Audrey Hepburn e Rex Harrison - My Fair Lady - Credits Warner Bros.

Vincitore di otto Premi Oscar nell’edizione del 1965 – tra cui Miglior Film, Miglior Regia, Migliori costumi e Miglior colonna sonora – My Fair Lady è uno dei musical più celebri di tutti i tempi. Impiegando una variazione sul tema della formula from rags to riches, mette al suo centro il peso sociale della lingua, il suo presunto essere una zavorra che impedisce l’emancipazione dal gutter, dai bassifondi più miseri e loschi, e l’elevazione a più gentili maniere e nobili impieghi.

Dal teatro al cinema

Il film è l’adattamento dell’omonimo musical teatrale di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe del 1956. Lì, i ruoli principali erano di Julie Andrews – che nello stesso anno di My Fair Lady veste invece i panni di Mary Poppins – e Rex Harrison – che ritroviamo a interpretare lo stesso personaggio nel film. La fonte primaria di entrambe le opere è la commedia in cinque atti Pigmalione di George Bernard Shaw. Essa si ispira al mito di Pigmalione, ovvero dell’uomo che si innamorò di una delle sue sculture, Galatea, che per lui prese vita.

Con la sceneggiatura di Lerner e le musiche di Loewe, il film è diretto da George Cukor, uno dei registi più importanti della Hollywood classica (Piccole donne, Scandalo a Filadelfia, È nata una stella). Con un budget di produzione vertiginoso per l’epoca, il film gode di un comparto tecnico di altissimo livello. Caratterizzate da un forte impianto teatrale, le scenografie sono strabordanti e sognanti. I costumi, ideati da Cecil Beaton, sono un capolavoro di artigianato: basti pensare alla sequenza all’ippodromo di Ascot e al turbinio di bianchi, neri e grigi degli arzigogolati cappelli. Le musiche, coreografate in modo da raccontare i personaggi, sono in grado di disegnarne i contorni emotivi e pulsanti.

E sono proprio i personaggi a trainare questa storia, dove una sorta di Cenerentola dal forte accento dei sobborghi londinesi diventa una lady della società, innamorandosi della fata madrina che ha reso possibile la trasformazione.

Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) in My Fair Lady - Credits Warner Bros.
Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) in My Fair Lady – Credits Warner Bros.

Why can’t the English learn to speak?

Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) è una giovane fioraia di strada, senza madre e con un padre ubriacone che si fa vedere solo quando ha bisogno di rimpinguare le tasche. Una sera si trova fuori da un teatro londinese, con l’idea di approfittare della fine dello spettacolo per vendere qualche fiore alle dame altolocate o ai loro nobili accompagnatori. Per un’esilarante serie di coincidenze e incomprensioni, Eliza fa la brusca conoscenza di un professorone emerito di fonetica, Henry Higgins (Rex Harrison), e di un colonnello, anche lui esperto di quella branca della linguistica, giunto dall’India per incontrarlo, Hugh Pickering.

La teoria di Higgins è che sia proprio la lingua a costringere l’essere umano nell’indigenza, a una condizione subalterna e miserevole. L’impettito accademico si vanta ai quattro venti di essere addirittura in grado di rivoluzionare l’accento e il modo di esprimersi della piccola fioraia così alla perfezione da poterla farla passare per una grande dama ad un gala dell’ambasciata. Nella mente di Eliza si profila una speranza per il suo futuro, per una vita rispettabile lontano dalla strada. Sarà in grado il professor Higgins di mantenere la promessa fatta? Che ne sarà della fiera e schietta Eliza?

