Le otto montagne

Il silenzio, le rocce sotto i piedi, l’aria che si fa più pesante e brucia nei polmoni e la luce, ah!, che luce! C’è una poesia sensoriale che è difficile descrivere a parole parlando del film Le otto montagne, qualcosa che i registi Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen sono riusciti a tirar fuori dalle pagine di Paolo Cognetti (Premio Strega nel 2017 per l’omonimo romanzo) e tradurre in un nuovo linguaggio che deve essere vissuto attraverso i sensi per poter essere compreso appieno.  

Immagini in grado di rapire lo sguardo e al tempo stesso portare la mente al proprio luogo del cuore, quello di cui è difficile dimenticare anche un solo dettaglio, un odore o una sensazione.

I protagonisti di questa storia sono tre, Pietro (Luca Marinelli), Bruno (Alessandro Borghi) e la montagna, che ha un’anima a sé, inscalfita dall’irrisorio passaggio degli uomini.

Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

Se lo chiede Pietro di ritorno dal Nepal, quando parlando con l’amico di sempre, Bruno, vede nella leggenda asiatica una somiglianza con le loro storie. Degli otto mari e delle otto montagne Pietro cerca di vederne il più possibile, di assaporare il mondo, incapace di fermarsi in un solo punto ma sempre pronto a tornare al suo centro. Bruno rimane in quel centro, immobile, un punto fermo a cui Pietro torna ogni estate e da cui lui stesso osserva scorrere la vita, allontanandosene.

Un rapporto complementare, quello tra Pietro e Bruno, che nasce nell’infanzia e resiste tanto ai colpi del tempo quanto allo sguardo diverso con cui ognuno dei due vede il mondo. Un amore raro e sincero che dalle pagine di Cognetti passa attraverso quello della coppia di registi, fino ad arrivare al rapporto fra i due interpreti. Nel modo in cui parlano, e soprattutto in cui si parlano, Borghi e Marinelli portano sullo schermo un’amicizia che oltrepassa i confini della finzione e che per questo nella sua essenza penetra ancora più a fondo nell’esperienza personale.

Chi ha avuto un amico così, un luogo così nella propria vita, sentirà di averlo ritrovato. Chi l’ha sempre sognato, lo incontrerà in questo film, che è poi il potere delle grandi storie.

Cristiano Sassella e Lupo Barbiero

Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura

È così che la montagna detta i tempi, le emozioni e le relazioni, sempre in aperta opposizione con il grigiume di Torino.

In montagna, per esempio, il padre di Pietro (Filippo Timi) ritorna a essere un uomo libero, lontano dalla gabbia della fabbrica. Solo in alta quota trova le coordinate per tornare a se stesso, quell’uomo che Pietro intravede per due settimane all’anno, per poi tornare a odiare la sua copia sbiadita per tutto il resto del tempo.

La montagna porta perciò anche il peso di una vita che Pietro da adulto ha lasciato indietro, rifiutando di tornare nei ranghi della borghesia cittadina e inseguendo il sogno della libertà che invece ha sempre intravisto in Bruno, spirito puro e non intaccato dalla vita moderna. È questa la calamita che li riporta sempre insieme.

Le otto montagne è quindi una storia di vita e di crescita. È storia di perdita, di dolore e anche di immensa gioia, un luogo dell’anima in cui ognuno può leggere ciò che l’ha portato a essere ciò che è oggi, ma al tempo stesso una storia irripetibile che ruota attorno al personaggio di Bruno, tutt’uno con la montagna stessa, e – attraverso la voce narrante di Pietro – lo omaggia per non perderne il ricordo. Un po’ bestia, un po’ uomo, un po’ albero, come afferma Borghi in un dialogo, qualcosa che non esiste più e di cui è necessario prendersi cura, come Pietro fa sin da bambino.

Siete voi di città che la chiamate natura

È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. La natura non esiste, esistono i boschi, i sentieri, i ruscelli, cose che si possono indicare, cose che si possono toccare, afferma Bruno. E la regia di Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen ricostruisce visivamente il senso di queste parole. Lo sguardo iper-realistico della macchina da presa porta a sentire sulla pelle il calore dei raggi di sole che sorgono dalle vette e il gelo di tonnellate di neve che si accumulano. Porta a scoprire la freschezza cristallina dei laghi e il bianco accecante dei ghiacciai. Sulle rocce appuntite è come se i nostri piedi ballassero insieme a quelli di Luca Marinelli mentre salta, felice, verso le cime, mentre diventa sempre più piccolo a confronto con l’immensità di ciò che lo circonda.

Se ai due attori si deve soprattutto la riuscita della componente emotiva del film, ai registi è doveroso riconoscere lo straordinario lavoro di costruzione del rapporto tra l’uomo e la montagna. Qualcosa che muta al mutare di ogni personaggio ma che si percepisce, forte e potente, in ogni scena.

Alessandro Borghi e Luca Marinelli in Le otto montagne

In breve 

Esistono molti modi per narrarlo ma, senza dubbio, al centro di Le otto montagne c’è l’amore. Scopritelo prossimamente al cinema.

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