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Coincidenze d’amore, un lontano ricordo di Meg Ryan

Coincidenze d'amore (What Happens Later), regia di Meg Ryan
Coincidenze d'amore (What Happens Later), regia di Meg Ryan. Courtesy of Universal Pictures

L’esperienza insegna che niente attiri di più lo spettatore classico delle rom-com che due semplici elementi: il cliché degli ex che si incontrano dopo tanto tempo e la presenza di Meg Ryan.

Date le premesse, dunque, il film Coincidenze d’amore (What Happens Later, in sala dall’11 aprile) dovrebbe avere tutte le carte in regola per essere un nuovo cult del cinema romantico. Inutile dire, però, che non è così.

Coincidenze d’amore, la trama

Bloccati in un aeroporto di qualche cittadina americana non definita, a causa di una tempesta di neve, i due ex fidanzati omonimi W. Davis (Wilhelmina e William, rispettivamente interpretati da Meg Ryan e da David Duchovny) si rincontrano dopo 25 anni. Costretti a passare del tempo (molto tempo) insieme, hanno dunque l’occasione per confrontarsi sul tempo passato, lo stato attuale della propria vita, le occasioni mancate e il grande legame che li ha sempre uniti.

Un archetipo duro a morire e condotto unicamente a due voci (Ryan e Duchovny), se si ignora lo scenario di un aeroporto quasi senziente, un po’ la fata madrina di questi due innamorati uniti dal destino (o come lo si voglia chiamare).

Non la Meg Ryan che ci si aspetta

Basato sulla commedia teatrale Shooting Star (di Steven Dietz), il secondo lavoro registico di Meg Ryan si pone come un attentato al fulgido ricordo da stella delle commedie romantiche che Ryan rappresenta nei cuori di un po’ tutti noi.

Dimenticatevi Harry ti presento Sally e C’è posta per te, dove ogni attimo di visione era un tuffo al cuore o una dolce risata: Meg Ryan nei panni di Willa diventa la caricatura di se stessa, una macchietta new age che gioca a fare il personaggio femminile troppo sopra le righe per essere domato. Uno stereotipo da romanzo rosa che rimane bidimensionale, incapace di animarsi di quella scintilla di umanità e vitalità che tanto ci aveva fatto amare le altre donne di cui aveva vestito i panni in passato (Nora Ephron, ci manchi tanto).

Sembra evidente, infatti, che la grande mancanza di questo film non siano le persone o il grande budget (la carenza di scenografia e comparse non fa che rafforzare la sensazione di “opera teatrale trasposta in film”), ma la povertà di scrittura che c’è alle spalle di questo lavoro, come se lo sceneggiatore fosse stato sostituito da un generatore automatico di stati Facebook (e che non funziona neanche tanto bene).

Il luogo comune sprecato

Se determinati luoghi comuni da rom-com sono diventati tali è perché, evidentemente, funzionano e ognuno di noi potrebbe agevolmente pensare ad almeno 3 o 4 situazioni assolutamente improbabili (se non impossibili) nella vita vera, che però in un film di questo tipo farebbero un po’ sciogliere il cuore.

Nessuno vuole privarci della bellezza di questi momenti, del guilty-pleasure di sognare a occhi aperti, ma, a maggior ragione, è importante anche non prendere in giro il pubblico. Coincidenze d’amore si pone come un film di serie B della programmazione Netflix, che non riesce a generare alcuna emozione, se non una leggera noia e un incentivo alla distrazione. Ogni frase, ogni espediente, ogni sguardo tra i due non solo appare come completamente costruito a tavolino (anzi, ad algoritmo), ma anche completamente monotono e finto, una sequenza di frasette e motti messi insieme per piacere soprattutto ai boomer e, purtroppo, senza una particolare intelligenza. 

In breve

L’occasione di usare un’icona come Meg Ryan e di farle parlare di cosa voglia dire ritrovare la persona amata dopo tanto tempo viene, dunque, completamente sprecata e anche maltrattata, soprattutto in un panorama cinematografico in cui il tema del “What if” sentimentale sta avendo una nuova età dell’oro.

