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La grande bellezza. Eterna inadeguatezza e imbarazzo dello stare al mondo 

La grande bellezza

La grande bellezza di Paolo Sorrentino (vincitore del Premio Oscar al miglior film straniero, quando ancora si chiamava così nel 2014), è uno dei suoi lungometraggi più acclamati e criticati allo stesso tempo. 

Un film che mette al centro della narrazione il protagonista, scrittore, Jep Gambardella (Toni Servillo) ed il suo continuo disincanto nei confronti di tutto ciò che lo circonda.

Opera ermetica, che ha fatto di questa sua peculiarità la chiave di volta di questo immenso lavoro.

Ha destato non pochi turbamenti riuscendo a destabilizzare sapientemente il lato più torbido e profondo di molte coscienze.

Definirlo un’apologia di Roma suona errato e soprattutto riduttivo. La capitale c’è ed è presente in modo quasi irriverente in tutto il suo splendore ed imponente maestosità, ma la sua bellezza viene usata da Sorrentino, quasi come scudo di protezione dinnanzi allo squallore delle persone, la fauna, che la città è costretta a dover accogliere e a vegliare quotidianamente.

Roma è molto peggiorata. 

In maniera verticale!

Un mondo fatto di nefandezze, false certezze e convinzioni inesistenti, che conducono tutte al ribrezzo dell’uomo miserabile e alla fatica del dover stare al mondo. 

Il decadentismo della “realtà scadente”

L’idea del cinema, come salvezza dalla realtà scadente, era già fortemente presente nel film che ha portato la statuetta nelle mani del regista, per poi rimettersi al processo di transustanziazione totale, nell’Amarcord sorrentiniano, con: È stata la mano di Dio.

Ed è proprio nella realtà scadente che la grande bellezza inizia a porre le sue fondamenta.

Un’eco felliniana, della formula ASA NISI MASA, trova spazio attraverso una raffinata rielaborazione, con il numero di magia della giraffa, che scompare dinnanzi agli occhi di Jep Gambardella, incalzando, ancora una volta, su quanto l’esistenza sia solo un trucco, un’illusione, quel gioco di prestigio, che è in grado di salvare dall’inesauribile imbarazzo e dall’inadeguatezza del saper vivere.

È solo un trucco. Sì, è solo un trucco.

Il gioco di contrasti tra le statue di marmo freddo e la ricorrente fluidità dei corpi nudi, rispecchia in modo sublime l’artefatta perfezione dell’esteriorità, educata a celare il disagio interiore dell’essere umano e il costante ed opprimente senso di ansia, che tormenta donne e uomini nel non riuscire mai a sentirsi adatti a nulla.

Jep: “Non sono più adatto a questa vita, a questa città”.
Dadina: “Nessuno è adatto ad un cazzo, Jep”.

Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza

«Finisce sempre così, con la morte, prima però c’è stata la vita». Nel monologo finale dello “scrittore dallo scatto breve”, è racchiusa l’essenza dell’intera opera. C’è la morte, ma c’è anche la vita. Quel palcoscenico della sopravvivenza dove non rimane altro che prendersi un po’ in giro, e far scorrere il tempo cercando di comprendere chi si è veramente e qual è l’esatto ruolo da ricoprire.

Chi sono io? e nel romanzo di Breton non c’è risposta. E nemmeno per nessuno di noi.

Ma nello scenario decadentista di Sorrentino, la speranza di una serenità temporanea esiste e si palesa nello sparuto ed incostante sprazzo di bellezza e nell’immaginazione percepibile dagli occhi di una Madame Ardant, sognante di essere realmente l’irresistibile femme d’à côté, o dal sorriso appena accennato di Jep Gambardella, che rievoca spudoratamente quello malinconico di Marcello Mastroianni nel gran finale della Dolce Vita.

Che cos’è una vibrazione? La rincorsa verso la società stereotipata

La grande bellezza si offre come specchio della società contemporanea, in cui lo stereotipo ed il luogo comune fanno da padroni.

Dove chirurghi plastici assumono le vesti di santoni e i cardinali decantano doti culinarie, ponendo in secondo piano la loro reale vocazione, ormai dimenticata.

Un contesto odierno nel quale, se non sei al contempo «madre e donna», non hai diritto di aver alcun tipo di salvacondotto e dignità. E dove millantatori dai poteri extra sensoriali immaginari, dando testate al muro, si ergono sul piedistallo degli artisti avanguardisti ed incompresi.

«Che cos’ è una vibrazione?». Ma l’artista, al giorno d’oggi, è colui che ha il diritto di poter rispondere con inetta fermezza: «Non lo so che cos’è una vibrazione».

La verità è che tutto questo chiacchiericcio, non rappresenta altro che fuffa impubblicabile; è il niente sedimentato sotto il bla bla bla

La Santa. Le radici. E l’eterno ritorno del «Non ti disunire»

Nel caotico vortice della mondanità dello scrittore tormentato e costantemente alla ricerca della grande bellezza, irrompe “La Santa” (Giusi Merli).

 Personaggio incantevolmente decentrato, al di fuori dei paradigmi imposti, che esorta a non separarsi mai dalle radici, «perché le radici sono importanti», di non affannarsi a diventare ciò che non si è, e di rimanere sempre fermi ai propri valori senza disperdersi, e disunirsi. 

«Non ti disunire», inciterebbe l’Antonio Capuano dell’ultimo film del regista.

