvio (forse fin troppo scontato): un concittadino dalla psiche fragile. L’affiorare di nuovi dettagli, del tutto impensati, andrà però ad aprire nuove possibili piste. Un mosaico sempre più frastagliato e convulso, scevro da qualsiasi facile intuizione. Realtà e allucinazione sembrano compenetrarsi, definendo uno scenario fumoso ed inquietante.
La vita intima di Ma Zhe sembra confondersi con il suo caso. Spettri e suggestioni irromperanno nei suoi sogni, acuendo sospetti e complicando i suoi rapporti impersonali. Si andrà così a comporre un amalgama onirico di cui il paesaggio rurale, che adorna la vicenda, sembrerà fare perfetta eco: fosco e imperscrutabile.
Un noir atipico, da leggere senza le lenti occidentali
Presentato a Cannes 2023 nella sezione parallela Un Certain Regard, il film appaga indubbiamente l’entusiasmo che ne ha accompagnato la distribuzione: le tinte noir, le atmosfere sospese, la puntuale e verosimile ricostruzione del contesto storico (gli anni ’90 cinesi) restituiscono una suggestiva novità nello scacchiere del cinema orientale. Visti anche i temi e le sfumature, l’opera però sembra difficilmente catalogabile come ‘noir’ in senso lato, specie se incasellata sotto l’ombrello degli stilemi e dei codici espressivi occidentali.
In questo senso vi è, per paradosso, una grande distanza dal classico hollywoodiano a cui ammicca il titolo italiano: il capolavoro La morte corre sul fiume (1955) a firma di Charles Laughton. In quell’occasione il killer protagonista, impersonato da un Robert Mitchum in stato di grazia, era la personificazione di un male sconosciuto che ammantava le coste paludose del West Virginia; una forbita allegoria di un’America paranoica e incerta, reduce dall’esperienza lacerante del maccartismo; una tensione che sembrava tradursi nel fanatismo protestante del maniaco, pastore evangelista impersonato da Mitchum.
L’opera di Wei Shujun percorre però altri binari: non ricalca infatti un registro noir tipicamente anglofilo, al contrario si presenta più come un’investigazione introspettiva. Nel film infatti vi è infatti una smaterializzazione del male o del nemico contro cui l’antieroe sembra misurarsi. Il mistero nebbioso ed evanescente che innerva la cittadina sembra non trovare mai alcuna definizione. Il carnefice, l’autore degli efferati omicidi che si avvicendano, non si rivela mai apertamente, se non in delle suggestioni o nei riverberi inconsci dell’ispettore protagonista; è nella sua stessa mente, di fatto, che si annida il vero antagonista dell’intreccio. La natura ostile degli abitanti e del paesaggio sembrano il degno corollario di un incubo a occhi aperti senza alcuna soluzione di continuità.
La Cina attraverso il genere: un racconto inedito
Il giallo di Shujun, di degno pregio nei suoi intenti e tanto più nell’originalità della sua messa in scena, calca forse troppo la mano con un linguaggio talvolta ai margini dell’ermetismo. I continui andirivieni tra realtà narrativa e onirica rischiano di complicare la lettura e la godibilità del racconto. Va tuttavia apprezzato come singolo caso cinematografico; un’opportunità per scoprire la Cina attraverso il genere. Una Cina che prova a decostruire la sua storia mutuando il debito della tradizione estetica e filosofica occidentale.
La citazione predittiva di Albert Camus in apertura è di per sé emblematica: “Non comprendiamo il destino, ed è per questo che mi sono fatto destino. Ho assunto il volto sciocco e incomprensibile degli dei”; frase quest’ultima degnamente attribuibile a un film noir classico. Meno esplicita ma paradossalmente più sentita è una certa vicinanza alla poetica di Kafka, specie de Il processo. Seppur non esplicitamente, Shujun si serve di un registro macabro e surreale per delineare i connotati del regime cinese dell’epoca: il corporativismo, la gerarchizzazione della società e l’affermazione di uno stato ‘leviatano’, all’interno del quale il singolo non può che alienarsi.
L’essere umano diviene una ‘cosa tra le cose’, ostaggio passivo di una burocrazia deviata e opprimente, rendendo così insicuro il suo rapporto con le masse (si pensi solo al finto cameratismo che serpeggia tra le autorità poliziesche nel film, per molti versi molto analogo alla violenza di Stato descritta da Bong Joon-ho in Memorie di un assassino (2003), riferito però alla Corea del Sud anni ’80, nel pieno del regime militare di Chun Doo-hwan).
«Far rivivere un’epoca non è un motivo sufficiente di per sé e la nostalgia può addirittura rivelarsi un’insidia», rivela Shujun in un’intervista: «Credo che dovremmo evitare la reazione emotiva che l’effetto “vintage” può evocare». I torvi chiaroscuri dei frame, realizzati grazie al suggestivo lavoro di post-produzione sul girato, definiscono di fatto una fase storica ambigua e insidiosa, dove l’autocoscienza dei singoli è sempre più sfuggevole.