Basti pensare, per esempio, al recente candidato Oscar Past Lives, un gioiellino poetico e dolce che riesce non solo a dare una visione fresca e sottile dell’amore, ma anche usarlo come espediente per parlare di altro, di tutto quello che compone i mondi delle persone innamorate. Qui questo passo non è possibile, come non è possibile neanche credere davvero all’amore che viene tanto professato. Il che è un grande fallimento per tutti.

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Il teorema di Margherita, combattere la dinamica tossica del fallimento

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema
Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), diretto da Anna Novion, è la storia di Marguerite, una brillante studentessa di matematica presso l’École Normale Supérieure di Parigi. Il film è stato presentato al Festival di Cannes 2023 e ha ottenuto due candidature ai César (nonché vinto il premio per la miglior attrice esordiente), e sarà nei cinema italiani dal 28 marzo distribuito da Wanted Cinema.

La trama

Marguerite, interpretata sapientemente da Anna Rumpf, che ha trionfato ai César Awards 2024 come Miglior rivelazione femminile, ha consacrato la sua vita agli studi. Fin da bambina, ha sempre mostrato una passione innata per la matematica, tanto da aiutare sua madre, anche lei docente della materia, a correggere i compiti della classe. 

“Matematica divina Matematica”, per certi è una tavola di colori, per altri è uno di quei cruciverba senza i quadrati neri, per Marguerite la matematica è un’autostrada, un tunnel in cui cammina, ragiona, elabora il pensiero. Il film inizia in medias res: la ragazza ha 25 anni quando sta per terminare i suoi studi di dottorato all’E.N.S di Parigi, sotto la guida del professor Laurent Werner (Jean-Pierre Darroussin), il relatore che crederà sempre nelle sue potenzialità, pur mostrandosi in alcuni momenti molto freddo con lei. 

Per raggiungere la laurea e l’agognata fama, Marguerite deve però affrontare l’ultimo step: risolvere il Teorema di Szemerédi, applicabile alle progressioni aritmetiche nei sottoinsiemi dei numeri interi. Il giorno dell’esame finale però, avviene quello che è il più grande incubo per un esaminando: si blocca e fa scena muta. Lei, così determinata per quella prova, ad un certo punto smarrisce le parole e la soluzione alla dimostrazione del teorema sembra svanire nel nulla.

I passaggi matematici non la riportano sulla giusta strada e dopo un crollo psicologico decide di abbandonare l’aula e di lì a poco anche l’università. 

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Cambio di rotta?

Seppur il professor Werner la inviti espressamente a ritentare la riformulazione del calcolo da lì a un anno, Marguerite, fin troppo emotiva (e si sa la matematica non ha bisogno di sentimenti) tergiversa. Il dado è ormai tratto e la protagonista di questa storia decide così di abbandonare la facoltà ripiegando con lavori di tutti i tipi, tentando di occupare e distrarre la mente turbata e angosciata dal ricordo del fallimento universitario (che poi, cos’è davvero definibile un fallimento?).

Durante questo periodo di down, Marguerite conosce Noa (Sonia Bonny), una ballerina che le offre un posto letto per andare a vivere insieme in un’altra zona della Capitale. Proprio qui, in questa nuova casa, busseranno di nuovo alla sua porta la logica, il conteggio, i numeri; nel condominio dove si è appena trasferita alcuni inquilini sono soliti ritrovarsi per giocare a Mahjong, un gioco basato sulle combinazioni. La ragazza di certo non vuole farsi sfuggire un’occasione come questa: intende vincere al gioco d’azzardo grazie al suo acume matematico, che le permetterà poi di saldare il rimborso della borsa di studio fino a pagare l’affitto per tutte le coinquiline della casa. 