Ed è proprio dalle sue origini, da uno dei ricordi più reconditi e remoti della sua giovinezza, che Jep Gambardella trova nuovamente l’ispirazione per scrivere il nuovo romanzo. Dal ricordo di quella notte al faro, dove tutto, per lui, era ancora di rara ed incontaminata bellezza, e grazie al quale, riesce a dar vita a nuove prime parole.

Altrove c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio.

Trieste Film Festival in Tour: il festival nei cinema italiani

Trieste Film Festival in Tour torna nelle sale con un’edizione “eccezionalmente” biennale: da marzo nelle sale italiane una selezione dalla 32esima e 33esima edizione del Festival.

Trieste Film Festival in Tour, l’iniziativa ideata dal Trieste Film Festival in collaborazione con Lo Scrittoio, torna nelle sale dopo un anno di assenza a causa dell’emergenza sanitaria. I titoli selezionati nel 2021 si affiancano così a quelli scelti nell’edizione 2022, contribuendo a creare un programma molto ricco e diversificato, reso quest’anno ancora più imperdibile dal ritorno a grande richiesta del film Donbass di Sergei Loznitsa, già parte dell’edizione 2019 del Tour e oggi inserito nuovamente in programma grazie alla preziosa collaborazione con il suo distributore italiano I Wonder Pictures. Il programma comprende come sempre opere molto differenti tra loro anche per permettere alle sale una scelta più aderente alle caratteristiche e ai gusti del proprio pubblico.

Le tematiche

Un elemento che certamente accomuna tutte le opere proposte è comunque la capacità di raccontare un presente tumultuoso e complesso caratterizzato da forti inquietudini personali e sociali. Un presente in cui le insicurezze e le paure prodotte da guerre e difficoltà economiche sono alla base di movimenti migratori dalle periferie più povere e tormentate del pianeta, un presente fatto purtroppo di conflitti e guerre che il cinema ha la capacità, ma soprattutto il dovere di raccontare.

Anche per questo la direzione del Trieste Film Festival e Lo Scrittoio hanno ritenuto fondamentale, in un frangente come quello che stiamo vivendo, riproporre il film Donbass di Sergei Loznitsa, vincitore del Premio alla miglior regia nella sezione Un Certain Regard di Cannes, ritenuto opera d’autore imprescindibile per farci capire almeno in parte quanto si sta verificando proprio in questi giorni nel cuore dell’Europa.

Sempre focalizzato sulla polveriera del Donbass anche il documentario italiano Divided Ukraine: What Language Do You Express Love In? di Federico Schiavi e Christine Reinhold, che dà voce alle vite e alle storie di uomini e donne di una regione che vive dal 2014 in un contesto di guerra civile, sfociata nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina.

Tutti i titoli

Donbass di Sergei Loznitsa

Andromeda Galaxy diMore Raça

As Far As I Can Walk di Stefan Arsenijević

Darkling di Dušan Milić

Divided Ukraine: What Language Do You Express Love In? di Federico Schiavi e Christine Reinhold

Fear di Ivaylo Hristov,I Never Cry di Piotr Domalewski

Sisterhood di Dina Duma

Wet Sand di Elene Naveriani

Wild Roses di Anna Jadowska

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FRAMED ACADEMY 2022: le regie migliori secondo noi

FRAMED ACADEMY 2022: le migliori regie secondo noi
FRAMED ACADEMY 2022: le migliori regie secondo noi

Anche quest’anno FRAMED fa le previsioni per gli imminenti Oscar! Per tre settimane, fino al giorno della premiazione ufficiale (nella notte tra il 27 e il 28 marzo), condivideremo le nostre preferenze in alcune delle categorie più importanti.

A questo link trovate già l’articolo sulle migliori interpretazioni secondo la Redazione, ma questa settimana dedichiamo la rubrica FRAMED ACADEMY alle regie: cinque registi in gara per cinque film molto diversi tra loro. Chi meriterebbe la statuetta secondo voi? Noi abbiamo fatto qualche previsione:

West Side Story – Steven Spielberg

Mai avrei pensato che per questo 2022 la mia scelta sarebbe ricaduta su Spielberg. Ma è impossibile non consegnare la mia statuetta ideale a questa regia così sublime e dinamica che, come una danza forsennata, trascina lo sguardo nella turbolenta storia d’amore dei due giovani sfortunati. La macchina da presa è costantemente viva e quasi invadente: mostra il visibile ma cerca di lasciar trasparire anche la fragilità sommessa dei sentimenti meno evidenti. La narrazione si adagia attraverso le canzoni in un limbo movimentato destinato alla tragedia, una tragedia di cui facciamo esperienza sin nei minimi dettagli, soffrendo e danzando con i personaggi, lasciandoci totalmente andare al ritmo che Spielberg ha costruito per noi.

di Silvia Pezzopane

Coniugando la sua indiscussa abilità professionale alle possibilità virtuosistiche del musical in quanto genere cinematografico, Spielberg ci regala uno spettacolo di dinamismo dalla rara maestosità e intimità. Tra panoramiche e carrelli che, da vedute d’insieme che ci danno la misura della grandiosità delle coreografie, si immergono nel vivo dell’azione, a rivelarci dettagli, espressioni e gesti che rendono vivi i personaggi, Spielberg ci racconta con una naturalezza che è in qualche modo riuscita a sorprenderci una vecchia storia di cui è stato in grado di mettere in rilievo la (ahimè) sempiterna attualità.

