Ci sono piantagioni di cotone negli Stati Uniti del sud dove a lavorare sono i bianchi. C’erano, almeno, negli anni Trenta, perché in uno di essi, nell’Arkansas, crebbe Johnny Cash.
Proprio in quegli stessi anni, non troppo lontano da lì, nel Mississippi, cresceva un altro ragazzo che sarebbe passato alla Storia col nome di Elvis Presley. Cash e Presley: due nomi che condividono un destino che viene prima della musica stessa. O, meglio, che ne è all’origine.
Entrambi costretti a caricarsi sulle spalle il peso tremendo delle vite spezzate dei loro fratelli maggiori. Entrambi costretti a dimostrare ogni momento ai propri genitori che non fosse morto il figlio sbagliato.
Senza voler stare al centro dell’attenzione
Entrambi hanno scelto la musica per farlo. Ma Johnny Cash non è e non sarà mai la classica rockstar, come lo sarà Elvis Presley. È introspettivo e non ha alcun interesse verso l’idolatria.
Come Elvis, si arruola, come Elvis cede alle droghe e all’alcol, alle donne. Eppure, differentemente da lui, lo fa per sé stesso e non per apparire agli altri.
È come se la sua pena la volesse scontare nella sua intimità, piuttosto che sotto le luci dello star system. Come Elvis, Johnny è la star del rock anni ’50, ma non pretenderà mai di esserne il re.
Non è nel suo stile: secco, diretto, spesso brutale come i suoi testi che gridano al mondo le ribellioni senza causa della sua generazione. Con un tratto inconfondibile che lascia trasparire tutta la sua vena intimistica: una voce profonda, baritonale, che sa adagiarsi su note bassissime senza mai perdersi, accompagnando l’ascoltatore in una cavalcata dentro se stesso.
Johnny, profondamente religioso, viveva in sé la tragedia cristiana del peccatore: desiderio e trasgressione, peccato e penitenza. Anfetamine, tranquillanti, alcol, risse, tentati suicidi, arresti: poi il ritorno alla spiritualità, sempre attraverso quella chiave di accesso che era la musica, gospel o rock’n’roll, country o rockabilly che fosse. Era la musica a salvarlo.
Come lo salvò dalla solitudine permettendogli di trovare l’amore della sua vita, June Carter. Per lei si disintossica, più di una volta, per lei non smette di suonare, nemmeno quando polmonite, diabete, peritonite, infarto e vari disturbi neurodegenerativi lo sfiancano. Per lei, riemerge anche dalla palude della depressione.
Lo fa anche grazie a Rick Rubin, produttore storico del nuovo rock anni ’90, dai Red Hot Chili Peppers ai Linkin Park, dai System of a down agli Audioslave. Rubin lo convince a prendere la sua chitarra e reinterpretare a suo modo pezzi sacri di quel nuovo rock. Basta quella chitarra e la sua voce, roca, stanca, ma sempre meravigliosamente profonda, per aprire quello che sembra un nuovo capitolo della Storia della musica.
Lo è senz’altro della sua vita, che prosegue fino al 2003, quando, sempre per la sua June, muore, pochi giorni dopo la sua scomparsa. Ma lascia dietro di sé qualcosa di unico, un testamento che non permette di trattenere le lacrime: è nientemeno che una cover dei Nine Inch Nails,
Hurt.
Canzone e video, la sua voce profonda e tremante che emerge dai solchi di un viso offeso dal tempo. Sono l’espressione della splendida tragedia della vita, ma anche di un uomo che l’ha vissuta tutta, senza risparmiarsi mai, fino in fondo.
L’esperienza cinematografica
Al cinema “l’uomo in nero” viene descritto dal film di James Mangold (Ragazze interrotte, 1999, Quel treno per Yuma, 2007), Walk the Line (Quando l’amore brucia l’anima) del 2005. Un’immersione nei ricordi di giovinezza che assale il cantautore (interpretato da Joaquin Phoenix) prima di un concerto nella prigione di Folsom. L’infanzia, il primo, fallimentare, amore, e il secondo, definitivo e totale, con June Carter (interpretata da Reese Witherspoon).