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Marguerite “liberata”

Lontana dal contesto universitario, Marguerite si libererà dagli schemi abituali, trasformandosi da studentessa timida e solitaria in una versione meno assorta e più attiva di sé stessa. Inizia a concedersi piccoli spazi di leggerezza, prova a lasciarsi andare nelle relazioni riscoprendo, ad esempio, la sua vita sessuale, fino a quel momento messa in un angolo. In questo periodo uscirà un po’ fuori dai suoi schemi, distaccandosi da quello studio matto e disperatissimo.

Un giorno, ascoltando la radio, scopre che il suo relatore è riuscito a risolvere il famoso teorema che le ha causato il distacco dall’università. Marguerite, mossa da un forte senso di rivalsa, torna così sui suoi passi, imbattendosi in una nuova impresa ancora più ardua, la risoluzione alla congettura di Goldbach. Ma non farà tutto da sola, al suo fianco ci sarà Lucas (Julien Frison), ex collega di dottorato.

E quando problema si fa più imponente, per trovargli una soluzione c’è bisogno di una lavagna più grande: vetri, pareti dipinte di nero, carta igienica, ogni angolo della casa diventa un supporto per la trascrizione dei numeri (donandoci la sequenza più suggestiva di tutto il film). Il film di Novion non cede un attimo all’irregolarità, tutto funziona con meticolosità, fino alla conclusione, e forse proprio questa ricerca ossessiva della precisione “matematica” anche nella narrativa tende ad annoiare.

Ma al di là di questo Il Teorema di Margherita lascia ai suoi spettatori un grande spunto di riflessione sulla dinamica tossica e avvilente del “fallimento”, che si insinua tra le cattedre universitarie, e sulla passione viscerale come ostinata voglia di continuare ad insistere, provare, riuscire.

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Centro Sperimentale di Cinematografia: Sergio Castellitto e il suo programma

Sergio Castellitto, Foto di Francesco Morra
Sergio Castellitto, Foto di Francesco Morra

Da ottobre 2023 Presidente del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Sergio Castellitto ha presentato ieri le principali linee del suo programma: la ristrutturazione dei teatri interni è una priorità, ma non solo, annuncia nuove pubblicazioni di cinema co-edite dal Centro Sperimentale di Cinematografia e la futura introduzione di due master di alto livello, ovviamente portando avanti anche la fondamentale attività di restauro dei film.

Libertà e indipendenza prerequisiti fondamentali per la nuova direzione

Il nuovo Presidente Sergio Castellitto ha accettato la sua carica ad ottobre stabilendo condizioni di totale libertà e indipendenza, in un’ottica di appartenenza solo al suo percorso e alla sua storia, accettando di portare avanti questa esperienza con la medesima attitudine che ha sempre avuto nella lavorazione di un suo film: cercando di avere un rapporto forte e preciso con quelli che nel Centro Sperimentale vengono chiamati dipartimenti ma che lui identifica come veri e propri reparti.

A chi mi ha proposto di assumere questo incarico ho detto che lo avrei fatto solo a condizione di totale libertà e indipendenza, essendo io un uomo che non è mai appartenuto a nessuno se non alla mia storia

Sergio Castellitto

Il suo arrivo si inserisce prima della fine del compimento del percorso dello scorso consiglio d’amministrazione; quello attuale, nominato dal governo, è composto da Castellitto, Giancarlo Giannini, Pupi Avati, Andrea Minuz, Cristiana Massaro, Santino Vincenzo Mannino e Mauro Carlo Campiotti.

Fermo nel portare avanti una dimensione collegiale, e sostenuto da un consiglio d’amministrazione che definisce militante in quanto composto da professionisti che non hanno paura di scendere in campo, Castellitto ritrova nel CSC molti dei docenti e dei direttori artistici con cui in passato ha condiviso il suo lavoro, ed espone le idee e le iniziative che caratterizzeranno il nuovo programma, anche riguardo a a ciò che è stato lasciato in sospeso.