di Alessandra Vignocchi

FRAMED ACADEMY west-side-story
FRAMED ACADEMY. West Side Story (Steven Spielberg, 2021) – Credits Walts Disney Studios Motion Pictures

Il potere del cane – Jane Campion

Non è solo per la pioggia di premi già vinti da Jane Campion, a partire dal Leone d’argento dello scorso settembre: la regia di Il potere del cane è davvero una delle più impressionanti dell’anno. È l’incontro fra lo spazio sconfinato della Frontiera – e di tutto l’immaginario che porta con sé – e lo scavo in profondità proprio del cinema d’autore. È il desiderio ardente e represso che si fa immagine viva e pulsante, tanto nel corpo di Benedict Cumberbatch quanto nel lento indugiare della macchina da presa tra il micro e il macro, tra gli interni opprimenti e le praterie sconfinate.

di Valeria Verbaro

FRAMED ACADEMY
FRAMED ACADEMY. The Power of the Dog, Lucky Red, Netflix.

Licorice Pizza – Paul Thomas Anderson

Una storia piccola, senza divi protagonisti, ostentatamente leggera: e che, per questo, conferma ed esalta tanto più lo straordinario talento di Paul Thomas Anderson nella messa in scena. Nell’inquadrare, accostare, allontanare, far sfiorare e correre i suoi personaggi. Tra le tonalità di una bolla di vitalissima nostalgia, tra rappresentazioni (di rappresentazioni) a un passo dalla sospensione onirica e dal grottesco, la regia disegna nei dettagli la verità tenera e malinconica di corpi e anime che si attraggono e si respingono. E conferma la forza di uno sguardo che si mette, ancora una volta, in discussione. Sarebbe ora che l’Academy gli tributasse il meritato riconoscimento.

di Emanuele Bucci

LICORICE PIZZA. Eagle Pictures
FRAMED ACADEMY. LICORICE PIZZA. Eagle Pictures

Drive My Car – Ryūsuke Hamaguchi

Ryūsuke Hamaguchi offre un’elegante riflessione sull’arte del teatro, definendolo uno strumento meraviglioso di rielaborazione delle emozioni. Una narrazione metateatrale, in cui i sentimenti “messi in scena” si confondono con quelli effettivamente provati. Le tre ore di lungometraggio sono risolutive e necessarie per comprendere l’intero viaggio fisico ed interiore di Kafuku, e la quasi totale assenza di musica, che subentra con i titoli di testa, solo dopo 40 minuti dall’inizio del film, è mirata nel voler rievocare i nobili silenzi, che si consumano attraverso momenti di temporanea leggerezza. I dialoghi sono brevi, essenziali, laconici, avvolgenti. E chilometro dopo chilometro, il film (e il viaggio) si conclude con la rassegnazione di un’esistenza, che alle volte, risulta essere migliore, quando viene recitata piuttosto che vissuta.

di Annamaria Martinisi

FRAMED ACADEMY Drive My Car, regia Hamaguchi
FRAMED ACADEMY. Drive My Car (Doraibu mai kā), Tucker Film, Far East Film Festival.

Belfast – Kenneth Branagh

Kenneth Branagh è probabilmente e senza esagerazione alcuna, uno dei migliori registi viventi. E il suo ultimo film, Belfast, ne è la dimostrazione. Superbamente fotografato in bianco e nero, il film racconta i conflitti religiosi dell’Irlanda attraverso le sguardo innocente di un bambino. La storia è raccontata con la profonda partecipazione di un uomo che ha vissuto gli eventi narrati, che scorrono davanti agli occhi di un pubblico incantato. Attraverso una regia monumentale, Branagh riesce a mostrare la sua commozione e l’affetto per la terra natale. Belfast è un film che merita tutta l’attenzione possibile. E oltre a un cast in stato di grazia, la regia è proprio uno dei suoi punti di forza.

di Giulia Losi

Con Belfast, ultimo lavoro del regista irlandese, Kenneth Branagh dona una regia schematica ma introspettiva e intima, che si rifà alla sua personale visione della Belfast di fine anni ’60 dove lui stesso ha vissuto. Con una precisione sullo stile registico molto simile a quello di Wes Anderson, Belfast è rappresentata in bianco e nero come a voler rappresentare qualcosa di usurato e vecchio nel tempo. Branagh guarda all’indietro, ricordando la sua infanzia e costruendo un omaggio sentito e sincero alla città e alle persone da cui è stato cresciuto.

di Rebecca Fulgosi

Belfast, Kenneth Branagh
FRAMED ACADEMY. Caitriona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench, Jude Hill e Lewis McAskie in BELFAST. A Focus Features release. Credit : Rob Youngson / Focus Features

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Sorry to Bother You | Il folle film di Boots Riley

Sorry to Bother You

Dopo aver partecipato al Sundance nel 2018 Sorry to Bother You è sparito dai radar, ma arriva finalmente in Italia grazie a Netflix. Tenetevi forte, perché è un film davvero folle!

La trama

A Oakland, in un presente distopico, Cassius Cash Green (Lakeith Stanfield) vive perennemente al verde insieme alla compagna e artista Detroit (Tessa Thompson). Dopo aver trovato impiego presso una società di promozione telefonica, trova il modo di scalare la vetta dell’azienda per poi accorgersi di essere coinvolto in affari loschi e disumani. Tentato dal denaro, accetta egoisticamente la situazione fino a quando si accorge dell’assurdità, letterale e non solo etica, delle conseguenze del suo lavoro.

