Le voci perdute degli dèi, Tlon
Le voci perdute degli dèi, Tlon

Le voci perdute degli dèi. Sull’origine della coscienza di Julian Jaynes, edito da Tlon a cura di Marco Carassai, viene pubblicato lo scorso 14 luglio ed è un’antologia dei saggi più significativi dello psicologo statunitense.

L’autore

Julian Jaynes (1920-1997) è stato uno psicologo, studente presso le Università di Harvard, McGill e Yale. Dopo gli studi, trascorse diversi anni in Inghilterra come attore e drammaturgo, fino a quando tornò negli Stati Uniti come docente di psicologia presso l’Università di Princeton dal 1966 al 1990. I suoi primi lavori incentrati sullo studio del comportamento animale lo condussero presto allo studio della coscienza umana, al quale consacrò la sua opera rivoluzionaria del 1976 intitolata Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi).

Julian Jaynes

Il pensiero di Julian Jaynes

Le tesi di Julian Jaynes sull’origine della coscienza sono rivoluzionarie e solo in apparenza possono sembrare ostiche. Nel 1976 pubblica la sua opera più celebre, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, proponendo una classificazione nuova per spiegare la nascita della coscienza, coincidente alla fine di una struttura bicamerale della mente umana fino ad un determinato momento storico. Si può dire che la raccolta appena uscita sia il perfetto biglietto di accesso per un insieme di concetti e analisi abbastanza complesse. Con Le voci perdute degli déi Tlon riporta le idee e le intuizioni di una ricerca ambiziosa che è possibile approfondire nella sua interezza, in seguito, con il libro del 1976.

«Quella che ho cercato di presentarvi è una storia lunga e complicata. Questa storia ci lascia con una visione differente della natura umana e ci suggerisce che ciò che ci ha civilizzati è una mentalità che non abbiamo più, in cui sentivamo delle voci chiamate dèi. I resti di questa mentalità sono tutt’intorno a noi nelle nostre vite, nelle nostre religioni odierne e nei nostri bisogni religiosi, nelle allucinazioni udite in particolare nelle psicosi, nella nostra ricerca di certezza, nei nostri problemi di identità. E noi viviamo ancora pienamente nell’arduo processo di adattamento alla coscienza, alla nostra nuova mentalità».

JULIAN JAYNES

Se il percorso attraverso il lavoro di Jaynes vi appare ancora distante e complesso continuate a leggere perché le sue applicazioni vi sorprenderanno, vi anticipo che l’ultima persona dalla quale ho sentito citare l’autore è Anthony Hopkins, nella prima stagione di Westworld. Mentre la prima fonte che mi ha portato a conoscerne gli studi fu un manuale sull’attività letteraria nell’antica Grecia, nel capitolo intitolato Il mondo poetico di Omero.

Come possono gli studi sulla coscienza di Jaynes formare un ponte che va dall’interpretazione degli scritti omerici ad una serie TV sull’intelligenza artificiale?

Da Omero

Le tesi di Jaynes si fondano sul presupposto che la nascita della coscienza sia un fenomeno successivo alla fine (approssimativamente avvenuta attorno al 1000 a.C.) di un modello mentale da lui definito bicamerale. Nella mente bicamerale operazioni come prendere decisioni o ricordare fatti passati non erano “coscienti”, ma percepite come se provenissero dall’esterno, da voci divine; le voci perdute del titolo del libro di cui vi sto parlando. Assieme al crollo di questa modalità mentale nascono emozioni complesse e l’uomo inizia a spazializzare il suo pensiero in un quadro comprendente esperienze passate e possibilità future.

Andando ad approfondire i suoi studi proprio nell’ambito della letteratura classica prende ad esempio come riferimento le parti più antiche dell’Illiade. Qui non vi è traccia della presenza di una coscienza, tantomeno di introspezione. I personaggi non prendono decisioni autonome ma obbediscono a voci divine che gli dicono come agire, anche in sogno. Gli dèi “fanno il loro ingresso nella storia ogni volta che c’è una nuova decisione da prendere“.

Le idee di Jaynes portano un forte contributo alle scienze cognitive a agli studi legati al pensiero, e possono essere rifiutate oppure accettate. Spesso però funzionano come ispirazioni per narrazioni fantascientifiche concentrate sull’intelligenza artificiale e la coscienza mancante.

A Westworld

Ne è un esplicito esempio il discorso pronunciato dallo scienziato Robert Ford (Anthony Hopkins) verso il finale della prima stagione della serie Westworld (basata sul film omonimo del 1973, scritto e diretto da Michael Crichton), in un episodio intitolato proprio The Bicameral Mind.

Westworld – HBO

La serie approfondisce l’enigmatica e oscura nascita di una coscienza artificiale nella mente degli androidi presenti in un enorme parco a tema West. In particolare nelle prime 10 puntate mette in scena quel crollo della mente bicamerale applicato però ad individui creati in laboratorio. La voce che gli androidi sentono nella loro mente è quella del loro creatore, comparabile alla divinità che ne decide le sorti, finché Dolores, la più antica tra le attrazioni, sviluppa la capacità di “ascoltare la sua voce”.

Le voci perdute degli dèi

Le tesi affascinanti sulla nascita della coscienza di Jaynes sono una parte fondamentale degli studi relativi alla mente umana e al suo sviluppo. Forniscono una serie di risposte alle domande sulla mentalità delle civiltà classiche e si estendono alla possibilità di applicazione in fantascientifici scenari futuri. E Le voci perdute degli dèi è il modo migliore per iniziare a conoscerle.

Ringraziamo Tlon per la possibilità di averci fatto entrare in contatto con questo nuovo pezzetto della preziosa produzione di Julian Jaynes. Trovate il link per sapere di più a proposito del libro qui.

Continuate a seguire le Letture di FRAMED anche su Instagram Telegram.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui