Copertina a cura di Cristiano Baricelli
Illustrazione di Cristiano Baricelli.

L’alieno che mette radici nella consuetudine, innestandosi silenziosamente, stravolge la vita nel piccolo villaggio inglese di Midwich.

Questo è il cuore del film di Wolf Rilla, adattamento del romanzo di fantascienza del 1957 I figli dell’invasione (The Midwich Cuckoos) di John Wyndham. Il cult horror fantascientifico del 1960 è pervaso di silenti vibrazioni terrificanti proprie di una modalità narrativa priva di fronzoli (e di sangue).

Il film ebbe un sequel, La stirpe dei dannati (1964), e un remake, Villaggio dei dannati (1995), diretto da John Carpenter. Nessuno dei due eguaglia il senso di paura dell’originale, celebre per quei primi occhi alieni, bianchi e luminosi come fari sul non conosciuto. Non ci sono spargimenti di sangue o scontri violenti, nessuna uccisione macabra o estrema. Solo la sensazione di minaccia irreversibile, e il potere della manipolazione mentale.

Ma cosa rende Il villaggio dei dannati (Village of the Damned) ancora vivo e spaventoso?

Una storia semplice

Uno strano evento immobilizza il villaggio di Midwich per qualche ora: i suoi abitanti scivolano in un sonno profondo e l’intera area, compresi i campi intorno, diventano pericolosi per gli avventori. Chiunque provi ad avvicinarsi viene colto da uno svenimento improvviso. Come se nulla fosse nel tardo pomeriggio tutti si riprendono. Il primo pensiero va ad una conseguenza delle esercitazioni militari effettuate nelle vicinanze, magari un gas o qualche altra sostanza tossica.

Solo qualche settimana dopo gli effetti di quella strana giornata prenderanno mostruosamente forma. Tutte le donne in età fertile del villaggio, comprese ragazze adolescenti o mogli, scopriranno di essere incinte. Compresa la moglie del fisico Gordon Zellaby (George Sanders), il quale inizia a farsi domande sull’accaduto oltre che ad affiancare le autorità nella possibilità di comprendere.

Quando i bambini nasceranno ad accomunarli sarà il colore dei capelli, un biondo quasi candido, e un’intelligenza così spiccata da sembrare propria di un’altra razza. Crescendo, le bambine e il bambini, svilupperanno un sofisticato collegamento telepatico nonché la capacità di manipolare le menti altrui, sfruttando in modo sadico tale potere nel caso di minaccia.

Le possibilità dell’immaginazione: come in una puntata di The Twilight Zone

Il brivido che si insinua nell’umano è qui sia mentale che fisico: un’entità aliena ha deliberatamente scelto quel villaggio (e altri luoghi nel mondo come dimostrano le ricerche della polizia) per generare una nuova generazione di alieni.

Il villaggio dei dannati è del 1960, quasi contemporaneo alla serie Ai confini della realtà, di cui la prima stagione andò in onda tra il 1959 e il 1960. Il film ricorda molto il modo sottile di suscitare terrore della serie fantascientifica creata da Rod Serling. Sviluppa infatti il tema della minaccia aliena e la paura di sentirsi assediati, controllati, e al contempo concentra tutto in un gruppo di bambini, apparentemente innocenti.

Ciò che pietrifica in una condizione di impotenza viene veicolato da un’unica immagine, più inquietante di qualsiasi volto sfigurato o massacro sanguinolento: gli occhi dei bambini, in un fermo immagine perturbante. L’effetto fu creato volgendo l’immagine dei loro occhi dal positivo al negativo, e sovrapponendoli ai volti. La versione del film che uscì nel Regno Unito era priva di tale effetto per proteggere la sensibilità degli spettatori.

Il villaggio dei dannati
Il villaggio dei dannati (Village of the Damned), diretto da Wolf Rilla. Metro-Goldwyn-Mayer.

Con una forza inaudita quegli occhi luminosi prendono posto nella nostra mente, e diventano un’immagine a sé che dà forma alla paura dell’alieno. Il villaggio dei dannati con il suo bianco e nero volutamente freddo e asettico si sofferma su una delle paure più antiche dell’uomo, accendendosi come una luce sulle sue possibilità catastrofiche.

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L’illustrazione originale in copertina è di Cristiano Baricelli, che ringraziamo. Qui il suo sito ufficiale.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.