L’idea e il contesto

L’idea e la sceneggiatura di Sorry to Bother You risalgono al 2012 e sono complementari all’omonimo album dei The Coup, di cui Riley è anche frontman. Lo spirito che anima il debutto cinematografico del rapper è quindi lo stesso della sua musica: sociale, politico, dichiaratamente socialista e rivoluzionario. Pur essendo stato realizzato sei anni dopo, non fa riferimento alla sua contemporaneità, ossia all’amministrazione Trump. Si focalizza invece sulla critica del sistema economico neocapitalista degli Stati Uniti. Dal 2012 al 2018 un fattore di diversità determinante è però il mutamento della sensibilità del pubblico e quindi il maggiore interesse a produrre un’opera del genere. In particolare, non sarebbe stata possibile prima del successo di Scappa – Get Out.

Tessa Thompson in Sorry to Bother You

I temi

In primo luogo, la critica all’assetto capitalista della società è costruita attraverso un protagonista, Cassius Green, suo malgrado fagocitato dal ciclo continuo e alienante della produttività e del guadagno. Il denaro diventa la sua ossessione, o meglio il suo unico metro di giudizio e di valutazione della realtà. Per denaro Green è disposto a voltare le spalle ai colleghi in sciopero, a perdere la stima della compagna e persino ad accettare un compromesso disumano, vendendo di fatto lavoro schiavile.

L’altro grande riferimento alla contemporaneità statunitense, infatti, è costituito dalla centralità dell’azienda WorryFree, gestita da Steve Lift, un perfetto Armie Hammer che incarna lo stereotipo yuppie del bianco repubblicano. Nel film, la WorryFree è una sorta di comune in cui soprattutto persone poco abbienti si rifugiano per avere vitto e alloggio garantito, in cambio del proprio lavoro non retribuito.

Attraverso la costruzione visiva di questa realtà, in cui tutti indossano la stessa divisa e vivono in piccole celle con letti a castello, è chiaro che Riley fa riferimento al sistema carcerario statunitense e, di conseguenza, all’incarcerazione di massa e allo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti. Ciò che riguarda direttamente il discorso sulle politiche della rappresentazione, tuttavia, è il fatto che l’intero film, e con esso la sua posizione dissidente, sia costruito dal punto di vista afroamericano, che porta con sé anche la caratterizzazione del soggetto afroamericano in un mondo capitalista dominato dal pensiero bianco.

Questo aspetto è sottolineato anche dai uno dei primi elementi di sorpresa del film: la gag della white voice.

La white voice e la critica al razzismo sottile – Da qui SPOILER ALERT!

Per white voice si intende il code-switching a cui sono spesso costretti gli appartenenti a gruppi sociali marginali per inserirsi in ambienti tradizionalmente bianchi, per lo più lavorativi. Il code-switching è appunto la trasformazione del proprio codice linguistico, attraverso l’adozione di un codice più adatto al contesto. Nel caso degli afroamericani consiste nell’adozione di una pronuncia più controllata e nella rinuncia a determinati slang o espressioni jive: in altri termini quella che nel film è definita come “la voce che un nero fa quando viene fermato dalla polizia e non vuole creare problemi”.

In realtà, quindi, più che una rimodulazione linguistica, si tratta di una mutilazione identitaria dettata dai pregiudizi della visione bianca. Basterebbe questa battuta del film per capire lo spirito fortemente critico di Riley, ma il regista si spinge oltre trasformando quella che ormai è diventata una pratica comune in una surreale peculiarità stilistica, ossia il doppiaggio evidente e spesso fuori sincrono da parte di attori bianchi.

Lakeith Stanfield in Sorry to Bother You

La chiara parodia sottolinea la relazione direttamente proporzionale fra l’omologazione alla visione bianca e il successo del soggetto afroamericano, non senza sferzare un duro colpo all’ipocrisia che la determina. A un livello più implicito e sottinteso per tutta la durata del film, inoltre, c’è una significativa riflessione sull’appropriazione del corpo, del mito e della cultura afroamericana da parte del soggetto bianco. Sicuramente è nella seconda metà del film che questo tema emerge con forza, nelle dinamiche relazionali fra Green e Lift e poi nell’introduzione del metaforico Equisapiens.

Gli Equisapiens e l’appropriazione del corpo

I mostri creati da Lift, attraverso l’effetto di una polvere simile a cocaina, non sono altro che proiezioni della perversione bianca sul corpo dei neri. Si tratta, infatti, di bestie umanoidi obbedienti e servili, dotate di una forza impareggiabile e sfruttate per i lavori più pesanti e più degradanti. I loro corpi muscolosi e scolpiti, sono al contempo deformati da sembianze equine, ironicamente anche nella dimensione degli organi sessuali. Anche in questo caso la voce è un elemento fondamentale perché, dal modo in cui gli Equisapiens parlano, è possibile riconoscere un’appartenenza culturale: sono tutti afroamericani e, fra essi, si distingue persino la voce prestata da Forest Whitaker. Secondo il piano di Lift, Cassius dovrebbe diventare il loro falso leader rivoluzionario, in realtà colluso con il sistema corrotto.

