
Ispirato ad antichi racconti dell’Africa occidentale, Kirikù e la strega Karabà (1998) è uno dei più celebri e premiati film dell’animazione francofona, oltre che esordio alla regia di Michel Ocelot, di nuovo nelle sale con Il faraone, il selvaggio e la principessa (2022).
Il protagonista Kirikù è un bambino, o meglio uno straordinario neonato, con le abilità fisiche e psicologiche di un adulto e lo spirito, quasi divino, di un predestinato. Assume, infatti, su di sé il rischio e la responsabilità di sfidare e sconfiggere la terrificante strega Karabà, salvando così il suo villaggio.
L’avventura dell’astuto e tenero Kirikù è costellata di pericoli e di prove da affrontare prima del confronto diretto con la strega.
È un’avventura, però, pensata principalmente per un pubblico infantile, soprattutto per l’uso chiaro del linguaggio e quello didascalico della musica, realizzata appositamente per il film dal celebre Youssou N’Dour.
Al di sotto della superficie fiabesca, tuttavia, si cela un profondo discorso sull’esistenza e la persistenza del male.
Kirikù si chiede continuamente perché la strega sia cattiva e questa domanda, pur nella sua semplicità formale, rappresenta l’intera indagine sulla natura umana portata avanti da Ocelot nel lungometraggio.
Karabà è stata resa malvagia dalla violenza di altri uomini e l’origine della sua malvagità, rappresentata fisicamente dalla spina affondata nella carne della sua schiena, è anche l’origine dei suoi stessi poteri.
Kirikù, con la sua curiosità infantile e il suo coraggio sovraumano, è l’unico del villaggio che, pur non essendo immune al fascino e alla paura che la strega suscita, ricerca le cause del suo potere e della sua crudeltà, perché solo attraverso la conoscenza stessa è possibile la vittoria.
Un’interpretazione
Pur non appartenendo alla tradizione occidentale e cristiana, la storia e la caratterizzazione di Kirikù evocano una figura cristologica, a partire per esempio dal suo sacrificio volontario per il villaggio e dalla completa accettazione dello stesso da parte della madre.
È un paragone azzardato, ma comunque efficace e utile a coniugare due mondi e due culture molto diverse, quella dell’Africa rappresentata e quella dell’Europa spettatrice.
A questo proposito contribuisce anche uno stile d’animazione molto particolare, e poi diventato elemento di riconoscimento di Ocelot stesso. L’ambientazione, infatti, è molto curata e ricca di dettagli, ma è volutamente bidimensionale, priva di prospettiva occidentale e “rinascimentale”.
Contrapposto a questo appiattimento, però, c’è il volume naturalistico dei personaggi animati, che sembrano così muoversi fra le quinte di un teatrino.
Il risultato è un tipo di animazione all’inizio destabilizzante, rispetto a quella tradizionale, ma esteticamente memorabile e inconfondibile, ritrovata poi nelle opere successive del regista.
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