Marco Bellocchio in

«Marx può aspettare», dice Camillo, gemello del regista Marco Bellocchio, poco prima di suicidarsi a 29 anni, nel 1968, quando Marx non poteva aspettare. Nemmeno per Marco, che aveva già citato la frase del fratello in uno dei più autobiografici tra i suoi lungometraggi di finzione, Gli occhi, la bocca (1982). E che, stavolta, la eleva a titolo del suo più recente film, accolto trionfalmente nella Cannes, che ha tributato la Palma d’oro d’onore al cineasta.

Difficile, e riduttivo, definirlo un documentario: in parte perché questa, e altre denominazioni, paiono sempre più in affanno di fronte alla complessità multiforme del cinema del reale. E a dimostrarlo basterebbe, qui, l’unica e fondamentale scena palesemente “finta” del doc, che è anche la più carica di struggente, poetica verità.

Ma soprattutto, dopo Marx può aspettare, tutto il cinema “di finzione” di Bellocchio potrebbe essere (ri)letto come document(ari)o di un vissuto personale, pubblico e privato. Dove proprio la tragica morte di Camillo è evento fatalmente emblematico. Marx può aspettare, d’altro canto, si inserisce a modo suo in una delle più note e frequentate tradizioni dei racconti inventati (ma verosimili), il ritratto di una famiglia nel corso del tempo. Bellocchio, infatti, parte dichiaratamente dall’intenzione di girare un film sulla propria famiglia.

L’idea prende forma durante una riunione del 2016, dove l’età avanzata di molti partecipanti (regista compreso) fa supporre che questa possa essere l’ultima occasione. E, in effetti, si tratta di un film sulla morte. E sul privato. Che però si conferma pubblico, non meno di quanto la morte si scopra vita. Ed è in questo doppio binomio, forse, che sta il cuore di Marx può aspettare.

La morte (non) può aspettare

Un’immagine di Marx può aspettare. Credits: 01 Distribution.

La fine dell’esistenza (terrena) è il filo conduttore dell’intero film. E, trattandosi di una (auto)biografia, si potrebbe supporre che sia il filo conduttore di tutta la parabola dei Bellocchio. A partire dalla madre, con l’ossessione per le fiamme dell’Inferno cattolico trasmessa ai figli, e da cui anche i più laici di loro continuano ad essere visitati. La critica sistematica del Bellocchio regista alla religione può essere vista proprio come un altro modo di rimanere paradossalmente legato ad essa.

Così come l’impegno marxista radicale è per molti aspetti una tensione religiosa secolarizzata. Nel mondo a(nti)religioso del capitalismo avanzato, le analogie (anche nell’opposizione) tra mondo cristiano-cattolico e marxista-comunista sono tanto più evidenti. Entrambe ideologie della salvezza in (e da) un mondo dove la morte e l’inferno sono le dimensioni fondamentali (e senza alternative) del vivere quotidiano. Morte e inferno intesi non più solo come finitezza e fragilità dell’essere ma anche come ciclo alienante e classista di produzione e consumo. Il paradossale “cristianesimo” del marxista anticlericale Bellocchio lo suggerisce esplicitamente un personaggio chiave del documentario, il gesuita progressista (e critico cinematografico) Padre Virgilio Fantuzzi.

Morto anche lui, nel frattempo, come è morto l’autore delle musiche di Marx può aspettare, Ezio Bosso. Contributi che il film ha sottratto in tempo alla fine che incalza, ma che a volte accelera in modo imprevisto e imprevedibile. Mangiandosi la vita di un ragazzo per scelta di quest’ultimo. Ecco che la morte si conferma il nodo irrisolto nel cammino dei Bellocchio, di ogni Bellocchio, dal sindacalista Alberto allo stimato intellettuale dei Quaderni Piacentini Pier Giorgio. Proprio lui è al centro di uno dei passaggi più interessanti e rivelativi del film, il “giallo” sul biglietto scomparso. Che forse non è mai esistito. Ed è singolare che l’equivoco (o distorsione, o reticenza, o chissà cos’altro) riguardi la figura apparentemente più razionale del clan. La morte è (sempre) il punto di eccedenza di ogni costruzione razionale, facendone entrare in crisi i costrutti e le difese.

Ma la morte è, appunto, l’ultima e forse unica vera occasione che ci resta per accorgerci della vita. Ha dovuto uccidersi, Camillo, perché i familiari percepissero l’entità di un malessere che né la sicurezza borghese di un’occupazione né le prospettive rivoluzionarie potevano risolvere. È con la morte che la vita di Camillo irrompe nel vissuto degli altri, in tutta la sua scandalosa (il)leggibilità. Così come la prospettiva della morte ormai non troppo lontana spinge il regista a rendere familiari, amici e conoscenti del fratello personaggi di un film. Sottraendoli all’oblio, preservandone una traccia condivisa nel cinema. Che è, forse, un po’ come il “limbo” di cattolica memoria. Ma il limbo, ricorda una delle sorelle Bellocchio, non era poi così terribile come prospettiva.

«Dov’è tuo fratello?»

Marco Bellocchio in una scena di Marx può aspettare. Credits: 01 Distribution.

Marx può aspettare non ci sembra un gesto di (ri)chiusura nel particolare individuale a scapito del collettivo, del politico al centro del cinema di Bellocchio. Da I pugni in tasca a Il traditore, infatti, il territorio chiave dove Bellocchio esercita la sua critica sociopolitica è sempre stato quello della famiglia. Rispettabilmente (e ipocritamente) borghese o brutalmente mafiosa che sia, è dalla famiglia che partono e ritornano le contraddizioni della società. Che il privato sia pubblico, da questo punto di vista, ce lo dimostra da oltre cinquant’anni, Bellocchio, come pochi altri cineasti.

Ciò che piuttosto il regista-protagonista fa stavolta, è riflettere, scandagliando psicanaliticamente i propri ricordi (e rimossi), sulla qualità del suo e nostro impegno politico. Poiché, mentre ci si batte per e con le masse, non si può ignorare la sofferenza del singolo individuo più vicino a noi. Un individuo da comprendere e non liquidare con slogan e proclami teorici (le «cazzate rivoluzionarie» che Marco confessa di aver replicato ai dilemmi di Camillo).

Non può darsi, insomma, prospettiva rivoluzionaria (o di cristiana redenzione) che prescinda dal riconoscimento dell’altro e della sua specificità. Perché ogni “altro” ignorato, dimenticato, lasciato per strada, è una morte che insinua la sua protesta nella vita di chi c’è ancora. E perché si può liberare la coscienza dalla paura delle “fiamme eterne”, ma non dalla più inesausta delle domande bibliche: «Dov’è tuo fratello?».

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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