Il professore e la povera

Ovviamente le idee (e i metodi) di Higgins ci fanno storcere il naso. E sembra che i nessi logici di causa-effetto vengano un po’ travisati. I ricchi, i nobili, coloro che non devono preoccuparsi di arrivare a fine giornata, non sono forse bene educati, possessori di un linguaggio pulito e corretto e di buone maniere proprio in quanto appartenenti a una classe sociale agiata? L’esatto contrario, sostenuto dal professore, ci sembra improbabile quanto assurdo. La percezione del cambiamento di Eliza sarà infatti inscindibile dalla nascita e crescita del suo sentimento nei confronti di Higgins, reso possibile proprio dall’insegnamento della dizione e delle maniere. Il nostro Pigmalione, in un ribaltamento del mito, sembra tuttavia sordo e cieco all’amore della ragazza. È qui Galatea, da lui plasmata e fatta vivere, a innamorarsi del suo creatore.

Mi pare che Eliza Doolittle sia l’incarnazione, portata al parossismo, del tipo portato in scena da Audrey Hepburn. I personaggi dolci, talvolta apparentemente fragili, a cui ha dato vita nel corso della sua carriera hanno sempre racchiuso un’elegante dignità, una forza derivante da una fierezza innata. Qui Eliza porta all’estremo il lato orgoglioso, irriverente, quasi “antipatico”, nella parte iniziale del film, per poi addolcirsi – forse eccessivamente – in seguito.

Trovo che spesso il primo tempo di un film sia più interessante e stimolante del secondo: tutto è ancora da scoprire e definirsi. In My Fair Lady questa mia idiosincrasia è accentuata dalla forte sensazione di mancanza che si prova nei confronti della “vera” Eliza. I suoi modi diretti, taglienti se non fossero ingenui, e spassosi all’inverosimile scompaiono. Viene lasciato il posto a un’anima gentile e perdutamente innamorata, così come l’accento cockney lascia il passo al proper English promesso all’inizio. Ciò non toglie al viaggio della visione la magia e l’incanto di una favola cantata puntellata di strabilianti momenti in cui la spettacolarità delle musiche si combina con quella delle scenografie.

La famosa scena all'ippodromo di Ascot - My Fair Lady - Credits Warner Bros.
La famosa scena all’ippodromo di Ascot – My Fair Lady – Credits Warner Bros.

Le musiche

Il cast è ricco di caratteristi: su tutti spiccano Gladys Cooper, che interpreta la madre di Higgins, e Stanley Holloway, che porta in scena (così come a teatro) lo scapestrato padre di Eliza. Le parti più corali danno un respiro più ampio a quello che spesso è un musical di interni. Le musiche sono un saliscendi di sentimenti, di toni, di sfumature che danno vita all’altalena emotiva della nostra protagonista. Anche se rimane il rimpianto del quasi totale doppiaggio delle parti cantate, dovuto alla non ineccepibile capacità canora di Hepburn. Posto che al giorno d’oggi alcune parti originali sono reperibili, quanto avrebbe acquistato in autenticità sentire l’imperfetta – e per questo tanto più efficace – voce di Audrey?

Come dimenticare la dichiarazione delle umili aspirazioni di Eliza, elencate in Wouldn’t It Be Loverly? O l’irresistibile voglia di cantare e ballare, con lo spirito innalzato sulle vette dell’amore, in I Could Have Danced All Night? Senza tralasciare la frustrazione e il fastidio iniziali, espressi nella collerica Just You Wait, invettiva nei confronti del professor Higgins. Ancora ricordo quando la mia prof del liceo ci mostrò uno spezzone del film per illustrarci le differenze degli accenti inglesi. Era The Rain in Spain, il momento catartico in cui Eliza riesce per la prima volta a pronunciare correttamente una frase. Ma è impossibile elencare tutti i brani di questa colonna sonora che ci accompagna fino alla risoluzione, un po’ dolce, un po’ amara, dipende dalla prospettiva da cui si guarda.

Non mi resta che consigliarvi di recuperare quello che per me è un feel-good movie, che mi regala positività e mi libera la mente. Mi permette di vagare spensierata tra i vicoli di Londra, tra le infinite librerie di Higgins e tra la folla al gran gala. E Audrey è irresistibile.

Ecco un assaggio musicale e visivo di quello che troverete in My Fair Lady:

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