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"Led Zeppelin 2203730017" by Heinrich Klaffs su licenza CC BY-NC-SA 2.0

Chiuso nel suo studiolo disordinato, sommerso dalle migliaia di dischi in vinile che ha perlopiù stroncato, Lester Bangs è sdraiato sul tappeto. Accanto ha una bottiglia di whiskey raffinato che di tanto in tanto fa scendere direttamente dal collo di vetro giù per la gola. Sul giradischi sta andando per la quarta volta il lato B di Led Zeppelin III, l’ultimo album della band inglese uscito poche ore prima.

Quando That’s the way finisce, Lester si alza a sollevare la puntina dal vinile, afferra il disco e lo lancia come un frisbee sul tappeto: sbatte contro la bottiglia, senza riuscire a farla cadere, e finisce esattamente sopra la sua custodia.

È abbastanza, pensa, e si mette a scrivere.

Chi è Lester Bangs

Sicuramente chi ha visto uno dei film più riusciti di Cameron Crowe, Almost Famous, ricorderà quello strano personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman. Lo ricorda perché è il personaggio al quale il regista affida una delle battute più spietate e discutibili che il cinema si sia permesso di dire nei confronti della musica:

I Doors? Jim Morrison? È un buffone alcolizzato che si atteggia a poeta. Prendi invece i Guess Who, loro hanno il coraggio di essere dei buffoni alcolizzati e questo li rende poetici.

Nessuno si permetterebbe mai di distruggere con tanta sufficienza un mito. Se non Lester Bangs. E, anche se è solo un dialogo cinematografico, non si stenta a credere che lo abbia detto veramente.

Quasi famosi (Almost Famous), Cameron Crowe

Perché Lester Bangs è uno che le cose che pensa le dice apertamente. Forse anche un po’ troppo, dato che per questo motivo ha cambiato parecchie testate giornalistiche. Opinioni mai banali e mai pensate come sterili provocazioni, ma rigidamente razionali, almeno secondo una logica “particolare”, la sua logica: purezza e autenticità nel nome di quello che deve essere a fondamento dell’arte, la spontaneità. Ed è per questo che quelle cose, oggi, a distanza di quasi 40 anni dalla sua morte, ancora le teniamo in considerazione. Perché, come Jim Morrison, Lester Bangs è un mito.

Ha iniziato la carriera di giornalista musicale già nei primi anni ’60, giovanissimo, quando si chiudeva nel suo studio per giorni interi, senza uscire, solo, con una copia di A Kind of Blue o di A Love Supreme in loop nel giradischi, qualche bottiglia di whiskey e una buona quantità di droghe. Ne usciva con qualcosa che valeva molto di più di una semplice recensione, molto più vicino a un pezzo di storia dell’arte. Un flusso di coscienza dettato dalla musica e vomitato in inchiostro, qualcosa che riunisce ciò che nacque unito, il jazz e la letteratura beat.

Lo stile di Lester Bangs

Da febbrili sfoghi interiori a esemplari di New Journalism citati in saggi, i suoi pezzi sono perle brillanti e folli che rinnegano tutto, davvero tutto ciò che si apre tra il rock originario e il punk. Autenticità, spontaneità, sincerità, abbiamo detto: quel rock acculturato, quel cantautorato educato, quel plastificato glam non dovrebbero esistere. E non ci sono Pink Floyd, James Taylor o Bowie che facciano eccezione. Solo quando ascolta i Clash, dopo anni di disillusioni, dichiara (naturalmente in modo esplicito) che finalmente “comprare dischi torna a essere divertente”.

È lui ad aver coniato il termine Heavy Metal in un pezzo dedicato ai Blue Oyster Club. Tra l’altro ispirandosi a uno dei suoi punti di riferimento letterari, non a caso, William Burroughs, per il quale ai tempi del liceo venne sospeso per aver fatto girare una copia del suo Pasto Nudo.

