La casa di carta volume 5
Credits: Netflix

Quando un autore comincia a raccontarci una storia, ci sta implicitamente chiedendo un atto di fede. È il tacito patto che intercorre tra narratore e spettatore fin dalla notte dei tempi. Tu, narratore, prometti di raccontarmi una storia talmente avvincente da farmi dimenticare per qualche ora della mia stessa esistenza. Io, spettatore, prometto di credere a tutto ciò che mi dirai per il tempo che passeremo insieme.

Tante cose si potrebbero dire sulle pecche della serie La casa di carta, ma una cosa è certa: in tutti questi anni il silenzioso patto tra le due parti è stato egregiamente rispettato. Non avrebbe avuto altrimenti il suo grande successo. Per ben quattro anni gli autori di questa serie ci hanno trascinati in una serie di vicende talmente avvincenti che possiamo perdonare ogni mancanza, dimostrandoci così che un prodotto audiovisivo non deve necessariamente essere perfetto per funzionare.

E allora pazienza se l’identità del Professore si sarebbe potuta svelare fin dalla prima stagione con un banale ctrl+Z. Pazienza se anche uno stormtrooper avrebbe avuto una mira migliore in parecchie sparatorie. Pazienza se spesso e volentieri il realismo va a farsi benedire. La casa di carta non è una serie realistica, ma va bene così perché non è questo il suo scopo

Figli del post-modernismo

Da bravi discendenti del post-modernismo, siamo nati e cresciuti in un mondo in cui la morte degli ideali e la fine delle grandi narrazioni è stata da sempre data per scontata. Successivamente ai tragici eventi di inizio millennio, poi, le nostre esistenze si sono fatte più cupe, e anche i prodotti culturali che abbiamo iniziato a consumare si sono fatti via via più oscuri. Abbiamo dato inizio all’età d’oro degli antieroi, abbiamo definitivamente ucciso ogni idea di manicheismo, abbiamo camminato incappucciati tra le strade di universi via via più distopici. 

In un simile contesto è facile capire perché una serie come La casa di carta si sia fin da subito distinta dal resto delle produzioni audiovisive. 

Una serie dalla forte connotazione politica

I protagonisti di questa storia sono degli esclusi, ma sono degli esclusi che hanno scelto di lottare e di credere in qualcosa. E noi, per una volta, abbiamo scelto di crederci insieme a loro. 

E allora ecco che il canto della Resistenza ha cominciato a bucare letteralmente lo schermo per diffondersi nelle strade. Tute rosse e maschere di Dalì hanno invaso manifestazioni per i diritti civili in ogni angolo del mondo. Il canto di Bella ciao è tornato risuonare come un inno di lotta e speranza per centinaia, migliaia di esclusi di ogni Paese. Quello che era cominciato come un fenomeno mediatico si è trasformato nel giro di poco tempo in un vero e proprio fenomeno sociale. In un mondo in cui è sempre più difficile sentire di appartenere a qualcosa, la Resistenza di questo gruppo di ladri è diventata un vero e proprio manifesto capace di raccogliere svariati movimenti sotto i suoi simboli.

La speranza come atto di fede

Certo, come in ogni storia che si rispetti, anche nella Casa di carta non mancano momenti di sconforto. Perdite tragiche, calunnie e personaggi ambigui che costellano la serie dall’inizio alla fine. Ma come in una moderna fiaba, la dicotomia tra bene e male è molto più netta rispetto a quanto siamo ormai abituati, complice anche il fatto che i protagonisti dalle tute rosse aspirano (e riescono) ad incarnare il ruolo di eroi agli occhi della gente, e per questo motivo sono invitati a seguire un codice di condotta ben preciso. In aggiunta a questo c’è sempre la speranza che tutto si risolverà. In questo senso, i concetti di fede e speranza sono – insieme quello di Resistenza – i pilastri fondamentali su cui si regge l’intero impianto narrativo. Questo risulta ancora più evidente dopo la fine dell’ultima stagione, una stagione che ribadisce, conferma e rende indelebili tutti gli ideali di cui ci ha reso partecipi.

Nel corso del penultimo episodio, infatti, assistiamo ad uno dei momenti più commoventi della serie, un momento in cui viene racchiuso l’intero senso di questi ultimi anni. 

La casa di carta
Locandina di “La casa di carta. Parte 5, volume 2” – Credits: Netflix

Spoiler alert

Nel corso di un flashback, vediamo Tokyo parlare a cuore aperto al Professore dopo un’intera nottata trascorsa a ballare. E in quelle poche parole che lei pronuncia c’è tutto ciò che lega la banda ad un unico ideale, ma c’è anche tutto ciò che La casa di carta ha rappresentato per gli spettatori:

Sei la nostra fede. La nostra fede per cui se tutto il resto cade, ci rimani tu. Per quanto male si mettano le cose, anche se ci dovessero sopraffare e se sembra non esserci speranza e che siamo quasi morti, continuiamo a credere. Perché sappiamo che ci resta sempre il Professore.

Dopo gli eventi degli ultimi episodi, probabilmente nessuno si aspettava un lieto fine. Io sicuramente non me lo aspettavo. E per un attimo ammetto di essere rimasta perplessa di fronte a quell’ennesimo numero di illusionismo. Poi ho gioito con la stessa sorpresa di un bambino la mattina di Natale. E allora ho capito. Non poteva essere altrimenti. Un finale tragico avrebbe indubbiamente tradito la promessa che ci era stata fatta. La fede sarebbe crollata. La speranza sarebbe diventata nuovamente un’illusione. E allora tutti questi anni passati a credere in qualcosa di grande avrebbero perso il loro senso. Perché in fondo il messaggio ultimo de La casa di carta è proprio questo: credete. Credete in un ideale, in un sogno, in qualsiasi cosa, ma credete. E lottate per ciò in cui credete, sempre.

E no, questo non è un invito a mollare il lavoro e cominciare a campare facendo rapine, ma è un invito a coltivare la propria resilienza e a credere nell’impossibile con la stessa forza che avevamo da bambini. Perché anche se questa storia rocambolesca è ormai giunta al termine, il suo messaggio resta indelebile, come in quel murales che appare pochi minuti prima dei titoli di coda: el sueño no ha acabado.

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Cassandra Enriquez
Classe 1993, diplomata in Sceneggiatura presso la Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano. Il mio imprinting col cinema è avvenuto all’età di dieci anni, facendo zapping alla TV e capitando casualmente sulla versione estesa de La Compagnia dell’Anello. Tutto ciò che è capitato dopo è in qualche modo legato a quella sera di zapping: il desiderio di lavorare col cinema, la voglia di imparare le lingue (dopo tutto Tolkien era un linguista), la smania di viaggiare, la passione per le belle storie… Sono affascinata da tutto ciò che riguarda l’arte dello storytelling e il mio sogno più grande è quello di vivere la mia vita dividendomi tra una bozza di Final Draft e una manciata di biglietti aerei di sola andata.

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