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Nine Perfect Strangers, Hulu, Prime Video

Nine Perfect Strangers è la miniserie televisiva alla quale abbiamo provato ad appassionarci senza risultati soddisfacenti. Prometteva male già dalle prime tre puntate, eppure un pochino ci abbiamo creduto, per arrivare all’ottava conclusiva, spossati e annoiati.

Ma come può una serie con un cast del genere e un soggetto così intrigante (adattamento del romanzo omonimo del 2018 scritto da Liane Moriarty) deludere qualsiasi aspettativa?

La ricetta dell’insuccesso

Basta poco per non crederci, ed è ciò che porta un prodotto come Nine Perfect Strangers a cadere nel baratro delle serie TV dimenticabili. Dal primo passo che, da spettatrice, faccio per entrare nella struttura Tranquillum, stento a credere ad un puzzle di personaggi e storie che ha bordi difettosi e affettati grossolanamente.

A partire dalla direttrice della spa di lusso: Masha Dmitrichenko, una gelida ed eterea Nicole Kidman con macchiettistico accento russo. Vestita da candida figlia dei fiori conduce gli ospiti del suo resort in un percorso di sofferenza e consapevolezza (ad altissimo costo, economico ed emotivo).

Come prolungamento attivo in campo diegetico, la santona Masha tenta di orchestrare le azioni di tutti i personaggi, ma la situazione le sfugge di mano (anche a livello narrativo). E, mentre la sua storia passata rimane nebulosa e contraddittoria, io continuo a non crederle neanche per un istante.

La fallimentare costruzione di una “leader” così poco credibile (e a tratti ridicola) influisce senza pietà su tutto il resto. Inevitabile conseguenza di una scrittura confusionaria, che si riflette sul resto dei personaggi. Non tutti inoltre hanno lo stesso peso o simile accuratezza, e le loro storie avrebbero bisogno di una revisione per interagire in quello che dovrebbe essere un racconto corale.

Il cast che prova a fare la differenza

La premessa è che attraverso la purificazione spirituale, nove sconosciuti paganti ma accuratamente selezionati per ritrovarsi insieme, possano intraprendere una nuova vita al di fuori del resort. Sono la scrittrice di romanzi rosa Frances (Melissa McCarthy), l’ex giocatore di football Tony (Bobby Cannavale), la famiglia Marconi, reduce da un lutto (il capofamiglia Napoleon è Michael Shannon), la coppia in crisi formata da Jessica e Ben e infine Lars (Luke Evans), il giornalista in cerca di una notizia e Carmel, una donna tradita alla ricerca di vendetta.

Un bel gruppetto pronto ad esplodere, controllato passo passo da uno staff già problematico di per sé (a questo proposito dopo otto puntate devo ancora capire la psicologia vacillante di Yao e Delilah).

Si può dire che gli unici momenti emozionanti della miniserie creata da David E. Kelley e John Henry Butterworth derivino dall’interpretazione degli attori. Eppure, nonostante ognuno di loro si cimenti con forte intensità nel proprio ruolo, non basta a creare coesione narrativa. Nine Perfect Strangers è un prodotto bucherellato e se ci si guarda attraverso purtroppo non si scorge nulla di interessante. Ogni attore conduce verso un acme destinato a rimanere isolato, come un piacevole exploit tra un passaggio e l’altro.

Deriva psichedelica e sovrannaturale (non leggete se volete evitare spoiler)

La verità più recondita è quella che avrei voluto assaporare invece di rimanere delusa da un epilogo insoddisfacente. Tranquillum House è un pretesto per sperimentare su ospiti ignari droghe e allucinogeni, tutto per avere un dialogo con i propri cari morti. La stessa Masha vorrebbe riabbracciare sua figlia, come la famiglia Marconi che ha perso il figlio suicida. Per questo droga il cibo degli ospiti. Tutto qui? Sì, tutto qui.

Arrivare fino in fondo è una prova di coraggio, ma non per le vittime di una manipolatrice con evidenti manie di onnipotenza, bensì per lo spettatore convinto che possa migliorare.

Vale la pena vederlo sono per Michael Shannon che canta in mutande, la voce roca di Bobby Cannavale e il talento di Melissa McCarthy (avete capito chi è il mio personaggio preferito).

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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