Romola Garai in

Il privato è pubblico. Anche e soprattutto quando contraddice il pubblico, lo corrode dall’esterno, o meglio dall’interno (delle mura domestiche), lo (per)turba, lo avvelena. È la parabola di Eleanor “Tussy” Marx (Romola Garai), o Miss Marx, nel film omonimo scritto e diretto da Susanna Nicchiarelli.

Presentato a Venezia 77 e candidato a 11 David di Donatello, è un film su una donna che a rigore dovrebbe essere bandita (con molte altre grandi menti) dai programmi scolastici dell’Inghilterra – dov’è ambientata, guarda caso, la vicenda – a guida Boris Johnson, in cui l’anticapitalismo è equiparato all’antisemitismo. A dimostrazione, tra l’altro, che certe idee non sono così morte e sepolte, se c’è ancora chi si ostina a tentare di ucciderle.

Libertà, uguaglianza e contraddizioni

Romola Garai in una scena di "Miss Marx". Foto di Emanuela Scarpa. Credits: 01 Distribution.
Romola Garai in una scena di “Miss Marx”. Foto di Emanuela Scarpa. Credits: 01 Distribution.

Eleanor Marx, figlia minore di Karl Marx, è la combattiva erede delle idee del padre, ma anche la portatrice di istanze femministe che si scontrano col maschilismo della società di fine Ottocento, e non solo: laddove anche i militanti della Seconda internazionale (co-fondatrice, nel 1889, la stessa Eleanor) non sono esenti dalla prevaricazione sulla donna.

L’insistenza di Miss Marx sugli interni (delle abitazioni, delle relazioni che vi si svolgono, delle psicologie individuali), la preponderanza di questi sugli esterni (dei comizi, delle riunioni politico-sindacali, delle incursioni sui posti di un lavoro oppressivo e alienante) non sembrano allora, a ben vedere, un facile ricorso ai codici (e stereotipi) della fiction familiare-sentimentale. Perché lo spessore etico-politico del film sta proprio nel suo sondare la ferita ancora aperta tra ideali rivoluzionari e impossibilità (o non volontà?) di portare la rivoluzione dentro le proprie case fin troppo borghesi.

Nel caso di Eleanor-Tussy è il vincolo di amore-dipendenza con la figura paterna a informare, scandire, condizionare la parabola della donna e dell’attivista, nell’incertezza del confine tra le due. Non a caso il film parte dai funerali del filosofo, padre(-padrone?) del comunismo, e a lui ritorna, fino alla fine, quasi ossessivamente: tra flashback sull’infanzia, citazioni dalle opere, note “scabrose” sulle relazioni extraconiugali, sommovimenti di amore e risentimento filiale.

Il titolo stesso ci presenta la donna gravata da un cognome-lascito paterno che pesa come un macigno sulla sua identità di personaggio, storico e filmico. E infatti per “Miss Marx” il vero dramma è non saper lasciar andare (o allontanare) le figure maschili della propria vita. Oltre al genitore (la cui mancanza è in grado di far vacillare, per un istante, le salde convinzioni laiche sull’aldilà), il nipotino Johnny, e soprattutto l’ingombrante, scialacquatore e infedele quasi-marito Edward Avelling (Patrick Kennedy).

Se quest’ultimo è davvero l’emblema, via via più sgradevole, di quell’incoerenza maschile e maschilista che già si apre come una voragine sull’ancora giovane movimento socialista, la stessa protagonista finisce con l’alimentare (per troppo e distorto amore) contraddizioni e ingiustizie ai danni del proprio sesso. Emblematica, più di tutte, la sequenza del confronto con la ragazza interpretata da Alexandra Lewis.

Genere e utopia (in crisi)

Romola Garai in una scena di "Miss Marx". Foto di Emanuela Scarpa. Credits: 01 Distribution.
Romola Garai in una scena di “Miss Marx”. Foto di Emanuela Scarpa. Credits: 01 Distribution.

Muovendosi sulla linea frastagliata delle contraddizioni tra idea e prassi, Storia collettiva (le foto d’epoca inserite dal montaggio) e individuale, la regista-sceneggiatrice si confronta nuovamente col genere forse più abusato del cinema contemporaneo, il biopic. Riesce comunque a ricavarne spazi di vitalità e originalità, facendone il racconto dell’ancora aperta, e forse insanabile, frattura tra principio e sua realizzazione. Se in Nico, 1988 (2017), Nicchiarelli ci mostrava la geniale e tormentata protagonista negli anni del ripiegamento e dell’agonia delle utopie, in Miss Marx l’utopia è ancora giovane ma già se ne intravede la crisi.

È duplice, allora, l’effetto della sovrapposizione di immaginari tra un secolo e l’altro, a suon di brani punk rock (del gruppo Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo) e non solo. Da un lato si sottolinea l’attualità della protagonista e della sua lotta. Dall’altro se ne anticipa la delusione e il tradimento, richiamando l’eterno presente postmoderno, dove ad essere archiviata forzosamente è proprio l’idea di un reale progresso storico e quindi di un possibile cambiamento di sistema.

Miss Marx, allora, è un film contraddittorio come la sua protagonista, diviso (e divisa) com’è tra (ri)affermazione di una visione del mondo – e del cinema – come potrebbe essere e il legame con ciò che è. Quasi scisso tra aderenza alle strutture del biopic in costume e guizzi d’autrice, tra il rigore della costruzione (delle inquadrature) e ricostruzione (d’epoca) e le impennate stranianti. Come Eleanor che mentre scrive improvvisamente guarda in macchina e declama le sue istanze di libertà e uguaglianza. A questi conflitti interni contribuisce non poco la notevole performance di Romola Garai, che alterna (melo)drammatici scoppi emotivi e momenti opposti, dove pensieri e sensazioni contrastanti appaiono sfumati, (con)fusi e dolorosamente trattenuti.

È in queste contraddizioni che, forse, si possono trovare non già le soluzioni, ma gli spunti per raccontare e rappresentare in modo nuovo e diverso – seppur dall’interno di un genere inflazionato – la Storia, la politica, l’umanità al cinema. E per (tornare a) immaginare, attraverso quest’ultimo, altri modi di vivere, malgrado tutto.

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Foto profilo Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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