Soprattutto, l’attore, regista e sceneggiatore romano, esprime la centralità del capitale che risiede nel Centro Sperimentale di Cinematografia, quello umano come gli studenti, e quello che comprende i molteplici titoli della Cineteca Nazionale e le pubblicazioni della Biblioteca Luigi Chiarini, che accoglie la maggiore collezione cartacea di argomento cinematografico esistente in Italia e che è tra le più grandi in Europa per quanto riguarda le opere dedicate alla storia del cinema e alla sua comunicazione.

Proprio con gli studenti (attualmente 255 a Roma), che la scorsa estate avevano occupato il CSC per protesta contro l’emendamento governativo, Castellitto si vuole confrontare: organizzare un’assemblea con loro è stato il primo passo dopo la sua nomina, sottolineando l’importanza della loro partecipazione ai consigli didattici.

Una prospettiva di apertura per il Centro Sperimentale di Cinematografia

Molte le iniziative annunciate, prima fra tutte quella della Diaspora degli artisti in guerra: con tre giorni, dal 19 al 21 giugno, dedicati agli incontri con registi, autori e interpreti provenienti dalle aree di guerra del mondo, all’interno del CSC, per confrontarsi nel dialogo delle proprie realtà attraverso il loro lavoro.

Questi tre giorni rientrano in un discorso molto più ampio di apertura verso l’esterno, “rompendo la cupola del convento“, come dice Castellitto. All’interno di una dimensione di allarme non soltanto sociale o politico, ma anche psicologico, dovuto a due guerre in corso che influenzano la nostra vita sociale ma anche quella interiore, è emozionante la possibilità di far sì che il Centro apra le sue porte facendosi casa, per ospitare cineasti, artisti, studenti scrittori, musicisti. Tra gli obiettivi finali ci sarà la realizzazione di un film-testimonianza sulle tre giornate di incontro che sarà realizzato direttamente dagli allievi.

Sono previsti anche due master di alto livello, uno organizzato con Minimum Fax incentrato sulla scrittura creativa, e un altro in collaborazione con Anica Academy dedicato al Management dello spettacolo. In più il Presidente conferma il proseguimento delle due iniziative, già sperimentate negli anni precedenti, delle rassegne estive Quo Vadis ed Effetto notte. È prevista la partecipazione ai più rinomati Festival internazionali con restauri inediti a cura del CSC–Cineteca Nazionale (tra quelli in corso c’è Ecce bombo di Nanni Moretti) e l’accordo con la Cinémathèque française per la realizzazione di retrospettive prestigiose.

Tra le linee programmatiche anche la volontà di far diventare la nuova sede regionale del CSC in Veneto, sull’Isola di San Servolo, un polo decisivo del CSC–Scuola Nazionale di Cinema–attualmente nella sede romana sono tenuti 11 corsi triennali e si aggiungono i 4 nelle sedi CSC–Piemonte, CSC–Lombardia, CSC–Abruzzo e CSC–Sicilia.

Per quanto riguarda la riapertura del Cinema Fiamma è in corso una vicenda estremamente complessa sia dal punto di vista tecnico che burocratico riguardo l’investimento che non poteva essere ascritto al PNRR.

Un punto di (ri)partenza

Lanciato verso la prospettiva di un proprio percorso didattico, Sergio Castellitto non nega di aver voglia di confrontarsi con le studentesse e gli studenti del Centro Sperimentale anche da un’altra prospettiva, magari insegnando in futuro in un “un piccolo corso interdisciplinare, fra regia, scrittura e recitazione”.

Soprattutto ci tiene a ribadire, con fermezza ed ironia, che non intende morire manager, e che questa opportunità non preclude il resto della sua carriera di regista e attore.

Foto di Francesco Morra

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Da Priscilla a Civil War: chi è Cailee Spaeny

Cailee Spaeny in Civil War (sinistra) e Priscilla (destra)
Cailee Spaeny in Civil War (sinistra) e Priscilla (destra). Courtesy of A24/01 Distribution; Vision Distribution

Quando alla Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso settembre, Cailee Spaeny si è presentata sul red carpet di chiusura, più di un sopracciglio si è alzato in segno di sorpresa e, forse, anche di incredulità snob. Chi è la ragazzina che porta a casa la Coppa Volpi senza essersi fatta ancora un nome nel mondo del cinema? È la domanda che si sono posti molti critici al Lido. Eppure.

