La ragazza della porta accanto
La ragazza della porta accanto - Credits Koch Media

Difficile consigliare la lettura o la visione de La ragazza della porta accanto (Gregory Wilson, 2007). È una di quelle narrazioni che mettono alla prova anche i più appassionati della letteratura o del cinema degli eccessi. Quelle che arrivano – quasi come se vi avessi preso parte – a farti sentire sporco solo per averne fruito, per averne amato l’artisticità, la resa. E le sensazioni urticanti alla mercé delle quali vieni abbandonato sono proprio l’effetto più viscerale dell’efficacia stilistica e formale, della buona riuscita psico-emotiva degli intenti.

Ma la consapevolezza di aver fruito di un prodotto valido non basta a renderci quieti: permane una divaricazione tra l’apprezzamento dell’opera e l’interrogativo sul perché si abbia preso la decisione di approcciarvisi.

Sul perché si abbia deciso di testimoniare tali atrocità. Io, personalmente, mi pongo spesso tale domanda, da amante di questo tipo di storie, ma raramente con un’intensità così opprimente. Perché mi ci sono andata a impelagare? E l’unica cosa che consola è che l’orrore più bieco sia stato narrato con rispetto e con un serio obiettivo psicologico: il tirare in mezzo proprio noi, lettori o spettatori, diventa l’esperimento in vitro de La ragazza della porta accanto. Il nostro posizionamento viene deciso a priori dall’autore (e poi meno raffinatamente riproposto dal regista): come reagiamo? come tentiamo di smarcarci? Come ne usciamo, moralmente salvati o grondanti di un’irreparabile onta?

Da Sylvia Likens a Meg Loughlin – Il libro

L’origine letteraria de La ragazza della porta accanto è la raccapricciante vicenda della prigionia e morte di Sylvia Likens, che Jack Ketchum – nel suo romanzo del 1989 – ricalca con una fedeltà di spirito che spesso imita la cronaca.

Disegnando sullo scheletro reale dei fatti, Ketchum cambia nomi e luoghi, andando a “usare” l’orrore per costruire un meccanismo romanzesco che ingurgita e sfida il lettore. Delineandosi come una sorta di ricostruzione mentale del protagonista in età adulta, La ragazza della porta accanto si configura come diario e confessionale. Come riflessione “fredda” – che veramente fredda non può costitutivamente mai divenire – su avvenimenti di trent’anni prima. Non venirne risucchiati è impossibile, perché la nostra implicazione è sistematicamente prevista da una struttura che a noi si rivolge in seconda persona.

A partire dal terribile incipit, che mette subito in chiaro come e quanto il lettore non potrà mai sentirsi “in salvo”: Pensate di sapere cosa sia il dolore?

Siamo nel 1958, in New Jersey (invece che nel 1965, in Indiana). Ci troviamo nel classico rassicurante quartiere americano da film, con le casette tutte uguali e i vicini che si conoscono tutti tra di loro. Il dodicenne David Moran, figlio di genitori in rotta di collisione, passa le giornate in compagnia dei ragazzi della sua strada, in particolare i Chandler: Willie, Donny (il suo più caro amico) e il piccolo Woofer. Ma un giorno che, in solitaria, sta catturando dei gamberi d’acqua dolce alla Grande Roccia, incontra Meg Loughlin. Scopre presto che è cugina di secondo grado dei Chandler, e che lei e la sorellina Susan hanno perso i genitori in un incidente stradale, e per questo si trovano lì dai cugini.

Le dinamiche che quell’estate si verranno a creare tra David, Meg, Susan, i ragazzi e, soprattutto, Ruth Chandler, la madre, porteranno ad un’escalation di umiliazione e sopraffazione dai terribili esiti, già scritti nella malattia mentale e nella legittimazione delle azioni più proibite.

L’orrore della porta accanto

Narrato in prima persona, da un presente lontanissimo dai fatti, La ragazza della porta accanto si presenta, grazie ai numerosissimi, brevi capitoli, come uno sprofondamento nel senso di colpa attraverso episodi emblematici. Le situazioni, i discorsi, i pensieri che di pagina in pagina leggiamo, sono la proposizione, prima più in “piccolo”, poi sempre più in “grande”, dell’esplosione finale di violenza e crudeltà. Tutto diventa, con il senno di poi, un hint traslato, celato di ciò che accadrà in seguito.

