Nick Drake

È una tarda mattinata di un giorno come oggi, un 25 novembre.

Dai vetri opachi della vecchia finestra entra un timido raggio di sole nella stanza. Si posa sulla copertina stropicciata di un vecchio libro adagiato su un comodino: Il mito di Sisifo, è il titolo scritto sopra, sotto il nome dell’autore, Albert Camus.

Un giradischi dilata nell’aria stantia gli archi del quinto movimento dei Concerti brandeburghesi di Bach.

C’è qualcos’altro accanto a quel libro, ma il raggio di sole sembra aver paura di penetrare oltre. Si intuisce qualcosa, sagome perlopiù, ombre che danno l’impressione di pasticche sparse e di un letto sfatto sopra il quale è sdraiato il lungo, sottile corpo di un uomo. Come dormisse.

Il Concerto di Bach si conclude, lasciando nell’aria soltanto il fruscio del disco che continua a girare inutilmente, a vuoto.

Nixk Drake in una foto degli anni ’70 – Credits – web

NIck Drake e la scena folk sperimentale britannica

C’è una scena musicale inglese splendida e dimenticata. Quella del folk sperimentale tra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei ’70: raffinati musicisti britannici che esplorano le radici della propria tradizione, canti e canzoni popolari di epoche trascorse lontane, ma non abbastanza da non poterle far riemergere in una chiave nuova, sperimentale. Sonorità affascinanti che giocano su cori e archi, accordi bucolici ma mai provinciali, come la stessa cultura inglese, da sempre protesa oltre il mare che la contiene.

Qualcuno ha immaginato romanticamente che, proprio in quegli anni, una nota fu capace di vibrare da una parte all’altra dell’oceano. E dal lato britannico di quel mare, quella nota l’hanno ricevuta e rimandata indietro, come un’eco che ha rimbalzato sui loro strumenti, band come i Fairport Convention o artisti come Nick Drake.

Nick Drake, un musicista geniale, un polistrumentista che predilige arpeggiare sulla propria chitarra classica e far danzare la bacchetta sulle corde del violoncello. Ha una voce quieta, una voce che sembra sorridere anche se non si vede la piega delle labbra dalle quali proviene. E la musica prodotta dalla sua mente ha una sensibilità umile e preziosa, capace di scavare dentro la tradizione inglese accarezzandone atmosfere e sensazioni, facendo riemergere suoni antichi in forme moderne, come un raggio di sole dirada una fitta nebbia.

Un raggio di sole timido, come quello che penetra la stanza in quella e questa mattina di Novembre. Timido e insicuro, alto ma debole, allampanato e impacciato, come lo stesso Nick.

Nicl Drake – credits: web

Five Leaves Left, il primo album

Se fosse una fiaba, quella timidezza svanirebbe ogni volta che imbraccia la chitarra o che apre la voce in un canto. Ma non è così: questa, purtroppo, è una storia vera.

Talmente vera che la sua insicurezza lo porta già nel ’67, a soli diciannove anni, a giocarsi il tutto per tutto con il primo album: Five Leaves Left. D’altronde, Nick non ha lasciato niente al caso, ha creato il disco che voleva creare, senza rimpianti. Concentra i suoi sforzi compositivi su brani solari e intensi, costruendo un sistema musicale perfetto e armonioso tra il lirismo della sua voce e l’orchestra. Raccoglie il folk tradizionale e ne fa una sperimentazione cosciente e matura, scegliendo come produttore Joe Boyd, re della musica psichedelica, uno che ha già lavorato con i Pink Floyd e i Soft Machine.

Niente, davvero niente viene lasciato da Nick al caso. Almeno sul piano compositivo. Perché, purtroppo allora c’è qualcos’altro di decisivo: i concerti. Sono gli anni ’60 e un album non si ascolta su YouTube, né su Spotify. Sono gli anni ’60 e il solo modo per vendere dischi è convincere le radio a trasmettere la tua musica, anche solo un paio di volte, per portare gente ai tuoi concerti e lì renderti indimenticabile.