Eppure Cailee Spaeny, classe 1998 e 26 anni ancora da compiere, non solo ha meritato ampiamente il riconoscimento per la sua interpretazione in Priscilla di Sofia Coppola, ma continua a incantare con una recitazione pulita, essenziale, fatta di sguardi e dettagli.

L’aiuta, molto, il suo viso trasformista: a tratti di bambina, a tratti di donna. Dolce ma deciso. Può essere tutto, basta che muova diversamente un muscolo, un sorriso.

Dove abbiamo visto Cailee Spaeny

Cailee Spaeny, nata in Tennessee e cresciuta in Missouri, lo “Show Me State” (come viene detto anche in Civil Dar di Alex Garland”), cuore dell’America rurale e pragmatica. Ha debuttato al cinema a 20 anni, nel 2018 con Pacific Rim: La rivolta e ancora prima in ambito musicale, con la pubblicazione del suo primo singolo nel 2016. Da allora è entrata nel cast di altri cinque film, da Una giusta causa e Vice – L’uomo nell’ombra fino a How it Ends.

La ricordiamo però soprattutto per un ruolo televisivo, quello della vittima in Omicidio a Easttown, con protagonista Kate Winslet. Come già accennato, il grande pubblico cinematografico, tuttavia, si accorge di Spaeny solo dopo il debutto al Lido di Venezia di Priscilla.

Priscilla, la scelta perfetta di Sofia Coppola

In Priscilla, Spaeny rappresenta pienamente l’ambivalenza di un personaggio in apparenza infantile e infantilizzato, che al suo interno vive un conflitto emotivo adulto e profondo. Diretta dallo sguardo delicato e deciso di Sofia Coppola, la sua interpretazione mette bene in evidenza il mondo e i sentimenti di una donna che cresce all’interno di una relazione senza equilibrio, orientata sempre dai desideri dell’uomo. E che uomo, Elvis in persona.

Courtesy of Vision Distribution

Con semplicità e con raffinatezza Spaney incarna invece i desideri e i sogni della ragazza che era Priscilla. Desideri e sogni autosufficienti che, proprio per questo, distruggono il mito di Elvis, anche da un punto di vista sessuale e sensuale. Con la sua “innocenza” e “purezza”, la Priscilla di Elvis era una bambola da non toccare, un surrogato della donna-madre, un’immagine senza corpo.

Spaney le ridà quel corpo, con o senza capelli cotonati, con o senza smalto e trucco pesante sugli occhi. Lo stesso trucco che era Elvis a volere su di lei. E si riprende lo spazio che le è sempre appartenuto, anche nella grammatica del film: primo piano dopo primo piano. Dettaglio dopo dettaglio.

Dove la vedremo: Civil War e Alien

Dopo Priscilla sono altri due in titoli con Cailee Spaeny annunciati e in uscita a breve. Il 18 aprile arriva al cinema con 01 distribution un altro film A24, Civil War di Alex Garland. Il 14 agosto, invece, sarò il turno di Alien: Romulus.

In Civil War Spaney recita accanto a un cast straordinario, da Kirsten Dunst e Jesse Plemons a Wagner Moura e Stephen McKinley Henderson. Riesce però a emergere come vera protagonista, in un arco narrativo sotterraneo che è quello del suo “romanzo di formazione”.

Civil War racconta infatti il viaggio di un gruppo di giornalisti verso la Casa Bianca durante una distopica guerra civile fra le Forze occidentali del Texas e della California contro il resto degli Stati Uniti. Un incubo, non difficile da immaginare, in cui non c’è un messaggio politico preciso o esplicito, se non il monito di una violenza imminente, pronta a esplodere dopo anni di polarizzazione della cultura e dell’opinione pubblica.