Le ricorrenti metafore zoologiche ci anticipano le fasi della prigionia di Meg: il sequestro (i gamberi catturati – che lui poi libera, ecco l’ambiguità del suo personaggio, su cui torneremo – da David), il metterla contro i ragazzi, da parte di Ruth (le formiche che vengono fatte combattere le une contro le altre da Woofer) e la tortura (le larve che vengono bruciate). E la violenza sugli animali comincia ad assumere le forme di uno sfogo “lecito”, anticamera di uno sfogo che per assurdo diventerà altrettanto lecito ai danni di un essere umano.

La progressione graduale delle angherie assuefà alla predicazione quotidiana della violenza. I micro-abusi (all’inizio nell’atteggiamento e nel linguaggio) rendono sempre più “normali” atti sempre più atroci, disabituano all’empatia e incentivano il facile sopruso.

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David (Daniel Manche) e Ruth Chandler (Blanche Baker) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

L’intero “gioco” (e il termine non è casuale) ruota attorno alla figura di Ruth Chandler, la madre divorziata degli amici di David. Ruth è una dei ragazzi, se non una complice una tacita dispensatrice di via libera: è quello che le altre madri degli anni ’50 non sono, un attimo di respiro dalle asfissianti rigidità.

Sempre intenta a bere e fumare, è, palesemente, la casalinga americana gone wrong, le cui distorsioni trovano linfa contrappuntistica nella – pur poco presente – figura della madre di David. Ruth è divorziata, e non esita a lamentarsene di continuo, di quel Willie Sr. che il David adulto – fin dalle prime pagine – ci rivela essere tutt’altra persona rispetto a quella orribile da lei narrata.

Si presenta, in ultima analisi, come una tremenda parodia psicotica della casalinga e del suo “problema senza nome” di cui parlava Betty Friedan ne La mistica della femminilità: lei un nome, a questo problema, glielo dà eccome, quello del marito, per poi traslarlo su Meg. Entrambi capri espiatori di un qualcosa che riguarda principalmente lei in quanto donna e la società americana dell’epoca.

Il “gioco” che mettono in piedi rappresenta per Ruth lo strappo definitivo nel tessuto di obbediente oppressione, incentivato da uno squilibrio mentale sempre lì ma di cui nessuno si è preso cura. Ad inquietare (noi e David) è l’atteggiamento lassista, sempre più disinteressato, che lei sembra avere riguardo le atrocità suggerite dai ragazzi, a partire dalle cose più sciocche (il suo continuo offrire loro la birra), ma che disequilibrano le nozioni acquisite di ciò che è lecito e di ciò che non lo è.

Per assurdo, Ruth comincia a rappresentare, fino al punto di non ritorno della violenza, una barriera tra i ragazzi e Meg: ha infatti deciso che nessuno di loro è autorizzato a toccarla. Ma a scanso di equivoci, apparirà presto chiaro che questa volontà non è dettata da un qualche rimasuglio di emotività, bensì dalla convinzione che Meg sia sporca, immonda, dentro e fuori. Sono queste crudeli affermazioni che rendono chiaro quanto Meg sia diventata riflesso di tutte le oppressioni che Ruth ha provato sulla sua pelle. Di tutti i pensieri inculcategli dall’ipocrisia buonista di un sistema che vedeva le donne come sante o puttane, come mogli o come poco di buono.

Gli insulti, le umiliazioni, le atrocità che vengono compiute sul suo corpo di giovane donna ricalcano l’odio che Ruth prova per sua madre, per se stessa, per il genere femminile tutto, le cui supposte “colpe” Meg viene chiamata a confessare. Che si ribalta nella nostra lettura consapevole in un odio più che giustificato per cosa le donne sono agli occhi di uno sguardo patriarcale. E l’atteggiamento inizialmente bonario e successivamente paternalistico con cui Ruth dispensa le sue punizioni rendono ancora più evidente la dimensione introiettata di colpa e peccato.

Meg, la sua giovinezza, il suo corpo, vengono da Ruth puniti (in una rivalsa di una vita in fin dei conti odiata), dopo essere stati caricati del male del mondo, della colpa.

Basti pensare a come la bellezza di Meg venga rilevata come causa della violenza dei ragazzi su di lei: è la colpevolizzazione della femminilità, che viene investita di significati che non le appartengono, è quello che tale bellezza significa per loro.

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Willie Chandler (Graham Patrick Martin) e Meg Loughlin (Blythe Auffarth) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

Crudeli burattini

L’origine della legittimità del gioco sta proprio nella figura di Ruth. I ragazzi sono soliti passare le estati mettendo in atto un “Gioco” che assume i nebulosi connotati di una scoperta sessuale tinta di crudeltà infantile. Di un malato coming of age distorto, deviante, marchiato dal sopruso sull’altra. Una perversione sanzionata.

