Sul solco dell’ottimo seguito riscosso da Niente di nuovo sul fronte occidentale, l’adattamento a firma di Edward Berger dell’omonimo capolavoro letterario di Erich Maria Remarque, si assomma silenziosamente un altro notevole lungometraggio con sfondo la Grande Guerra. Presentato come film d’apertura della sezione parallela Un Certain Regard del Festival di Cannes 2022, Io sono tuo padre di Mathieu Vadepied si mostra anzitutto come una suggestiva opera sul senso della genitorialità. I rapporti affettivi travalicano qualsiasi sovrastruttura ideologica (persino nell’epoca del pieno fervore dei nazionalismi e dell’aberrante retorica imperialistica), in favore di un’inopinata riscoperta della propria dimensione umana.
Va ammessa, a un primo sguardo, l’unica nota da sollevare è rivolta al titolo scelto per la distribuzione italiana. L’originale nome francese Tirailleurs sembra di fatto restituire maggiore giustizia al retroterra storico affrontato: con il termine ‘tirailleurs (o fucilieri) sénégalais’ si alludeva a tutti quegli uomini che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, venivano prelevati dalle terre d’origine per essere forzatamente reclutati nell’esercito regolare francese. Fenomeno inizialmente circoscritto ai possedimenti imperiali dell’Africa occidentale (in particolare in Senegal), destinato man mano ad ampliarsi in gran parte delle regioni subsahariane.
Un padre, un figlio e la guerra lontana
Protagonisti della vicenda sono un padre e un figlio: Bakary (impersonato da Omar Sy) e il giovane Thierno (Alassane Diong, alla sua prima prova attoriale da co-protagonista). Nel 1917 vengono entrambi rapiti dal loro villaggio d’origine e cooptati in un reggimento composto da soldati africani dalle provenienze più disparate (dal Niger, passando per il Sudan, fino alla Guinea). Intento a volerlo proteggere e riportare in seno alla propria terra, Bakary seguirà il figlio fino in trincea arruolandosi volontariamente.
Oltre al nemico fisico (quello tedesco che, loro malgrado, fronteggeranno sul campo da soggettivi passivi), dovranno fare anche i conti con il fanatismo bellicistico propugnato dai colonizzatori: Thierno, da soldato nero, verrà infatti raggirato dalle promesse ingannevoli dei gerarchi bianchi, presi a millantare un avvenire stabile a tutti quei fucilieri che andranno a distinguersi per onore, audacia e fedeltà verso la loro nuova patria ‘acquisita’. Ai meritevoli rimpatriati, verrà garantito un lavoro e una casa, sebbene le operazioni suicidarie orchestrate dai generali renda difficile alcuna prospettiva.
Ma la narrazione militaristica attecchisce già nelle camerate e negli spazi condivisi (dalle mense ai dormitori), dove gli ufficiali bianchi ostentano una finta simmetria e complicità tra i commilitoni, se non poi soggiogarli alle loro direttive, viziate dal loro miope integralismo. A dispetto dei suoi diciassette anni, Thierno viene promosso a caporale, così da certificarsi la sua deferenza all’esercito; momento quest’ultimo non poco critico, che acuirà le distanze col padre, senza però mai dissipare la volontà dell’uomo di preservare con ogni mezzo il suo primogenito.
L’apparato valoriale di Bakary, il sentimento animistico mutuato dal continente africano, che vede la dignità, le relazioni e la famiglia (intesa non in senso paternalistico, ma come spazio di mutua cura e sostegno) come principi quintessenziali dell’essere umano, troveranno avversa l’autodistruttività e la violenza di un Occidente irretito da due immaginari sovrapposti: quello colonialistico e quello interventista.
Spetterà alla storia conferire all’esperienza di Bakary la sua collocazione, quale spaccato umano ancora in cerca di riscatto, come quello degli innumerevoli fucilieri ‘invisibili’ caduti in quel conflitto mai sospinto e i cui resti, come suggerito dal film, potrebbero giacere ai piedi dell’Arco di Trionfo sotto l’epigrafe del ‘milite ignoto’.
Visioni e ispirazioni cinematografiche
Impossibile, per chi ama il cinema italiano, non cogliere un rimando (seppur indiretto) a uno dei lungometraggi più rappresentativi della guerra di trincea, oltre al classico La Grande Guerra di Mario Monicelli o all’ultima indelebile opera ermetica di Ermanno Olmi Torneranno i prati.
Si parla chiaramente del cult Uomini contro di Francesco Rosi, parzialmente ispirato al romanzo di Emilio Lussu, in cui la lettura politica del conflitto si traduce nell’impotenza del soldati davanti allo slancio fanatico e integralista dei generali, fino a sobillare l’ammutinamento di massa delle milizie. La guerra era vista non più sotto una mera lente ‘geopolitica’, in cui vi è un scontro tra Stati-nazione volto a ridefinire i confini, ma come eccidio di esseri umani alla mercé di potenti invasati: il tragico parossismo di una lotta di classe fallita dai ceti subalterni.
Ed è proprio questa la cornice tematica a cui sembra far eco la pellicola del parigino Vadepied, sceneggiata con Olivier Demangel (tra gli autori dell’ottimo Atlantique di Mati Diop).
La trincea come spazio anonimo, senza blasoni o bandiere, in cui di rado il nemico viene raffigurato e dove a trovar spazio sono solo la deumanizzazione, la morte e la sopraffazione ‘degli ultimi’.
La prospettiva postcoloniale
Come ben raccontato dal lungometraggio, è però il colonialismo l’ideale laboratorio dottrinale di questo processo. Il momento in cui, per parafrasare I dannati della terra di Frantz Fanon, scritto sull’onda della guerra di liberazione algerina, i sogni dei colonizzatori hanno sabotato e contraffatto quelli dei coloni, inducendoli all’alienazione (si pensi in questo senso all’opera irrinunciabile di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri).
La vera prospettiva ‘post-coloniale’ mira anzitutto all’emancipazione psichica delle comunità e alla riappropriazione dei propri desideri collettivi; il seminato ideale per poter immaginare un nuovo mondo. Un aspetto quest’ultimo di cui il protagonista Bakary ne è forse il principale depositario (o anticipatore), nel suo strenuo tentativo di custodire il senso umano dei legami.
Pregevole la performance di Omar Sy (qui anche in veste anche di produttore esecutivo), forse un ulteriore spartiacque nella sua già variopinta filmografia. Non poche sono le sequenze recitate in lingua fulah, caratteristica dell’Africa occidentale, tassello che impreziosisce una resa scenica funzionale e asciutta, forse non pari all’imponente ricostruzione del 1917 di Sam Mendes, ma di certo non meno efficace.
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