La-citta-dei-vivi-Nicola-Lagioia
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Leggendo La città dei vivi, il libro con il quale Nicola Lagioia ripercorre, scandaglia, analizza e racconta uno degli omicidi più efferati degli ultimi anni, quello del ventitreenne Luca Varani, a riemergere nella mia memoria sono state le parole con cui Italo Calvino conclude Le città invisibili.


«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

I. Calvino

La città dei vivi: dalla cronaca alla letteratura

Il 4 marzo 2016, in via Igino Giordani, nella Roma periferica, Manuel Foffo e Marco Prato uccidevano, dopo averlo sottoposto a estenuanti torture, Luca Varani. Il caso di cronaca nera suscitò enorme scalpore nell’opinione pubblica, non solo per la sua violenza, ma anche, e soprattutto, perché a compiere quel gesto estremo furono due ragazzi di buona famiglia senza nessun precedente penale e senza alcuna traccia di malvagità nelle loro vite passate. Fiumi di inchiostro raccontarono il caso dalle pagine dei quotidiani, le TV mandarono in onda numerose interviste fatte a chi conosceva le tre persone coinvolte dall’accaduto e una valanga di stupore, rabbia, tristezza, e soprattutto di odio si riversò, incontenibile, sui social network.

Lo scrittore barese, vincitore del Premio Strega nel 2015 con La Ferocia, ha da poco pubblicato per Einaudi, a più di quattro anni di distanza da quel giorno dell’orrore, La città dei vivi, il libro che racconta la terribile vicenda attraverso l’utilizzo del miglior antidoto alla disumanizzazione: la letteratura. Nelle sue pagine si stratificano interrogatori, telefonate, articoli di giornale, Whatsapp, lettere d’addio, perizie psichiche, post Facebook e poi, ancora, interviste e colloqui che Lagioia ha intrattenuto con alcune delle persone vicine a Foffo e Prato e che hanno portato a galla una serie di incomprensioni, vuoti affettivi, pregiudizi, crisi identitarie e sessualità sofferte che li avevano riguardati.

Da un lato c’era Marco Prato, istrionico, vivace, suadente, manipolatore, ammiratore sfegatato di Dalida, a detta di alcuni molto sensibile, con un tentativo di suicidio alle spalle, il fardello di
un’omosessualità mal digerita dalla madre e un grande desiderio di diventare donna. Dall’altro,
Manuel Foffo, composto, ordinario, concentrato su se stesso, un ragazzo ordinario, fallimentare nei suoi intenti professionali, oppresso dalle scelte del padre ed estromesso dagli affari di famiglia.

Vittime e carnefici

Nel libro, entrambi gli assassini sono innanzitutto uomini che si scoprono all’improvviso carnefici e vestono, allo stesso tempo, i panni di vittime sopraffatte dall’effetto dell’alcol, della droga e dell’alchimia tossica generata dal loro rapporto. Definendoli mostri o vittime di possessione, l’opinione pubblica aveva fatto l’errore di creare una distanza siderale tra la colpa e la dimensione umana.

«Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. – Scrive Lagioia – Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?».

La propensione umana al manicheismo è magistralmente trattata da Primo Levi ne I Sommersi e i salvati. «Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco […] è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo tra “noi” e “loro”, che questo schema amico-nemico prevale su tutti gli altri. […] Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è».

Una pluralità di voci sullo sfondo di Roma

Ne La città dei vivi a Foffo e a Prato non è riservata alcuna espiazione: raccontare il loro più atroce gesto dà la possibilità ai lettori di spalancare la finestra su un paesaggio che altrimenti sarebbe rimasto visibile solo attraverso una cartolina. Nella pluralità delle voci raccolte in questo libro si rintraccia la volontà dell’autore di non lasciare nulla al caso, di illuminare, passo dopo passo, tutti gli angoli di una stanza buia: amici, conoscenti, famigliari, avvocati, pubblici ministeri, giornalisti hanno partecipato, dunque, al coro di voci che ha restituito frammenti di verità al mondo.

A intrecciarsi al racconto dei fatti e al lavoro di ricerca portato avanti e descritto da Lagioia, c’è una presenza costante, quella della città eterna, la Roma dai mille volti. La capitale problematica,
caotica e corrotta che si lascia attraversare, vivere,
che affascina con la sua bellezza millenaria e disgusta con i topi a piede libero e le montagne di spazzatura. Roma possente, infinita, aperta a tutte le strade percorribili, Roma subdola e feroce, Roma governata dalle dinamiche di potere, abitata dal Mondo di Mezzo in cui si incontrano «delle persone del sovramondo perché magari hanno interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia dei favori che non può fare nessun altro».

Con una scrittura asciutta ed essenziale che differisce molto da quella de La ferocia, l’autore
mette la lingua a servizio della materia trattata mescolando il noir, al crime, all’horror e
all’autofiction.
Nicola Lagioia, rifuggendo da allusività, mistificazione, voyeurismo e sete di scandalo, ha conferito all’omicidio di Luca Varani una profonda tridimensionalità accostando il tragico evento alla sfera degli esseri umani. La città dei vivi ci invita a restare umani, ci esorta all’empatia, ci ricorda che «nessun uomo è un’isola».

«Bisognerebbe amare la vittima senza sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di un’educazione. Il primo è assai più misterioso».

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Elisabetta Severino
Instancabile viaggiatrice e inguaribile iperattiva, mi concedo raramente del puro relax e, nella frenesia delle mie giornate da ufficio stampa di due teatri e da giornalista freelance, l’otium di cui sento più spesso la mancanza è quello letterario. Sono cresciuta in una casa piena di libri per poi trasferirmi da Lecce a Bologna per studiare Lettere Moderne all’Alma Mater Studiorum. Rimbaud, i macaron e la lingua francese sono tre delle infinite ragioni che mi hanno spinta diverse volte a trasferirmi oltralpe. Lealtà, giustizia e umiltà sono i valori in cui credo e quando esco di casa la mattina spero di poterci tornare avendo imparato qualcosa di nuovo. Scrivere di cultura e vagabondaggi mi appassiona da sempre.

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