L’oggettificazione e il white gaze

C’è una sequenza del film, in particolare, che merita un’apposita analisi riguardo l’appropriazione del corpo. Durante la festa organizzato da Lift/Hammer, il padrone di casa si ritrova circondato da una platea adorante e prevalentemente femminile, mentre racconta un’impresa di caccia contro un rinoceronte, di cui conserva gelosamente il trofeo. Quando Cassius entra nella stanza viene invitato a unirsi alla discussione, posizionandosi di fronte a quella stessa platea, esattamente sotto la testa del rinoceronte.

In quel momento anche lui diventa un trofeo di Lift, anticipando allo spettatore il suo destino e la sua condizione di oggetto dello sguardo e del desiderio di annientamento altrui. Il regista si scaglia contro la mentalità dominante e oppressiva del padrone e lo fa senza scusanti, ridicolizzando tutto il contesto in cui avviene la sequenza, costruita in modo da suggerire allo spettatore l’esposizione del soggetto afroamericano allo sguardo, al potere e al desiderio del soggetto bianco.

Cash prende il posto del rinoceronte: da solo, messo di fronte alla propria condizione di estraneità e differenza rispetto a tutti gli altri diventa il trofeo della festa e della serata. E a questa sequenza metaforica e allusiva segue poi quella sfacciatamente ironica del rap.

In breve

È un attacco durissimo dunque, quello di Boots Riley, alla falsa rappresentazione del soggetto afroamericano e all’appropriazione culturale che spesso si verifica in casi simili, ma soprattutto alla superficialità e all’inconsapevolezza dello sguardo bianco che persiste tutt’oggi negli Stati Uniti.

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Laurence Anyways – Xavier Dolan (2012)

LaurenceAnyways
LaurenceAnyways

Laurence Anyways è una storia d’amore. Laurence Anyways è la narrazione disarmante di un sentimento che trascende dal corpo e dal genere, arrivando dritto all’anima.

Nessun rimpianto, ma la voglia di essere, a tutti i costi. Esistere nel mondo e prendere atto del più profondo io – abiti, musica assordante, sesso e amore sincopato – nulla di più realistico e doloroso. Laurence e Fred nel 1989, Laurence e Fred nel 1999: 10 anni raccontati attraverso la metamorfosi del corpo che tende finalmente alla perfezione ideale, e dell’anima limpida e sincera, devota a quel sentimento unico, a prescindere dal tangibile.

Regolarmente Laurence Anyways si ripresenta nella mia vita quando ne ho più bisogno, la prima visione fu sconvolgente, la pioggia di vestiti e Moderat in sottofondo, poi appesi la locandina a portata di sguardo, per non dimenticare quell’emozione fatta di montaggio da videoclip e rivoluzione del desiderio di sé.

È il terzo lungometraggio di Xavier Dolan, e in Italia viene distribuito solo nel 2016, con ben quattro anni di ritardo. Come una crudele favola contemporanea racconta di due amanti legati da un filo invisibile che li tiene ancorati per tutto il film, in dieci anni di proiezione temporale. Lui, Laurence, vuole liberare la sua natura femminile, lei, Fred, decide di stargli vicino durante la transizione. Ma non tutto è così semplice: gli occhi degli altri sono spie accese che non lasciano respirare.

Cos’è la normalità? Probabilmente l’amore disperato che non cessa di esistere tra i due protagonisti in balia di un mondo incompleto che non fornisce i giusti punti di riferimento. E nulla va come veramente si desidera, perché le dimensioni dell’umano si scontrano tra pulsioni e ragionamenti, portando alla luce solo l’unione di Laurence e Fred, che trascende il resto.

PAUL THOMAS ANDERSON | Tre film dalla sua cinematografia

PAUL THOMAS ANDERSON | Tre consigli dalla sua cinematografia
PAUL THOMAS ANDERSON | Tre consigli dalla sua cinematografia

A distanza di cinque anni da Il filo nascosto (Phantom Thread, 2017), Paul Thomas Anderson ritorna con Licorice Pizza, con un cast che comprende, tra gli altri: Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Bradley Cooper e Tom Waits. Il film, che in poco tempo ha ottenuto il plauso della critica, ha vinto ai Bafta il premio per la miglior sceneggiatura originale.

Attivo come regista di lungometraggi dal 1996 con il film Sydney (Hard Eight), Anderson ha successivamente realizzato altri otto lungometraggi (e un documentario). Dallo stile particolare e facilmente riconoscibile, i temi di cui tratta principalmente sono la solitudine, l’inadeguatezza, il rimpianto, il trauma del passato e le famiglie disfunzionali. Ecco, quindi, tre opere assolutamente da non perdere, direttamente dalla sua filmografia.

1 – BOOGIE NIGHTS – L’ALTRA HOLLYWOOD, 1997

Secondo lungometraggio scritto e diretto dal regista, Boogie Nights racconta le vicende di Jack Horner (Burt Reynolds), affermato regista di pornofilm, che nel 1977 scopre il giovane Eddie Adams (Mark Wahlberg), un cameriere, e, convincendolo a entrare nella sua industria sotto il nome di Dirk Diggler, riscuote da subito un grande successo. Lo sfarzo iniziale tramuta dopo poco in tragedia, e la carriera del giovane Dirk subisce una frenata improvvisa.