Tratto dai libri Man in Black, scritto dal cantautore, e Cash: An Autobiography (biografia di Patrick Carr e lo stesso Cash), il biopic ha una grande accoglienza e crea un’immagine di Johnny Cash, nonostante i dettagli più romanzati e la love story immortale che a tratti diventa glamour, che sopperisce ad una mancanza anche per quella parte di pubblico che non conosce il personaggio.
Basta accostarsi ai film che vedono Cash nel cast per capire però dove e quante siano le differenze tra idealizzazione e realtà. Dalla fine degli anni ’50 apparirà in tantissime serie e film per la televisione di genere western tra cui Wagon Train e Shotgun Slade, ma anche lungometraggi come Five Minutes to Live (1961).
Nel 1971 comparirà in Quattro tocchi di campana (A Gunfight) diretto da Lamont Johnson (1971) accanto all’attore Kirk Douglas. Anche qui Cash si veste completamente di nero ed è a suo agio nei panni del pistolero Abe, l’ambientazione e gli elementi del genere sembrano trasportare in un altro tempo le sue stesse agonie, dandogli modo di procedere con un percorso di catarsi che proseguirà fino alle ultime opere tra il 1998 e il 2003.
Vestire i panni del malinconico e forte cow boy al cinema permette a Johnny Cash di reinventarsi, ma è la serialità degli anni ’90 a rinnovare totalmente il suo personaggio attraverso ruoli tipici di quegli anni, in cui l’ironia si accompagna al dramma esorcizzando dolori e vecchie ferite.
Johnny cash e La Signora del West
Saranno gli speroni o la possibilità di indossare camicie da sceriffo: Cash si evolve e da un piccolo ruolo ne La casa nella prateria nel 1976, si fa spazio in serie tv inaspettate in cui i fan storici non avrebbero mai pensato di vederlo.
Chi si ricorda de La Signora del West? Vi rinfreschiamo la memoria, è la serie creata da Beth Sullivan e andata in onda tra il 1993 e il 1998. Ambientata nella seconda metà dell’800 in Colorado, racconta le particolari avventure di un medico donna venuto da Boston, che si innamora del selvaggio Sully e difende i diritti dei nativi. Proto femminismo in costume e massacri storici, e la comparsa di un personaggio inaspettato e della sua compagna: sono Johnny Cash e June Carter, rispettivamente Kid Cole e Sister Ruth.
Lui è uno sceriffo dai saldi principi (con un passato turbolento in cui ha ceduto all’alcol), lei è la donna che l’ha salvato grazie all’amore e alla religione. Lei compare in tre puntate, lui in quattro, e sembra quasi che in questo ruolo Cash trovi la redenzione da uomo di valore che aveva sempre cercato. Inoltre le puntate in questione, rispecchiando le posizioni di tutte le stagioni della serie, affrontano episodi fondamentali della storia dei Nativi americani; la coppia del country era fortemente attiva per i diritti della popolazione pre-coloniale e dei loro discendenti.
Cash parteciperà anche alla serie tv Renegade (1996), ma è con una puntata dei Simpson che si astrarrà definitivamente per il suo pubblico diventando una leggenda immortale. Serviva un cartone animato per farlo diventare un mito? Questo forse no, ma sicuramente è stato il passo più intenso e originale della cultura pop di fine millennio verso un mostro sacri della musica, per creare una fusione artistica senza precedenti.
Nella puntata Johnny Cash è lo spirito guida di Homer Simpson, che gli compare, sotto forma di coyote, nel bel mezzo del deserto dopo una lunga camminata costellata di pensieri. Homer si chiede se Marge sia la sua anima gemella. L’animale gli indica la giusta via, svelandogli anche le grandi verità di cui non riesce ancora a fare tesoro.
È così che vogliamo ricordare il suo spirito, tutt’altro che nero, ma capace di muoversi nel tempo sperimentando ogni tipo di esperienza, dalle più autolesioniste, a quelle ascetiche, grazie all’amore e al cinema, passando per la fantasia e la trasformazione in una guida fatta di spirito, dopo una vita intensa, unica.
Abbiamo scritto a quattro mani questa dichiarazione d’amore: per l’analisi musicale Alessio Tommasoli, per il cinema e la serialità Silvia Pezzopane.