Mommy-dolan
Mommy-dolan

L’enfant prodige Xavier Dolan, regista canadese trentaduenne, ormai non è più enfant. Dopo otto film da regista e un’attività artistica in campo cinematografico a tutto tondo, Dolan è diventato nell’immaginario comune il cineasta pop per eccellenza. Un’autorialità innegabile è resa ancora più potente dalla capacità di rendersi fruibile a chiunque, a irraggiarsi verticalmente tra i molteplici livelli spettatoriali, dando qualcosa (di diverso, probabilmente) a ognuno.

Nel 2014 esce Mommy, che vince il Premio della giuria alla 67ª edizione del Festival di Cannes, e quando l’ho visto per la prima volta, al cineforum del mio paese, è come se in me degli argini si fossero rotti. Qualcosa in me ha fatto clic, qualcosa si è rivelato, e tutto grazie al racconto straziante, esilarante, assordante, di un amore che per amare veramente deve essere disposto a fare un passo indietro e al contempo andare oltre.

STEVE E DIANE

In un futuro ipotetico, in Canada è stata approvata una legge che consente al genitore di far internare, in situazioni di difficoltà finanziaria o immediato pericolo fisico e/o psicologico, e senza alcun processo, il figlio con problemi comportamentali. È così che la storia di Diane e Steve ci viene introdotta, con un’ombra tetra che viene gettata su tutto ciò che stiamo per vedere. Ed è come se questo presagio trovasse materialità nella ristrettezza del formato usato, che per tutta (o quasi) la visione costringerà i personaggi in uno spazio ridotto. I primissimi piani in cui sono ripresi rendono ancora più soffocante l’inquadratura: una vita in 1:1 è troppo limitata, soprattutto per una famiglia disfunzionale come quella dei Després. E anche su di noi grava continuamente questo peso. Lo spettatore sente cinematograficamente ciò che i personaggi sentono sulla loro pelle di costruzioni narrative dalla verità che trafigge.

Steve (Antoine Olivier Pilon) è affetto da ADHD, con violenti scatti d’ira che non riesce a controllare. Lo incontriamo nell’atto di spalancare la porta del centro di recupero dove ha vissuto da dopo la morte del padre. È questo il primo atto di tentata liberazione, primo affiorare oltre la superficie, per tornare (o riuscire per la prima volta) a respirare. Steve è un ribollire troppo spesso incontrollato; riversa amore e odio senza freni, senza soluzione di continuità.

E con ancor maggior dirompenza sulla madre Diane – o Die, nomen omen – (Anne Dorval), che affronta una vita avversa con il sorriso e un coltello tra i denti. È impossibile non percepire la visceralità e allo stesso tempo il caos, la violenza del loro rapporto. Le recriminazioni urlate che si sovrastano, i movimenti bruschi dei corpi, i colpi. La macchina da presa, spesso a mano, traballante, segue, spostandosi a scatti, i personaggi, trascinandoci in mezzo allo scontro, buttandoci sui loro primi piani. Non siamo mai veramente esterni, siamo continuamente ridosso a loro, e ciò ci rende impossibile giudicarli, permettendoci solo di accoglierli, di sentirli. Ci ritroviamo molte volte sulle loro nuche, a seguirli ciecamente.

… E KYLA

Dall’altro lato della strada Kyla (Suzanne Clément) osserva l’esplosione di vita che si trova davanti. Un evidente trauma la rende impenetrabile, quasi apatica nel contesto familiare. L’uscita dalla casa sarà l’avvio di un’elaborazione del lutto tanto brusca quanto necessaria. Un equilibrio disarmante, costruito grazie a preliminari scoppi di attriti feroci, si formerà tra i tre. Come un’oasi in una sterminata distesa di incomprensione.

La reciproca cura che i tre si riservano a vicenda, il loro inconfutabile amore, non lascia dubbi: costituiscono a tutti gli effetti una famiglia. I padri e mariti o sono morti o non sono disposti/in grado di essere la figura di cui si ha bisogno. Kyla esce da un nucleo in cui non riconosce più né se stessa né gli altri, e si inserisce, salvifica, nelle dinamiche violente di Diane e Steve: senza clamore, senza autorità, solo con il suo dolore e la sua spinta a liberarsene.