Ciò che avviene con Meg è il Gioco in grande, il Gioco entro i confini della legittimità assicurata dagli adulti (dall’adulta, da Ruth). Anzi, dal loro adulto preferito, da colei che si è guadagnata la loro ammirazione attraverso la permissività e la complicità. Nel libro, questa sorta di lealtà che i ragazzi provano nei confronti di Ruth risulta accentuata nella figura di David. Per gli altri, in fin dei conti, si tratta della madre; per David, discostandosi dalle sue figure genitoriali, è l’incarnazione della libertà dell’età adulta, di cui invidia il potere. Potere che, per emanazione, arriva ad “annusare”, godendone le prerogative: è questo potere che contribuisce a rendere Meg altro da lui.

Questo è il motivo per cui – per una dolorosissima ed estesa porzione di romanzo – è così difficile stare nella mente di David. C’è una quasi inconsapevole crudeltà che emana dalle sue azioni e dai suoi pensieri, una malvagità che mette a disagio per la sua naturalezza. E il fatto che lui iper-analizzi ciò che gli accade, con grande obiettività e profondità, non fa altro che rendere ancora più insopportabile il suo non ribellarsi. Questo rende scomoda la nostra identificazione obbligata con lui, da cui vogliamo a tutti i costi distanziarci, provocando un impasto di sensazioni contrastanti che sono la forza del romanzo. Tanta parte, nella sua lunga compiacenza con la situazione, ha questo senso di lealtà nei confronti della donna, che in qualche modo sembra impedirgli di empatizzare con Meg: è come se dovesse schierarsi o da una parte o dall’altra.

David è attratto da Meg (come se fosse questo il punto, non la decenza umana), ma continua a prevalere la fedeltà, non riesce a “salvarla” (i Chandler sono amici di più lunga data, pensa). Accoglie quindi con sollievo le “forze esterne” che ai suoi occhi gli impediscono di intervenire; con la coscienza a posto se ne lava le mani, a lungo. E a rinforzare a tratti questa ignavia, c’è un illogico passaggio di colpa, di odio, di disgusto, dai responsabili dell’orrore a Meg, l’oggetto delle angherie.

La percezione che David ha di Meg oscilla continuamente, tra l’ammirazione e il disprezzo. La vede alternativamente/contemporaneamente come estremamente potente, adulta, piena di dignità e inerme, debole, impotente. Arma indiscutibile della debolezza della ragazza è il suo venire ammutolita, silenziata dal panno che ripetutamente viene infilato nella sua bocca.

Era il fatto che parlasse, era ancora una volta Meg. Non una bellissima vittima nuda e indifesa, ma Meg, una persona con un cervello, una voce per esprimere la sua opinione e per rivendicare i suoi diritti.

La ragazza della porta accanto, Jack Ketchum (1989)

La conversione al “bene” di David ha inizio con l’aggiunta di un personalissimo ulteriore gioco, dal tono ricattatorio, che lui decide di iniziare con Meg, facendole dei piccoli favori. Mira a vincere la sua gratitudine (così magari, almeno da lui, si lascia toccare), ma Meg mostra di capire subito i suoi intenti. Si arriva quindi a una sorta di stratificazione di Giochi, che imitano o si inseriscono all’interno di altri. Il Gioco estivo dei ragazzi viene imitato in una modalità “lecita” dal Gioco di Ruth con Meg; ma all’interno di esso, il Gioco di David va a rompere gli equilibri, prima tacitamente e in modo perverso, poi in modo positivo e salvifico.

I nostri “burattini” acquisiscono il permesso di torturare Meg, di “giocare” con lei. I sensi, il dominio dell’istintuale, del viscerale, prevalgono sul pensiero, sulla ragione, provocando uno stato inebriante. E, SPOILER, il capitolo 28, quello in cui inizia la violenza più gretta, è lunghissimo rispetto agli altri, rendendo impossibile staccare, mai. E con il susseguirsi delle violenze, le sensazioni di cui parlavo all’inizio si intensificano: l’orrore più profondo viene incorniciato e innalzato dall’intento letterario.

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Meg (Blythe Auffarth) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

Un discesa senza fermate intermedie, un viaggio da incubo strutturato in brevi capitoli (con significative eccezioni) che sembrano disegnati con l’intento di farci, almeno, qualche volta, respirare. Il racconto dell’orrore è calibrato sulla volontà di David adulto di narrare ciò che i suoi occhi hanno visto. E questa propensione subisce significative trasformazioni con il progredire della presa di coscienza del ragazzo della disumana situazione di cui costituiva silente testimone. Il David adulto, il narratore, riflette nel ricordo ciò che se stesso ragazzo era sempre meno disposto ad accettare.