Atmosfere ’70, disco music, uso di droghe ed alcool fanno da cornice all’intero discorso narrativo messo in scena da Paul Thomas Anderson. Il risultato è un’opera abile e malinconica che racconta la realtà di una delle industrie cinematografiche che in quegli anni stava affrontando la sua ascesa, seppur in ombra. La sceneggiatura è poliedrica e ha una doppia sfaccettatura; è in grado di passare dall’eccentricità al dramma, dallo sfarzo al declino.

BOOGIE NIGHTS, Cecchi Gori

2 – MAGNOLIA, 1999

Ambientato nella San Fernando Valley in California in una giornata umida e piovosa, il film segue le vicende di un gruppo di persone all’apparenza sconosciute tra loro, accomunate da sentimenti come odio, rimorso e incomprensione, che dovranno fare i conti con chi sono davvero e con i fantasmi del loro passato. Candidato a tre premi Oscar, due Golden Globe e tre SAG Awards, è stato premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2000. Nel cast, tra gli altri, Tom Cruise, Philip Seymour Hoffman, Julianne Moore e John C. Reilly.

Magnolia è un mosaico antropologico e introspettivo in cui il regista stesso non vuole solo raccontare un qualcosa, ma si prefissa l’obiettivo di studiarlo e analizzarlo a fondo. Ciascun personaggio è dotato di una propria e complessa psicologia, e a ognuno è riservato un arco narrativo che si congiungerà con gli altri nell’indimenticabile scena finale, dove tutti i problemi si snodano e sembrano risolversi.

MAGNOLIA, Medusa Film

3 – IL FILO NASCOSTO (Phantom Thread), 2017

Ultimo lavoro prima di Licorice Pizza, Il filo nascosto racconta di Reynolds Woodcook (Daniel Day-Lewis), rinomato stilista britannico del dopoguerra che, insieme a sua sorella Cyril (Lesley Manville), raggiunge l’apice del successo. Ma è con l’incontro con la giovane Alma (Vicky Krieps) che lo stilista scopre l’amore per la prima volta iniziando un rapporto alquanto bizzarro con la ragazza. Candidato a sei Premi Oscar nel 2018, vincendo la statuetta per Migliori Costumi, il lungometraggio segna l’ultima apparizione di Daniel Day-Lewis sulle scene cinematografiche.

Seconda collaborazione tra il regista e Daniel Day-Lewis dopo Il petroliere (2007), il film è una complessa analisi sul ruolo del potere, e di quanta influenza abbia quest’ultimo nella vita di ciascuno di noi. Introspettivo e intimo, il discorso narrativo si concentra questa volta sull’approfondimento di due personaggi e del loro rapporto di coppia, studiandone le dinamiche e quel filo nascosto che ne lega tutta l’evoluzione. Con interpretazioni eccellenti accompagnate da un sonoro soave firmato da Jonny Greenwood, ci troviamo davanti ad un altro imperdibile tassello del cinema di Paul Thomas Anderson.

IL FILO NASCOSTO, Universal Pictures

Qui anche la nostra recensione di Licorice Pizza. Continuate a seguire FRAMED. Siamo anche su InstagramFacebook e Telegram!

I’M OPEN, COME IN – Intervista a Lorenzo Pasini. Dai Pinguini Tattici Nucleari al debutto solista

Material Fields _ Lorenzo Pasini
Courtesy of Conza Press

Per la nostra rubrica dedicata agli incontri con artisti emergenti del panorama musicale italiano, stavolta parliamo con uno che proprio emergente non è: Lorenzo Pasini, chitarrista dei Pinguini Tattici Nucleari, di cui è uscito il nuovo album solista, Material Fields. Ecco alcune essenziali domande per iniziare ad entrare nel suo mondo

Da quanto tempo hai nel cassetto questo progetto solista?

Nemmeno due anni, è tutto piuttosto fresco. Il nuovo materiale ha iniziato a prendere forma durante il primo lockdown e ho ultimato le fasi di mix e master a dicembre.

Il primo singolo estratto da Material Fields, Low Lights, già ci anticipa che l’album che stai preparando è prog e post rock. Ma quanto è veramente distante dai PTN?

Sicuramente il lavoro su Material Fields appartiene a un immaginario diverso, se non altro per la lingua e per il legame più stretto coi generi che hai citato, ma detto questo credo che ci siano anche diversi punti di contatto, il che è ovvio visti gli anni passati nel progetto. Credo sia più una questione di differenza che di effettiva distanza.

Material Fields – CREDITS: Ufficio Stampa Astarte

Pensi che l’indie italiano possa svilupparsi in qualcosa di nuovo, magari proprio
grazie a influenze come le tue, da NIN ai Porcupine Tree o pensi che queste sia meglio lasciarle nei tuoi lavori solisti?

Credo che la contaminazione in musica sia possibile da e verso qualsiasi mondo e visione.
Detesto il purismo in arte e non penso proprio esistano universi antitetici in questo ambito, quindi perché no, anche un indie tinto di Steven Wilson e Trent Reznor potrebbe trovare il suo posto prima o poi. Magari c’è già da qualche parte su Spotify e dobbiamo solo scoprirlo.