Insomma, Lester Bangs è uno di quei pensatori capaci solo di dire la verità, e nient’altro. Senza paura delle conseguenze, sincero come la musica che vorrebbe. E forse per questo la sua figura si staglia al limite tra chi la musica la fa e chi la critica, incarnando la sua idea artistica nello stile di vita sfrenato. Come quello di una rockstar.

E come tale muore, a 33 anni, per overdose. Giovane, eroico e tragico, come un mito.

Ecco chi è colui che può permettersi di scrivere questa recensione del terzo, storico, album dei Led Zeppelin, mettendo in discussione un altro mito. E di vedersela pubblicare da Rolling Stone senza (dirette) conseguenze, se non quelle di uno strappo irricucibile tra la band inglese e la rivista. Forse in maniera indiretta qualche conseguenza, però, l’ha avuta: 3 anni dopo, accumulando una miriade di altre distruttive recensioni, Lester Bangs viene licenziato da Rolling Stone con l’accusa di “parlare male dei musicisti”. E sarà molto più la rivista a vantarsi di averlo avuto come redattore, di quanto lui si sia vantato di aver scritto per Rolling Stone, ovviamente.

Led Zeppelin III: la recensione

Prima di sedersi davanti alla macchina da scrivere, Lester Bangs raccoglie da terra la custodia dell’album e la bottiglia di whiskey. Ne tira giù un altro sorso, sistema bene il foglio nel meccanismo e inizia a battere sui tasti.

Già a partire dal titolo Bangs getta le basi della sua provocazione: L’alba di un nuovo star system. Lo rilegge e sorride: ora ci divertiamo, pensa.

“LED ZEPPELIN III Spinning Wheel Gimmick Cover” by vinylmeister su licenza CC BY-NC 2.0

“Continuo a nutrire questa specie di odio-amore per i Led Zeppelin”, scrive dichiarandosi a cuore aperto, ma con un ghigno minaccioso che, dal viso, riesce a trasmettere anche alle parole scritte, “In parte per via di un interesse genuino e per speranze indifendibili, in parte per la convinzione che nessuno di tanto rozzo possa essere così male, mi approccio a ogni nuovo album aspettandomi chissà cosa”.

Vuole scriverlo esplicitamente quello che si aspetta, nient’altro che quella purezza che dovrebbe essere a fondamento della musica, secondo lui: i “monolitici” Yardbirds, il passato di Jimmy Page prima dei Led Zeppelin, e gli “esperimenti di vero blues”. Niente che riesca a trovare in questo album.

Nel momento stesso in cui batte sui tasti a creare parole e frasi, per Bangs si fa sempre più chiaro il problema di fondo dei Led Zeppelin: sono una band troppo legata al tempo in cui vive, rispetto al quale deve scendere a compromessi per assecondarlo. Questo rende “la loro musica effimera come i fumetti della Marvel ma al contempo vivida come un vecchio cartone in Technicolor”. La loro necessità di assecondare, inevitabilmente, rende la loro musica tutt’altro che stimolante: “Non sfida l’intelligenza o la sensibilità di nessuno, preferisce invece un impatto viscerale che assicurerà ai ragazzi una fama assoluta per molto tempo a venire”.

Bangs si ferma un istante, cercando nella mente il ricordo di un loro concerto. Ma non lo trova: non ci è mai stato e lo ammette. Eppure ha chiara la descrizione di alcuni amici, molti dei quali, tiene a sottolinearlo, “sono il tipo di persona che ascolta tutto purché sia in condizioni pietose e a un volume inaudito”. Ed ecco dove vuole arrivare parlando dei loro live: in essi si fa esperienza diretta proprio di quell’insensibilità che qui si produce attraverso “una fragorosa, indistinta onda di marea sonora che non assorbe ma avvolge per impedire ogni tipo di distrazione”.

L’assoluta sincerità come vocazione

Ma il suo mestiere è l’obiettività e la sua vocazione, nella scrittura come nella musica, deve essere l’assoluta sincerità. Per questo non può negare che questo album ha qualcosa di molto diverso dai due precedenti.