Courtesy of 01 Distribution

Spaney interpreta una giovanissima fotoreporter che vede in Lee (Dunst) un modello da seguire e per questo trova il modo di partire con la squadra verso D.C., andando incontro a un viaggio che cambierà per sempre il suo modo di vedere le cose. E il suo modo di imprimerle sulla pellicola del rullino. È un percorso di crescita, il suo, in cui i colpi di testa – a metà fra l’imprudenza e l’ingenuità – lasciano intravedere invece una donna lucida e capace, soprattutto in una situazione come quella raccontata nel film di Garland.

Anche in Alien: Romulus, in arrivo il 14 agosto, Cailee Spaeny è il primo nome del “call sheet”, ovvero la protagonista. L’horror-thriller di Fede Álvarez riporta alle origini il franchise Alien, configurandosi come un “midquel” fra l’Alien del 1979 e Aliens -Scontro finale del 1986. Spaney intrepreta Rain Carradine, che fa parte di un gruppo di giovani colonizzatori dello spazio, faccia a faccia con la forma di vita più terrificante dell’universo.

V.V.

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Priscilla, una storia nascosta

Cailee Spaeny e Jacob Elordi in Priscilla
Cailee Spaeny e Jacob Elordi in Priscilla. Courtesy of Vision Distribution

A distanza di un paio di mesi dal debutto oltreoceano e dopo essere stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2023, dal 27 marzo è disponibile nelle sale italiane Priscilla, nuovo lungometraggio diretto da Sofia Coppola. Una produzione della stessa Priscilla Presley, oltre che della rinomata A24, tratta dal suo libro di memorie.

A interpretare Priscilla è la giovane Cailee Spaeny, che si è aggiudicata la Coppi Volpi per la Miglior interpretazione femminile a Venezia. Nei panni di Elvis c’è Jacob Elordi e nel resto del cast Jorja Cadence, Emily Mitchell e Rodrigo Fernandez-Stoll.

Priscilla, non solo Elvis

Adattamento cinematografico del libro del 1985 Elvis and Me, scritto proprio da Priscilla Presley insieme a Sandra Harmon, il film racconta le vicende della giovane Priscilla (Cailee Spaeny) e delle tappe più importanti della sua storia d’amore con Elvis (Jacob Elordi). Dal loro primo incontro nel 1959, in Germania (dove Elvis era stato costretto a prestare servizio militare all’apice della sua carriera) fino ai due anni di separazione, passando poi al trasferimento di lei a Graceland e al turbolento matrimonio e alla successiva separazione. Il tutto raccontato – sempre – dal punto di vista di Priscilla.

Sofia Coppola decide di portare sul grande schermo la storia di una donna che per anni è sempre stata vista come figura di contorno, “la moglie di Elvis’’, mettendo al centro e dando per la prima volta importanza ai suoi sentimenti, alle sue insicurezze e alle sue sensazioni. Fa emergere un lato intimo, mai visto prima.

Courtesy of Vision Distribution

La narrazione non solo mette in secondo piano il Re, Elvis (a differenza invece del recente film di Baz Luhrmann), ma lo dipinge in modo molto diverso da quello a cui si è abituati. L’Elvis di Elordi-Coppola è l’anti-mito, il mito che crolla sotto lo sguardo di Priscilla.

Tra desiderio e realtà

Priscilla viaggia attraverso atmosfere di immaginazione e realtà, con la delicatezza e la profondità che sempre contraddistingue il ritratto femminile nei film di Sofia Coppola. Il film mette a confronto gli aspetti “da sogno” della relazione tra Priscilla ed Elvis, con la dura realtà. La ragazza invidiata da tutte perché scelta dall’iconica star, non vive con lui una vera relazione, piuttosto la subisce, spesso senza avere voce in capitolo. Sofia Coppola mostra ciò che era rimasto invisibile ai più e, così facendo, costruisce e decostruisce le fantasie di una generazione, e anche di più.