C’è qualcosa nell’esperienza dei PTN che ti è stato fondamentale per il tuo lavoro solista? Magari la consapevolezza di certe dinamiche di produzione o di mercato…

Tutto quello che ho fatto con la band mi ha formato, mi ha fatto crescere sia artisticamente che professionalmente, quindi è chiaro che Material Fields non sarebbe assolutamente lo stesso progetto senza l’esperienza nel gruppo. Da un punto di vista di produzione lavorare con Riccardo mi ha insegnato e mi insegna moltissimo, quindi sì da quel punto di vista direi che l’esperienza con lui è stata fondamentale per questo disco.

Qual è il pezzo dei PTN che senti più vicino al tuo lavoro solista?

Ogni pezzo della band rappresenta qualcosa per me, credo sia impossibile sceglierne uno soltanto. Potrei citare Freddie e Bergamo per il picco dinamico nella coda alla fine del brano, che è un elemento strutturale che amo usare, o Cancelleria per il lato più prog, o ancora Antartide per un certo tipo di atmosfera e di spazio nel brano, ma potrei continuare ancora a lungo.

Per ascoltare l’album su Spotify, clicca qui

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Drive My Car | Perché è il vero favorito degli Oscar 2022

Drive My Car

È un invito, è un ordine, è una concessione intima, Drive My Car. È la rinuncia al controllo, la rinuncia al volante per il tempo sospeso e apparentemente infinito dentro l’abitacolo. In realtà sono tre ore quelle di fronte a cui ci mette di fronte il film di Ryusuke Hamaguchi, ma la percezione è quella di un tempo che non esiste, che si piega alla manipolazione del ricordo.

Le quaranta pagine del racconto di Murakami si espandono quanto più possibile, lasciando che negli spazi vuoti dell’azione si infiltri un cinema contemplativo, fatto di evocazioni. Di sensazioni, curve e movimenti. Di silenzi e digressioni del pensiero, proprio come un viaggio in auto.

Uomini senza donne

Il filo conduttore dei 7 racconti di Uomini senza donne di Murakami, di cui Drive My Car fa parte, è l’amore spesso non corrisposto di uomini che, senza le donne, si sentono persi.

È quello che accade al protagonista Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), giovane vedovo che in realtà ha perso il legame con la moglie Oto molto tempo prima. Dell’affetto e del desiderio ricercato da Yusuke rimane solo l’involucro del sesso, della passione che si consuma e che consuma. E che al tempo stesso crea. La figura sfuggente di Oto, che rimane significativamente nuda e in ombra – tanto esposta quanto invisibile – per tutta la stupenda sequenza iniziale, è il fantasma inseguito per l’intero film. È l’assenza, eterna presenza, che turba Yusuke, ritornando fisicamente nella figura dell’amante di lei, Kōji Takatsuki (Masaki Okada).

Takatsuki diventa infatti il protagonista del dramma nel dramma messo in scena da Yusuke in Drive My Car, lo Zio Vanja di Čechov, in un filone metastuale che procede intrecciandosi alle vicende principali.

È improprio, tuttavia, parlare di gerarchie fra i diversi fili che compongono la trama di Drive My Car. Tutto arriva ciclicamente in primo piano, basta saper pazientare. E tutto si incastra pezzo dopo pezzo, alimentando la riflessione sul rimpianto e quasi il fastidio dello stare al mondo, di sopravvivere ai propri cari con un peso sul cuore.

Čechov, la struttura metatestuale e le scelte di regia

È un lavoro raffinato, quello di Ryusuke Hamaguchi. Sottile, sottilissimo, che sfrutta il potere delle stesse immagini che è in grado di creare per comunicare senso, riducendo al minimo i dialoghi. La maggior parte dei testi e delle parole sono quelle recitate dallo Zio Vanja, e nemmeno tutte nella stessa lingua! Nel teatro contemporaneo creato di Hamaguchi, infatti, ogni attore parla la propria lingua e tutti parlano la lingua comune dell’arte, una volta sul palco. Poco importa se nella stessa scena al giapponese corrisponde una risposta in coreano o se a recitare è una donna muta (Yoo-rim Park), che usa il corpo dove non può arrivarle la voce. L’arte crea uno spazio comune in cui queste diversità coesistono, tanto nella finzione scenica quanto sulla superficie dello schermo, davanti a noi spettatori in carne e ossa.

Nella scelta dello Zio Vanja c’è però anche qualcosa in più: la volontà di comunicare a un livello ulteriore la sofferenza e la solitudine del protagonista. E l’unica persona in grado di percepire, accogliere e comprendere questa sofferenza è colei che per gran parte del film rimane in disparte, ma che in realtà detta la strada: Misaki (Tôko Miura), l’autista.

Driver e driven

Yusuke, quest’uomo senza donne, ha sempre avuto la migliore compagna di viaggio accanto. A lei affida, dapprima riluttante, il sedile di guida della sua Saab, che nel film diventa rossa fiammante e non più gialla. Nella sua solitudine si specchia e si perde. Si riconosce e si ridimensiona, scoppiando la bolla che fino a quel momento l’aveva isolato dal mondo. E lo stesso fa lei, riuscendo a far pace con la propria solitudine e il proprio passato alla fine del viaggio con lui.

L’incontro fra i due è essenziale, il rapporto guidatore-guidato lo è ancora di più. È un avvicinamento graduale, ma senza reti di sicurezza, all’universo più intimo – quello dei pensieri e dei ricordi – di un’altra persona. Un salto nel buio, un atto di fede e fiducia reciproca di due anime perse.