Lo ha ascoltato quattro volte, tutt’altro che un ascolto rapido e banale. E così non può evitare di scrivere l’evoluzione delle sue sensazioni da un ascolto all’altro: “la prima volta che ho ascoltato l’album il mio pensiero più concreto è stato il totale anonimato della maggior parte dei pezzi: nessuno potrebbe fraintendere la band, ma nessuno stratagemma riesce a emergere granché”.

Quando parla di stratagemmi, intende esattamente quella struttura artefatta che tanto odia, la negazione della purezza musicale. Un esempio della quale gli viene esattamente dai Led Zeppelin stessi e dal loro secondo album: “come quella grandiosa e gioiosamente assurda eiaculazione vocale di Plant in stile orangutan che ha reso Whole Lotta Love un classico di basso livello”. Anche qui trova qualcosa di simile, “Immigrant Song ci arriva vicino, con i suoi ritmi bulldozer e i mugolii raddoppiati e senza parole di Bobby Plant che rimbombano dietro alla voce principale, come una specie di coro cannibale che urla nella luce infernale di un selvaggio rito di fertilità”.

Ancora un altro sorso di whiskey, l’ultimo, si dice. Ora sa che sta per arrivare il “bello” della sua recensione. Impugna la copertina e legge i titoli dei pezzi, affrontandoli uno ad uno. Emette un roco colpo di tosse e decide di scendere dal piedistallo del critico e mettere una mano sulla spalla ai Led Zeppelin, come farebbe forse un collega, senz’altro un amico. Ma lui è forse più il primo che non vuole risparmiare nemmeno un goccio della sua caustica ironia: “Sfortunatamente, quel che rimane dell’isteria di Z III è al contempo utile o troppo melodrammatico (…). Rob, ascolta Iggy e gli Stooges”.

Sospira e schiaccia con forza il testo per mandare a capo. Bisogna tirare le somme di questo massacro, pensa Bangs. Dentro, sente come l’intenzione di voler salvare qualcosa e inizia a scrivere. Ma ogni colpo ai tasti tradisce solo la solita provocazione. Stavolta la usa per estendere il proprio disprezzo anche ad altre band: “Buona parte di quel che resta, dopo un paio di ascolti per distinguere le canzoni, non è affatto male, perché i Led Zeppelin sono creativi e professionali quel tanto che basta per dare uno stimolo occasionale al loro materiale scadente e tenere tutte le registrazioni relativamente pulite e chiare: puoi sentire nitidamente tutte le parti, che è molto più di ciò che si può dire per i colleghi”.

Ancora un colpo secco per scendere al nuovo capoverso. Ma stavolta il contatto con il primo tasto sembra aprire qualcosa nell’intimo del duro critico che si sente costretto dal proprio istinto a “menzionare una canzone chiamata That’s The Way, perché è la loro prima canzone ad avermi sinceramente commosso. Mi venisse un colpo, è stupenda”. È un vero e proprio spiraglio che squarcia la corteccia di Bangs, quel tanto che basta per farci passare la musica dei Led Zeppelin.

Stratagemmi o meno, non può non continuare a scrivere di getto: “Sopra un semplice e comunissimo riff acustico, Plant descrive una toccante immagine di due ragazzini che non possono più giocare insieme. (…) Per una volta, la voce qui è controllata. Anzi, l’intonazione della voce di Plant è lamentosamente soave (…)”.

Quando alza lo sguardo dalla macchina da scrivere, l’occhio gli cade sul nudo vinile abbandonato a terra. Per un attimo ha la tentazione di alzarsi e rimetterlo nel giradischi. Poi scuote la testa e batte con forza il dito su un pulsante, una sola volta, quel tanto che basta per creare un nuovo capoverso.

“Bello e strano abbastanza, cari Zeppelin”, chiosa riprendendosi da una sensazione onirica attraverso il battito dei tasti, “Come disse Chuck Berry eoni fa, ti mostra ciò di cui non ti accorgi mai”.

Potete trovare qui la recensione completa.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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