Mommy, Xavier Dolan (2014) – Good Films

Quando Kyla ripiomba nelle fauci di quella che sembra una vera e propria casa infestata, ritorna anche la balbuzie: le parole rimangono bloccate, come lei è bloccata nell’evidente vuoto di ascolto che l’ha fino a quel momento inghiottita. Con i Després si ha la sensazione palpabile che Kyla si scarichi, si liberi, vomiti una serie di enormità represse che, così come le impedivano le parole, le irrigidivano anche i movimenti. Il suo canto diventa quasi un orgasmo emotivo troppo a lungo trattenuto.

ATTRAVERSARE LO SCHERMO

A chiunque abbia visto il film è un’immagine ben precisa quella che affiora alla mente quando per caso ci ripensa. È il racconto che buca lo schermo e diventa qualcosa che ci riguarda, nel modo più mozzafiato possibile; così la finzione per un attimo esce da se stessa per tendere una mano allo spettatore. È come se avvenisse una rottura tecnica della quarta parete, che risulta tanto liberatoria per i personaggi quanto per noi.

Con un grande sforzo iniziale, che si tramuta poi in un gesto più fluido, i bordi neri vengono spinti via da Steve. La scatoletta quadrata  che li – e ci – rinchiudeva viene scardinata, e finalmente, così come loro si sentono (per un attimo) padroni di una vita in cui la speranza ha fatto breccia, noi ci sentiamo padroni dello schermo. L’aspect ratio diventa 1.85:1, un rettangolo che allontana le ombre.  Ma l’evanescenza della felicità, l’illusorietà di una vita in wide screen, bussa subito alla porta. La tecnica che aveva assecondato la finzione torna timidamente sui suoi passi, e la chiusura sembra ancor più serrata, ci sentiamo ancora più in apnea di prima, ora che abbiamo respirato l’aria pura. Tant’è che ogni volta ho la sensazione che l’inquadratura sia più ridotta del quadrato iniziale, anche se così non è.

Mommy, Xavier Dolan (2014) – Good Films

Sarà ancora una soglia quella che Steve proverà a varcare nell’apertissimo finale. Una finestra, materiale e simbolica, che rappresenta la speranza di uscita dall’ennesimo contesto di coercizione. La spinta vitale del personaggio è l’atto stesso di andare oltre, perché Steve è oltre lui stesso. Un debordare di emozioni e passioni che non riescono a rimanere confinate entro i troppo stretti limiti del corpo e delle norme comportamentali socialmente accettate, entro i margini di un’inquadratura troppo costringente.

LA MUSICA FUORI

Il lato emozionale in Dolan viene amplificato vertiginosamente dalla musica. Le scelte pop dei brani spesso famosissimi riescono ad essere catalizzanti senza tuttavia risultare invasive: è sempre il racconto a rimanere in primo piano. La sceneggiatura riesce ad impossessarsi della musica e a restituircela digerita, intessuta nelle maglie drammaturgiche del film.

Impariamo a conoscere il mondo interiore di Steve proprio grazie a una sequenza in cui Colorblind dei Counting Crows lo accompagna in un’uscita in cui si scarica e ricarica. Sullo skateboard, mentre ascolta una canzone rap – che noi riusciamo a sentire –, la delicatezza del brano smussa la violenza incontrollabile della sua energia. La macchina da presa panoramica quasi ininterrottamente attorno all’impazzito movimento circolare a lei opposto di Steve con il carrello, nel parcheggio del supermercato. I due moti inversi trovano corrispondenza nel cozzare della levità della musica con le urla di Steve. Il carrello diventa uno skateboard 2.0, e noi seguiamo la corsa volteggiante del ragazzo, che ha proprio il sapore di una liberazione. L’uso del ralenti, che spesso risulta fastidioso e videoclipparo, è in questo film parte imprescindibile del racconto audiovisivo.

