Frances McDormand in Nomadland. Credits: Searchlight Pictures, 20th Century Fox Studios.

Su Disney+ (e nelle sale che hanno riaperto) c’è Nomadland, il grande vincitore di questa stagione cinematografica strana e (molto) travagliata, dal Leone d’oro veneziano ai recentissimi Oscar (al film, alla regia di Chloé Zhao, alla performance di Frances McDormand), passando per i Golden Globe. Chissà quanti ora, incuriositi dall’incetta di premi, percorreranno da casa o al cinema questo spaccato on the road sulla realtà dei nuovi nomadi d’America. E ne resteranno spiazzati, o addirittura perplessi e contrariati, con le inevitabili (e invero già avviate) discussioni su quanto i riconoscimenti siano stati meritati.

Ma, almeno per una volta, prima ancora di valutare, sarebbe opportuno aprirsi a questo viaggio, errare (nella meravigliosa ambivalenza del termine) con l’umanità che ci mostra. Senza rinunciare al proprio bagaglio ideologico, culturale, esperienziale, e però avendo il coraggio di metterlo in movimento, portandolo con sé come la protagonista Fern (McDormand) si porta dietro l’anello che la lega al defunto marito e i ricordi di una città, di un mondo, di una vita che non c’è più. Prendere ciò che si ha, ciò che si è, e iniziare un cammino nuovo, doloroso e necessario, orfano e rigenerativo. Perché per capire Nomadland bisogna anzitutto viverlo.

Fern e l’altra America

Frances McDormand in Nomadland. Credits: Searchlight Pictures, 20th Century Fox Studios.

È emblematico che l’America odierna, tutt’altro che riavutasi dallo shock del trumpismo, a sua volta frutto perverso di un sistema socio-economico in declino e da ripensare, abbia trovato la sintesi dei suoi (som)movimenti recenti in Nomadland. È una storia, a modo suo, profondamente “americana” quella che la regista, sceneggiatrice e montatrice Zhao, insieme alla co-produttrice e protagonista McDormand, ha tratto dal libro-inchiesta di Jessica Bruder. Sono definiti (anche esplicitamente, nel film) i «nuovi pionieri», questi figli di una Statua della Libertà minore che vivono nei camper con cui si spostano tra un luogo e l’altro.

L’inglese, non a caso, ci aiuta meglio a entrare in questa condizione, con la distinzione tra home e house, quindi tra homeless e houseless (traducibili rispettivamente in “senza tetto” e “senza casa”). L’una cosa non implica l’altra, come specifica la protagonista, che si definisce appunto “houseless“. Ed è la “casa” rassicurante di un’America che non c’è più (e forse non c’è mai stata) ad essere venuta meno per i (veri o verosimili) nomadi del film.

Ovvero, coloro che «hanno dovuto mettersi in cammino», come recita la dedica finale. Più che di inverare il mito della libera scelta e il diritto alla ricerca della felicità, si tratta di ritrovare un senso e una spinta dai frammenti di esistenze rotte. Come quella di Fern, appunto, che ha perso il lavoro e lascia una città, Empire nel Nevada, un tempo fondata sull’industria del cartongesso e poi rovinata dalla crisi economica post-2008 (dunque, dalle criticità strutturali dell’economia stessa).

Dà corpo e voce al personaggio una Frances McDormand che modula il suo straordinario talento su note diverse e complementari rispetto a quelle della Mildred di Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la rabbia della madre in cerca di verità e giustizia fa posto alla sofferta, rappresa malinconia di una donna costantemente in cammino e in pellegrinaggio tra una stazione-occupazione e l’altra, col bagaglio ogni volta un po’ più pesante di ricordi, decisioni, emozioni che spuntano sommessamente dalla linea di un sorriso o dalla profondità di uno sguardo.

Una frontiera per ritrovarsi

Frances McDormand in Nomadland. Credits: Searchlight Pictures, 20th Century Fox Studios.

Attorno alla protagonista, uomini e donne spesso non giovani, nuovi poveri segnati da lutti e malattie con cui fare i conti. Ma anche stufi, come dice il nomade Bob Wells (se stesso), della «tirannia del dollaro» (e infatti preferiscono ricorrere al baratto). Un’altra possibile frontiera, allora, la disegnano questi neo-nomadi con il loro cammino, col loro ritrovarsi ogni volta «per la strada», aiutandosi a vicenda, riscoprendosi comunità intorno a un fuoco. Non è già un’alternativa al sistema in deperimento, certo. Anzi, la contraddizione è evidente e rispecchiata dal film, che non segue (purtroppo) il libro sulla via di una denuncia netta dello sfruttamento del lavoro da parte di multinazionali come Amazon.

Malgrado ciò la via di di Nomadland resta irriducibilmente altra da quella di un capitalismo alienante e pericolosamente senza controllo. È la via di un’America desiderosa di ritrovarsi nel rapporto con una natura e una spiritualità che la determinano e possono farla (ancora una volta) uscire da se stessa, dai suoi demoni e dai suoi fatali paradossi. Una spiritualità che è movimento verso un altrove e un altro al di là (persino) della morte. E una natura contemplata, anche cinematograficamente, come la vera meraviglia dell’immaginario collettivo, tra arcipelaghi di rocce desertiche e indomabili distese marittime.

Il cinema indipendente e d’autrice di Zhao

E infatti il film di Zhao, e il suo successo, è anche e soprattutto un (bel) segnale per una visione d’autore, anzi d’autrice, che supera non solo gli steccati rigidi tra culture, ma pure quelli tra generi e modi di intendere il cinema. Come nei precedenti lungometraggi della regista, Songs My Brother Taught Me e The Rider, attrici e attori sono gli esponenti delle stesse comunità al centro del racconto, in un corto circuito tra finzione e documentario, indagine sociale e (re)interpretazione lirica. Dove il cinema (non solo) hollywoodiano recupera la sua (oggi spesso latitante) vocazione a stupire rimettendosi in discussione come “Fabbrica dei Sogni”.

Andando a cercare, da svegli e per strade perdute, un altro sogno in cui immergersi: un sogno molto concreto e molto figlio della Storia che non è finita e di un mondo che sta cambiando. Il sogno di una realtà da (ri)scoprire, contemplare, con cui interagire per farsene cambiare. Soprattutto, da percorrere. Sperando che ci porti davvero (e finalmente) altrove.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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