Malcolm X, Spike Lee (1992) - Credits: Warner Bros

La voce di Denzel Washington fuori campo, una bandiera statunitense e le immagini del pestaggio di Rodney King: la sequenza dei titoli di testa di Malcolm X è un pugno allo stomaco, ogni volta.

Saranno le parole pronunciate, famose e taglienti. Sarà il fatto che quella bandiera brucia di fronte ai nostri occhi, in un’autocombustione che la riduce all’iconica X. O saranno forse le immagini fuori fuoco, lontane e confuse, impresse su un vecchio nastro, di una violenza “notiziata”, ormai tristemente conosciuta, ma che nel 1991 infiammò Los Angeles. Ma no, nessuno di questi tre elementi, da solo, sfonda lo schermo fino a far venire i brividi.

A farlo è la loro combinazione, la visione d’insieme e quindi, in altri termini, la regia e il messaggio di Spike Lee, in uno dei suoi film migliori. Senza alcuna remora, Lee infatti spiega subito allo spettatore il motivo che l’ha spinto a realizzarlo. Di tutti i celebri discorsi sceglie proprio quello in cui Malcolm accusa l’uomo bianco di essere il più grande assassino sulla Terra, il carnefice più violento (3 aprile, 1964). Perché di solito è proprio Malcolm X a essere additato come il leader violento, radicale, estremo e pericoloso, mentre il regista intende cambiarne la narrazione.

Già solo attraverso la sequenza iniziale mostra innanzitutto il contesto in cui l’estremismo di Malcolm X nasce e acquista senso: nella volontà di non assimilarsi a uno Stato, già di per sé, nemico. Quella X a stelle e strisce in fiamme rappresenta letteralmente il puro concetto di rivoluzione, su cui poi tanti forse perdono il contatto con le idee incarnate da Malcolm. Ossia un cambiamento che non può curarsi dei principi morali vigenti e opprimenti. Altrimenti che rivoluzione sarebbe? Ben venga allora lo sgomento nel veder nascere dalla bandiera in fiamme un nuovo simbolo, una sola lettera che include un mondo dentro sé.

Malcolm X (Spike Lee, 1992)
Malcolm X (Spike Lee, 1992)

Malcolm X e BlacKkKlansman: parallelismi

È la stessa vibrante sorpresa che ho provato alla fine di BlacKkKlansman (2018), quando invece la bandiera appare capovolta e decolorata, dopo un’altra agghiacciante sequenza di violenza razzista (Charlottesville, 2017). E per certi versi il film del 2018 rispecchia simmetricamente il capolavoro del 1992. Innanzitutto perché entrambi sono tratti da due autobiografie: due vite vere che servono a raccontare due momenti della storia (afro)americana.

Malcolm X dettò la sua pochi mesi prima del suo brutale assassinio. Il celebre libro infatti è firmato da Alex Haley ma è il frutto di lunghe interviste e di un’interessante e complementare prefazione di Haley stesso. Non è un segreto, inoltre, che questa autobiografia sia il testo di riferimento personale e intimo di Spike Lee. BlacKkKlansman, invece, è l’autobiografia di Ron Stallworth, entrato nella Storia come unico nero infiltrato nel KKK. Una vicenda incredibile, raccontata da Lee in uno dei film più acclamati degli ultimi anni.

In secondo luogo le due opere, pur così distanti nel tempo, sono entrambe realizzate a ridosso di eventi particolarmente traumatici e violenti: questioni razziali irrisolte e irrisolvibili. Come accennato, da un lato Rodney King, dall’altro Charlottesville. L’impressione è che Lee voglia in entrambi i casi fotografare un momento di tensione, analizzarlo attraverso una storia e poi lasciare ulteriori riflessioni al pubblico.

Il terzo motivo, poi, è quello che sugella le mie ipotesi precedenti come una ciliegina sulla torta e cioè la scelta del protagonista. Denzel Washington in Malcolm X e suo figlio John David in BlacKkKlansman. Un passaggio di testimone (o comunque una connessione difficile da ignorare) che sembra chiudere un cerchio ideale.

Una nuova forma di racconto di Malcolm X

Una quarta ragione, infine, riguarda l’intera forma e non solo il contenuto. Non è infatti un caso che le sequenze di cui ho parlato (iniziale in Malcolm X e finale in BlacKkKlansman) siano isolate dal resto dei rispettivi film.

Il messaggio, così forte e diretto in entrambi i casi, è diluito e reso apparentemente meno impetuoso, ma non meno militante, da uno stile giocoso e irriverente, che costituisce poi la firma di Spike Lee stesso.

È così, per esempio, che la sequenza della stiratura dei capelli di Malcolm (l’apertura dopo i titoli di testa), pur nella sua tragicità intrinseca, sembra una gag e strappa più di un sorriso. Non so per quanti, ma per me l’aneddoto della stiratura rappresenta il primo incontro con Malcolm X, tra le pagine di un libro di antologia delle scuole medie. Un passo della sua autobiografia raccontava il dolore del cuoio capelluto bruciato, quando era ragazzino. Una tortura che si autoinfliggeva per somigliare ai bianchi. Nel libro di scuola era una pagina totalmente fuori contesto, ma non una di quelle che si dimenticano facilmente. Così l’ho portata a lungo dentro di me, fino a quando Spike Lee e Denzel Washington me l’hanno mostrata in una cornice precisa.

E anche se la sofferenza che avevo immaginato era proprio lì, negli occhi dell’attore, tutto il resto era totalmente diverso. C’erano anche i costumi sgargianti, l’umorismo, la musica, il ballo. C’era e c’è in quelle scene un atto di resistenza attiva e di sfida. Una vitalità che esplode nonostante un intero sistema che preme per opprimerla, a partire dalle piccole cose, che poi piccole non sono. Come un’acconciatura o, più nel profondo, il riconoscimento sociale e l’autonarrazione di un’intero popolo.

Spike Lee e Denzel Washington in Malcolm X (Spike Lee, 1992)
Spike Lee e Denzel Washington in Malcolm X (Spike Lee, 1992)

Spike Lee sceglie spesso di inserire sequenze del genere nei suoi film. Momenti di pura Bellezza, di divertimento, suo e del pubblico, proprio come atto politico. È la stessa cosa che avviene anche in BlacKkKlansman sulle note di Too Late to Turn Back Now. Una danza e un canto liberatorio dopo una delle scene più tese e spaventosamente realistiche dell’intero film.

Un’opera epica che persiste nel presente

In un’opera come Malcolm X, che potrebbe essere tranquillamente dichiarata epica, per la sua notevole durata (oltre tre ore) e per l’importanza dei temi, uno stile del genere è vitale. Umanizza il protagonista senza sminuirne l’aura storica. Crea connessioni emotive con una figura fin troppo stigmatizzata nella cultura popolare (bianca). E infine costruisce un nuovo immaginario che, dal 1992, continua a viaggiare di pari passo con la memoria di Malcolm X.

Accanto alla biografia curata da Alex Haley, il film di Spike Lee (ad essa comunque legato) è diventato un tassello essenziale per conoscere meglio il leader afroamericano. Se non l’avete mai visto, al momento è disponibile su Prime Video. Se però volete approfondire ulteriormente il discorso, non perdete nemmeno la docu-serie Netflix Chi ha ucciso Malcolm X? Sei brevi episodi realizzati nel 2019, in cui sono presenti anche notevoli reperti fotografici e filmici.

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