Ma Nick non è una rock star. Tutt’altro: sul palco la voce non esce, si blocca in gola di fronte a centinaia di volti attoniti e sconosciuti che lo stanno giudicando, che gli gridano di alzare il volume, e più gridano più le mani sulle corde della chitarra sudano e scivolano pizzicando corde che non dovrebbero, mentre i componenti della band aspettano insofferenti, e alcuni, prima che la vista si annebbi, sembrano deriderlo.

È un incubo dal quale non c’è risveglio. Perché quando Nick riapre gli occhi, il palco non c’è più, ma non ci sono neppure le vendite del disco. E allora richiude gli occhi e lascia che l’insicurezza diventi depressione.

Nick Drake nel periodo del suo secondo album

Bryter Layter, il secondo album

Ma Nick Drake è un artista geniale. E in molti lo hanno capito: da altri grandi artisti come lui che lo stimolano a continuare, alla Island Records, la casa discografica che ha creduto in lui mettendolo sotto contratto.

Per questo riprende a comporre e nel 1970 si gioca l’ennesima carta, forse l’ultima, dice a se stesso: esce Brytes Layter. Un album vitale e delicato nel quale Nick s’impegna a scrivere pezzi ancora più solari dei precedenti, di una bellezza limpida, come Hazey Jane, Northern Sky, o il piccolo indescrivibile gioiello che è Fly.

Ma non c’è bellezza che riesca a governare da sola il mercato, e Bryter Layter non riesce a vendere più di mille copie. È un periodo strano in cui regna quello che oggi sarebbe un paradosso: più la musica è complicata, intricata, sperimentale, più vende. Sono gli anni in cui il Regno Unito inizia a generare i campioni del progressive rock, un genere che cerca di rileggere il rock con più di un orecchio alla musica classica, facendo cambiare indirizzo a band già sacre come i Pink Floyd o i Jetro Tull e dando successo ad altre, come Gentle Giant, Genesis, Emerson Lake & Palmer, King Crimson.

In questo panorama di sperimentazioni sempre più complesse, il folk britannico appare qualcosa di reattivo e fine a se stesso, anche nella sua sperimentazione.

Nick Drake  - credit: web
Nick Drake – credit: web

Pink Moon, il terzo album

Di fronte al secondo fallimento, Nick si chiude sempre piu in se stesso. Alza un muro tra sé e il resto del mondo che annichilisce lentamente tutta la vitalità che si respira nella sua musica. Torna nella casa di famiglia, chiuso nella sua camera a leggere e ascoltare musica: torna nella sua infanzia passiva di lettore e ascoltatore.

Di fronte a una simile delusione, alcuni di noi vorrebbero gridare di rabbia, altri abbandonarsi a un pianto inconsolabile. Ma prima di essere uomo, Nick Drake è un artista: incide un ultimo straziante e sommesso sospiro e lo intitola Pink Moon.

Un disco profondamente intimo, senza archi né orchestre, senza grida, senza pianti. Solo la sua chitarra e la sua voce, nuda, che a tratti sembra perdere la propria purezza tremando sui toni più bassi, come se le sue labbra cercassero ancora di piegarsi in un sorriso senza riuscire a non bagnarsi con le lacrime.

Pink Moon ha il magnetismo disperato che può possedere soltanto un giro di chitarra armonico nel quale un accordo stona inaspettato ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore che, sordo, non riesce a capirlo.

I tre album che lascia Nick Drake non sono soltanto tre inestimabili gioielli musicali. Sono tre passi determinanti percorsi da un uomo nella sua fragile vita. Racchiudono la splendida tragedia di un sorriso che vorrebbe reagire all’insicurezza, che si sforza di resistere alla sofferenza e che, infine, cede all’insensatezza dell’esistenza.

Voi che potete

Voi che potete, svegliate quell’uomo, fatelo alzare dal proprio letto e spalancata la finestra a far penetrare con tutta la sua timidezza quel raggio di sole dentro la stanza.

Voi che potete, affacciatevi e respirate l’aria fresca di questa mattina di novembre.

Voi che potete, raccogliete le pillole e aprite il libro sul comodino: vi leggerete che la chiave per sopravvivere all’insensatezza della vita è un sorriso beffardo di autoironia.

Sollevate la puntina del giradischi e rimettete da capo Bach. Voi che potete.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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