Priscilla è rappresentata come una ragazza in trappola, nonostante abbia scelto lei stessa a sua gabbia, sia nella sua relazione con Elvis, che nella vita in generale. È Elvis a decidere quali vestiti debba indossare, quali colori, quali fantasie, quale tinta di capelli e quale trucco stia meglio sul suo viso. Priscilla però non riesce ad abbandonare quella realtà, affascinata e annebbiata da un qualcosa più grande di lei. Per questo l’evoluzione che compie all’interno del lungometraggio è una simbolica rinascita, chiara soltanto alle fine.

Courtesy of Vision Distribution

Priscilla, un viaggio emotivo

Sofia Coppola trasforma la storia di Priscilla in un viaggio emotivo, non solo per lei, ma anche per lo spettatore che si trova coinvolto all’interno della narrazione e riesce da subito a empatizzare con la sua protagonista. L’impero di Graceland viene fatto a pezzi, per mostrare una storia rimasta nell’ombra, seppur sotto gli occhi di tutti.

Cailee Spaeny incanta con la sua Priscilla, briosa e vitale, anche all’interno di un racconto dai temi senza dubbio gravi, pesanti e drammatici.

In breve

Priscilla è un film che racconta una relazione tossica ed emotivamente abusante. Come tale, predilige una struttura “ripetitiva”, fatta di schemi che si ripetono fino a un punto di rottura. È una scelta che Coppola fa per enfatizzare anche le sensazioni della giovane donna, di dieci anni più giovane di Elvis e quattordicenne al momento del loro incontro. Non manca però la delicatezza che caratterizza la regista nei suoi lavori, anche in quelli emotivamente più forti. Un film che merita assolutamente di essere visto, compreso, attraversato e vissuto.

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Prisma 2: la data di uscita e le prime immagini della nuova stagione

Prisma 2, Amazon Prime Video
Prisma 2, Amazon Prime Video

Prime Video svela le prime immagini di Prisma 2 e annuncia la data di uscita della seconda stagione della serie young adult Original italiana.

Prime Video ha svelato oggi le prime immagini della seconda stagione della serie Original italiana Prisma, nuovo capitolo del young adult drama di Ludovico Bessegato. La seconda stagione di Prisma è prodotta da Maddalena e Rosario Rinaldo per Cross Productions in collaborazione con Prime Video e sarà disponibile dal prossimo 6 giugno in esclusiva su Prime Video in Italia. 

Dove ci eravamo lasciati con la prima stagione di Prisma

Ludovico Bessegato, alla regia, e Alice Urciolo, con lui alla scrittura, hanno inaugurato con Prisma un orizzonte nuovo nel raccontare una generazione alla ricerca della propria identità. La prima stagione inizia dai gemelli Marco e Andrea, entrambi interpretati da Mattia Carrano; da loro si allarga mostrandone la famiglia, gli amici, il passato, il luogo in cui abitano, una Latina geometrica e microscopica, nel sogno della città che sembra lontanissima ma che è solo a un’ora di treno.

Nessuno in Prisma è “una cosa sola”; evitando le etichette e le definizioni, la serie mette in scena una scoperta di sé che passa per difficoltà e insicurezze, per Andrea attraverso la consapevolezza della sua identità queer, per Marco superando lentamente l’attitudine introversa che lo tiene in un limbo tra silenzi e rabbia. Il tutto in una narrazione attuale, poetica e musicale.

Qui puoi leggere la recensione completa di Silvia Pezzopane.

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Tutte le donne di Sofia Coppola

Sofia Coppola, i personaggi femminili nella sua filmografia - Marie Antoinette
Un'immagine da Marie Antoinette (2006). Medusa Film/Sony Pictures

Bellissime, misteriose, tormentate e inevitabilmente fatali, proprio come la vita. Questa la tagline de Il Giardino delle Vergini Suicide (1999) ma che bene incarna tutta la cinematografia di Sofia Coppola.