Celebre in tal senso è il telegrafico capitolo 42:

Non vi racconterò ciò che successe dopo.

Mi rifiuto.

Preferireste morire piuttosto che raccontare certe cose.

Preferireste morire piuttosto che assistervi.

E io vi ho assistito, e ho visto.

La ragazza della porta accanto, Jack Ketchum (1989)

Rimanendo indissolubilmente ancorati a David, il nostro voyeurismo (per mezzo del suo) subisce in continuazione dilemmi etici, che non trovano spazio di sviluppo effettivo fino al più che tardivo risveglio della coscienza del ragazzo. Che costituirà una macchia, una colpa, di cui David non riuscirà mai veramente a liberarsi. E che come un pulsare regolare, talvolta aumenta facendo sentire con più prepotenza la sua presenza, forse ridestato da tracce dei propri torti nel presente, in cui si tenta il tutto per tutto per porvi (vanamente) rimedio.

Il tono a tratti fatalista con cui il David adulto narra i fatti del passato si ancora alla certezza di ciò che il futuro gli ha dimostrato, nel terribile sviluppo di una famiglia disfunzionale, per usare un eufemismo.

Il suo aver reagito – in un modo anche moralmente discutibile, per certi versi – ai tremendi fatti in cui si è trovato immischiato, non riesce e non riuscirà a lavargli di dosso il marciume più pervasivo che lo sfortunato incontro di Meg e Susan Loughlin con i Chandler ha rappresentato nella tempestosa fase della sua pre-adolescenza.

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Meg (Blythe Auffarth) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

Il film

Questo tentativo di spurgarsi della colpa, questa ricerca di un’insperata redenzione agli occhi di se stesso, viene resa esplicita nel film omonimo di Gregory Wilson del 2007.

Il film ha infatti inizio con una scena assente nel romanzo, che si svolge come teatro visivo alla voce narrante di David che, sì, ricalca l’incipit letterario. Il David adulto cerca di prestare soccorso a un senzatetto che viene investito da un auto, ed è ciò che induce il processo dei ricordi, rafforzato dalla riesumazione di un disegno del passato.

In questi primi momenti, in cui ancora siamo nel presente, il passato comincia a fare capolino. Con una transizione dagli occhi di David adulto agli occhi di quella che scopriremo essere Meg (la cui essenza è cristallizzata in un’eterna adolescenza incipiente).

Avrei voluto finirci io sotto quella macchina, al posto di quell’uomo. Dico sul serio. Comunque, per un momento, lenire il suo dolore mi ha aiutato a sopportare il mio.

La ragazza della porta accanto, Gregory Wilson (2007)

Uno dei punti di forza del film è l’assenza totale di volti noti. La presenza di attori famosi avrebbe senz’altro distolto e lasciato una via di fuga allo spettatore, che così si sarebbe potuto in qualche modo proteggere dall’atrocità della visione. I personaggi qui ci sembrano ancora di più persone, e si assottiglia, nella nostra percezione, quella enorme linea di demarcazione tra realtà e finzione.

Sviluppandosi come adattamento abbastanza fedele, La ragazza della porta accanto si allontana dal romanzo in alcune, ma significative, differenze, come l’aggiunta iniziale.

La prima violenza fisica che viene mostrata nel film ha come vittima Susan, oggetto ricattatorio per eccellenza a cui Ruth di continuo si appiglia per tenere legata Meg. Le frustate che la ragazzina si prende – per una presunta (assurda) colpa della sorella – vengono mostrate in inquadrature oggettive, senza che la nostra visione venga assoggettata a carnefice o vittima.

Terribile l’inquadratura sulla parte inferiore delle gambe di Susan (spesso nel film ricorrerà questo tipo di scelta registica): imbrigliate dai sostegni che la ragazzina è costretta ad indossare dopo l’incidente che ha coinvolto i Loughlin: ad ogni colpo ondeggiano, andando ad intervallarsi ai suoi primi piani e ai mezzi primi piani di Ruth che colpisce. Qui Meg sopraggiunge sulla scena, e bloccata dai ragazzi Chandler, è costretta a vedere le torture. Nel romanzo ciò non accade, ad aumentare la distanza che Ruth crea tra le sorelle.

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Susan Loughlin (Madeline Taylor) e David (Daniel Manche) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

Il “problema” principale è che nel film David non è mai un personaggio ambiguo. Certo, rimane testimone di atti indicibili senza fare nulla di concreto fino alla fine, ma la sua “buona fede” è palese e inequivocabile. Si ha la percezione che gli manchi il coraggio di agire contro e tradire il gruppo, soprattutto Ruth, e che poi gli manchi il coraggio e basta, dato anche l’aver deciso di muoversi troppo tardivamente.

