Rod Steiger ne Le mani sulla città. Credits: web
Le mani sulla città. Francesco Rosi.

Le connivenze tra un’imprenditoria rapace e una classe politica compiacente (con l’una e l’altra a confondersi i ruoli), la legge e le risorse pubbliche piegate a favorire interessi privati, il profitto (di pochi) ad ogni costo che genera morte. Siamo nei primi anni ’60 ma è ancora, per molti versi, l’Italia di oggi quella dipinta da Francesco Rosi (nato cent’anni or sono) in uno dei suoi lungometraggi più importanti, Le mani sulla città, Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1963.

La cronaca e la tragedia

E il film (oggi disponibile su RaiPlay) rappresenta ancora oggi la sintesi dello stile del regista, in quella che Suso Cecchi D’Amico definì la sua capacità «di fondere senza sbavature la cronaca con la tragedia». Il lavoro di documentazione è rigoroso, svolto dallo stesso Rosi con i co-sceneggiatori Enzo Provenzale, Raffaele La Capria ed Enzo Focella. La lezione del neorealismo è presente nella tensione etica che innerva il racconto come nella scelta di attori non professionisti, dai tanti volti del (vero) popolo napoletano al sindacalista Carlo Fermariello per il ruolo del comunista De Vita, oppositore del personaggio principale.

Ma è proprio la scelta, per interpretare quest’ultimo, di un grande attore hollywoodiano come Rod Steiger (reduce non a caso da Al Capone) a rappresentare emblematicamente l’altra anima del lungometraggio e del cinema di Rosi. Il divo costruisce un vero e proprio villain di quel (e del nostro) tempo, un Riccardo III senza sconfitta e castigo finale: il cinico e avido costruttore Edoardo Nottola, i cui palazzi crollano sulla povera gente che li abita provocando morti e menomazioni. Ma questo non ferma il capitalista del cemento, divenuto anche politico per meglio tutelare i suoi affari (succedeva già allora).

«Il denaro non è un’automobile, che la tieni ferma in un garage, è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni», dice non a caso Nottola/Steiger. Trovando una sponda non solo nella destra monarchica ma anche nel centro democristiano, il cui appoggio gli consentirà la rivincita. Perché, afferma il leader centrista De Angelis (Salvo Randone) «in politica, l’unico grave peccato è essere sconfitti». Perfetto emblema di una classe dirigente che ha nell’occupazione e gestione del potere la sua prima e di fatto unica ragion d’essere (la vera DC al governo tenterà di bloccare il film, non a caso).

Quella di Rosi, allora, è la fotografia di un Paese che cambiava ponendo le basi di com’è ancora, delle gravissime contraddizioni e ingiustizie che tuttora lo affliggono e della necessità, comunque, di lottare contro di esse. Ma è anche un thriller socio-politico serrato, dove i mezzi della macchina cinematografica, dalle musiche (celebri e riutilizzate dalla tv quelle di Piero Piccioni) all’impiego di interpreti carismatici, sono usati fino in fondo per produrre grande spettacolo. Ricordandoci che quest’ultimo non esclude, ma anzi può potenziare, un’idea di cultura irriducibilmente militante.

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Foto profilo Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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