E quanto avrebbe perso il momento dell’apertura delle nere quinte schermiche senza Wonderwall degli Oasis? Il montaggio del film e il brano si compenetrano con una naturalità tale che rende la canzone parte stessa della grammatica cinematografica della scena.

Experience di Ludovico Einaudi accompagna lo straziante falso finale immaginato da Diane prima di far ritorno dalla paradisiaca parentesi della gita e avvalersi della famigerata legge S-14, la cui ombra si è stagliata su tutto il film, e far ricoverare il figlio. L’inquadratura si allarga nell’ultimo sussulto di utopia a tutto schermo.

Un montaggio dominato, ancora una volta, dal ralenti e da una sfocatura diffusa da cui emergono solo poche immagini precise, ci mostra la vita che Diane ha sempre sognato per Steve. È un grande montaggio ellittico che in qualche minuto traccia la vita perfetta che ogni genitore desidera per il proprio figlio. E la scelta – già presa – che a questa fantasia seguirà è tanto più sintomatica dell’amore di Diane per Steve proprio perché la donna riconosce un limite davanti al quale solo un amore incondizionato ammette la necessità di passare il testimone.

LA MUSICA DENTRO

La colonna sonora diventa ancora più centrale quando da elemento extradiegetico si fa diegesi pura, profilmico auditivo.

Il relatore del cineforum del mio paese, a cui sempre sarò grata per avermi introdotta al mondo che esiste dietro e dentro il cinema, ha osservato che le scene in cui i personaggi cantano o ballano hanno nei film una valenza particolare. È un’apparente pausa dalla narrazione che ci dice spesso molto più di mille dialoghi sulle psicologie, sui rapporti e sugli sviluppi di coloro che osserviamo sullo schermo. Quando addirittura non diventa snodo narrativo centrale, come nel caso di Steve che canta Vivo per lei al karaoke, circondato da stimoli negativi e vibrazioni emozionali avverse che portano a una detonazione tanto improvvisa quanto prevedibile.

La scena che di Mommy porterò sempre con me è quella in cui, dopo la prima cena che Kyla, Diane e Steve fanno insieme, sconosciuti che il destino ha voluto far toccare, On ne change pas di Céline Dion risuona  come inno di libertà nella cucina dei Després.

Mommy, Xavier Dolan (2014) – Good Films

Quella che fa Steve è una performance che inizialmente mette Kyla a disagio. Gli sguardi tra Steve che la provoca e Kyla in imbarazzo vengono scambiati attraverso il filtro dello spettatore, con i loro primi piani che guardano noi e, di riflesso, si guardano l’un l’altro. Steve assume gli atteggiamenti ambigui di un amore che sembra andare oltre quello filiale con Diane, ma lei mostra di avere la situazione sotto controllo, è un teatro che è già stato provato e riprovato. In Kyla la tensione e il disagio spariscono con una risata liberatoria: ancora una volta il montaggio segue il ritmo della musica in una maniera sbalorditiva.

Le passioni e le problematicità dei personaggi vengono messe in scena. Steve e Diane con le loro ambiguità, con l’esuberanza e l’amore che tenta di trovare un equilibrio. Kyla che si trova alla resa dei conti con i suoi fantasmi, che una canzone, cantata senza balbettamenti, riesce forse per la prima volta a esorcizzare.

Mommy è risultato dirimente nella mia scelta di studiare cinema. È strano addossare a un singolo film questo merito, questa responsabilità, ma a volte succede che dentro di noi scatti qualcosa che erige un prima e un dopo. E il mix di sensazioni di cuore e stimoli intellettuali che è in grado di procurare questo film è qualcosa di raro. Non unico, ma raro. E credo che ognuno di noi abbia il “suo” Mommy, che risuona senza smettere mai di far sentire il suo basso costante in tutto ciò che fruiamo. E un po’ anche in quello che siamo.

Continuate a seguirci su FRAMED!

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