Ciò che manca è quell’indeterminatezza atroce, quella crudeltà di fondo, che la voce narrante del libro trasmetteva regredendo al passato, e che rendeva odioso e opprimente trovarsi nei suoi panni. Una risatina, uno sguardo di troppo, un assenso tacito: tanti piccoli e grandi gesti ci facevano bramare lo strapparci di dosso la pelle di David. Qui, in fin dei conti, siamo voyeur quanto David, che è come se fosse implicato nei fatti solo come nostra incarnazione, impossibilitato ad agire nel male (perché è intrinsecamente buono) ma anche nel bene (incatenato da una supposta lealtà mista a pavidità).

E quindi la potenza trascinante del romanzo nei confronti dello spettatore si perde in un salvataggio a priori del personaggio, che non mette mai davvero in dubbio l’identificazione di chi guarda.

La voce narrante riusciva anche a dare la misura della lenta e graduale ineluttabilità dello sprofondamento climatico nella violenza, che qui sembra invece più “improvviso”.

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Meg (Blythe Auffarth) in La ragazza della porta accanto – Credits Koch Media

Noi entriamo nel reame della prigionia e delle torture fisiche inflitte a Meg con David, come se un sipario si aprisse (Ruth si scansa e – letteralmente – sposta Willie, per farci vedere). Da quando la vediamo per la prima volta, appesa come Cristo sulla croce, le inquadrature prevalenti sono dall’alto e da dietro (o al lato) di lei. Sembra la ripresa di una telecamera a circuito chiuso, emanazione di una videosorveglianza il cui unico osservatore esterno siamo noi.

L’orrore delle torture viene “ridotto”, attenuato per la nostra percezione, frammentando il corpo: non vediamo quasi mai totali delle sevizie o figure intere di seviziati e seviziatori. E in generale le scene di violenza esplicita sono ridotte all’osso, brevi o fuori campo. In una sorta di traduzione cinematografica della reticenza di David a guardare del romanzo, come un allungato e concettuale capitolo 42.

I ragazzini nel film sembrano interscambiabili. Nel romanzo ognuno di loro era bene a fuoco, con caratteristiche nette e messe a frutto nella narrazione. Eddie, l’amico di David e dei Chandler, era di gran lunga il più pericoloso, il cavallo impazzito del gruppo. Woofer, il più piccolo, era quello in cui il sadismo emergeva con più forza. Donny, il più titubante, su cui la crescente “pazzia collettiva” faceva infine effetto con maggior stupore del lettore.

In questo quadro, un elemento dissonante emerge. SPOILER – Mentre nel libro lo stupro di Meg viene compiuto proprio da Donny, qui è Willie a violentarla. Qui Donny vuole imporsi, seguire nella violenza al fratello, cercando inutilmente di convincere la madre. Nel romanzo era molto significativo che Ruth decidesse di dare a Donny questo “privilegio”. Lei, come noi, sente che il suo figlio di mezzo è il più restio, il più “tenero” con Meg, quello più riluttante alla violenza. Il lasciarlo/obbligarlo a violentare Meg si configura lì come una “cura” a questa “morbidezza” del ragazzino. E il testardo e crudele Willie avrebbe volentieri seguito il fratello, bloccato però da Ruth (non per dolcezza di cuore, ma per avversione a questo incesto simbolico). Qui si perde l’orribile valenza “educativa” dello stupro, che si somma alla sua concezione di terribile atto di potere su di Meg. Depotenziando un aspetto narrativo della violenza.

Il finale, molto più “americano” di quello del romanzo (e che stona con il film nel suo complesso, che ha mantenuto dei toni sommessi, smorzati nella spettacolarità), è eccessivamente scenico. E diverge per alcuni importanti particolari. Non ultimo la conclusione della parabola di Meg, che qui si riduce a un atto di riconoscimento nei confronti di David, il nostro protagonista. E non, come avveniva nel romanzo, ad un atto di riconoscimento nei confronti di se stessa e della sua amara “vittoria” sui suoi tormentatori.

Il film è disponibile sul canale Prime di Midnight Factory, ma vi consiglio in modo spassionato di recuperare la versione originale (lì non disponibile) per evitare un doppiaggio degno dei peggiori programmi di Real Time. Allo stesso modo, qualora voleste leggere il romanzo, buttatevi sull’edizione in inglese: il linguaggio è semplice, ma in grado di insinuarsi nella vostra mente come un ticchettio basso, regolare e continuo che dopo un po’ potrebbe farvi impazzire.

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