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Uomini senza donne – Drive my car

Uomini senza donne

Murakami Haruki può considerarsi un maratoneta olimpico di scrittura. Nel corso degli anni è sempre stato presente nel mondo della letteratura senza mai concedersi lunghe pause tra un’opera e l’altra. L’esatto opposto dello scrittore “dallo scatto breve”, centometrista, affermerebbe il memorabile personaggio Jep Gambardella del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

Uomini senza donne è un romanzo edito da Einaudi incentrato su una forma d’amore poco esplorata, quella maschile. Un territorio occulto difficile da penetrare, soprattutto se la mente “lettrice” è quella tipicamente femminile.

Un libro diviso in 7 racconti, tra i quali Drive my car, storia che dà inizio ad una serie di narrazioni a cascata e sulla quale soffermo la mia attenzione.

Drive my car. Il dialogo del silenzio

Drive my car non rappresenta solo il primo racconto del libro che apre le porte alla realtà dei sentimenti in versione “mascolina”, ma diventa anche ispirazione per l’omonimo film del regista Ryusuke Hamaguchi candidato a quattro premi Oscar, tra cui miglior film e miglior film internazionale.

L’adattamento di tre ore della pellicola, rispetto alle 40 pagine della storia è segno spudorato di quanto Murakami trasmetta il suo messaggio d’amore, più con i silenzi che con le parole.

La trama ruota intorno al dialogo che avviene tra i due unici protagonisti diretti, Kafuku, attore e regista teatrale e Misaki, una ragazza di 25 anni poco attenta al suo aspetto e alla sua immagine, ma molto abile alla guida, requisito essenziale che le ha permesso di ottenere il lavoro come autista al servizio dell’attore, a bordo di una Saab 900 gialla di proprietà di quest’ultimo.

Il viaggio in macchina ed il dialogo che si instaura tra loro, permette la totale manifestazione dello stato d’animo di Kafuku in merito alla moglie scomparsa prematuramente a causa di un male incurabile.

La penna di Murakami appare talmente viva che riesce a far viaggiare sulla Saab 900 anche il lettore, attraverso un percorso non solo fisico, ma soprattutto introspettivo.

Il mondo dei sentimenti maschili

L’ascolto silenzioso e rassicurante dell’autista Misaki è un chiaro invito rivolto all’uomo, che lo porta a rivelarle gli aspetti più bui e tristi del suo legame matrimoniale, includendone i tradimenti reiterati di sua moglie.

Ma l’aspetto fedifrago e libertino della donna è ben lontano da quello che viene mostrato, nelle sempre attuali, Madame Bovary o Anna Karenina. In questo caso, i tradimenti a discapito del protagonista maschile, assumono vesti quasi filantropiche, rimesse alla disarmante compassione e comprensione di lui.

Lo sfogo di Kafuku che ricorre durante tutto il viaggio in auto con Misaki, è analitico, oggettivo, e mai accusatorio. Parlando dei ricordi di sua moglie nelle braccia di un altro uomo, non vi è traccia di colpevolizzazioni ai danni della donna, a tal punto di spingersi fino alla massima vetta della solidarietà, ovvero conoscere uno degli amanti della compagna, riuscendo perfino a provare una paradossale tenerezza nei suoi confronti.

Il filo che separa la solidarietà dalla competizione è molto sottile ed è quello che traccia la distanza tra la passione femminile e quella maschile.

Con Drive my car, lo scrittore dona luce a quel filo che separa i due universi, dove la donna compete, mentre l’uomo è solidale, ed il tutto è dichiarato e confermato dalla forza inarrestabile delle femmine e dalla vulnerabilità ed arrendevolezza dei maschi.

Il ruolo dell’amante, nel racconto giapponese, è finalizzato ad essere una perfetta cartina di tornasole. Un elemento che non priva l’uomo della sua virilità, ma piuttosto gli attribuisce coscienza dei propri errori in proporzione alle virtù dell’altro. Una solidarietà maschile che va oltre l’onore e di cui se ne è parlato sempre molto poco.

Murakami scrive dei sentimenti degli uomini in maniera delicata. Scardina e supera il pragmatismo e la freddezza tipica del presunto ed ormai superato “sesso forte” e li rielabora in concettualismi femminili.

Il metateatro e Zio Vanja

Al termine del racconto e con gli ultimi “botta e risposta”, l’attore si sposta dal sedile posteriore a quello anteriore della Saab 900 gialla accanto a Misaki, segno di massima apertura e confidenza acquisita chilometro dopo chilometro, e che pone la parola “fine” al suo viaggio interiore.

Drive my car è apologia pura del metateatro. 

Più volte viene citato Zio Vanja di Čechov, spettacolo che lo stesso regista teatrale è chiamato a dover interpretare, descrivendone i passaggi e le difficoltà che l’arte del palcoscenico incontra quotidianamente. 

La vita è un grande teatro dove ognuno è chiamato a dover recitare la propria parte nel mondo, con l’unico scopo di resistere e sopravvivere alle sofferenze.

Il disincanto di Zio Vanja trova ampio spazio nelle righe di Drive my car con Kafuku e Misaki.

Misaki: “Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e andare avanti”.
Kafuku: “Allora tutti dobbiamo recitare?”.
Misaki: “Sì, più o meno è così”.

Per lo scrittore, i sentimenti, le passioni, la vita sono nient’altro che un trucco. 

Soltanto un trucco che trova pace ai tormenti esclusivamente con la recita scenica dell’esistenza.

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