Dall’appena citato debutto fino ad arrivare al più recente On the Rocks, passando per trionfi di pubblico e critica come Lost in translation e Marie Antoinette o pellicole molto meno apprezzate come The Bling Ring, è identificabile un file rouge, una poetica che lega ogni film, rendendo la visione di Coppola unica e inimitabile. Aspettando Priscilla (presentato in anteprima nell’imminente prossima edizione del Mostra del Cinema di Venezia), è possibile immaginare come il nuovo film come l’ennesimo tassello all’interno del mosaico costruito fino ad ora dalla regista americana, dove ogni protagonista è un volto unico ma organico nella rappresentazione cinematografica del femminile.

La filmografia

Se c’è una cosa che caratterizza inequivocabilmente ogni film di Sofia Coppola è la centralità dei personaggi femminili, che anche quando affiancate a presenze ingombranti (vedi Bill Murray) o quando non ricoprono il ruolo di protagoniste (vedi Elle Fanning in Somewhere), emergono sempre in maniera nitida al di sopra di ogni controparte maschile, elementi centrali e motori di tutta la narrazione che viene ad instaurarsi.

L’obiettivo di Coppola, in ognuno dei suoi 7 film usciti fino ad ora, è esattamente questo: proporci il suo sguardo sulle donne, uno sguardo che conosce e non giudica, uno sguardo che sa essere onesto ma anche clemente, raramente madre ma certamente mai matrigna nei confronti dei ruoli che ragazze e donne devono interpretare ogni giorno, in ogni secolo, che piaccia o meno.

Si parte dalle adolescenti del Giardino delle Vergini Suicide (che vedrà nascere il sempre efficace sodalizio tra Kirsten Dunst, con i suoi occhi glaciali e disillusi sul volto di una bambina, e Sofia Coppola, pronta a catturare tutto ciò), belle e intrappolate in un destino già scritto, dei gigli in un vaso troppo piccolo che giorno dopo giorno appassiscono sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno li aiuti, ma con la stoicità di andare incontro a questo destino a testa alta.

Arriviamo poi a Lost in Traslation, dove Charlotte (una meravigliosa Scarlett Johansson) vive in un limbo che anticipa la prevedibile fine della sua relazione, fatta di silenzi e assenze, un’incomunicabilità all’apparenza insormontabile e che forse lo è per davvero.

Tre anni dopo, nel 2006, invece, Coppola porta sullo schermo il suo primo ritratto storico, la tanto controversa regina di Francia Marie Antoinette, volto fatto di luci ed ombre che, attraverso una colonna sonora indie rock costruita ad arte, rivive come donna eterna, esempio del suo tempo e dei sentimenti di ogni tempo.

Dalla Francia pre-rivoluzionaria arriviamo all’industria cinematografica californiana dei giorni nostri di Somewhere, in cui si tocca per la prima volta il rapporto padre-figlia, con una giovanissima Elle Fanning che passa dal vivere ai margini dell’universo hollywoodiano dell’apatico padre a diventarne forzatamente il centro, calibrando equilibri e sinergie tra due, di fatto, estranei.

Dallo sguardo di una pre-adolescente fino a quello (di nuovo) degli adolescenti in Bling Ring: storia basata su fatti realmente accaduti, forse il film più pop e meno apprezzato di Coppola che, nel dirigere una Emma Watson criminale in erba, disinibita e priva di morale, decide di concentrarsi maggiormente su una sperimentazione del filone Harmony Korine, perdendo un po’ di vista la scrittura delle protagoniste.

Protagoniste che, però, tornano centrali ne L’inganno, unico film horror/noir della regista e con un cast d’eccezione (Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning, Colin Farrell). Tornando di nuovo indietro nel tempo, questa volta alla guerra di secessione, ci si ritrova ancora in un ambiente chiuso, una realtà governata da donne vittime e carnefici, sempre più ambigue, sempre più fraintendibili, in un equilibrio perfetto tra sentimenti e lucidità.

Infine On the Rocks, in cui torna Bill Murray come spalla di Rashida Jones e torna anche il tema padre-figlia, questa volta con uno sguardo più maturo e scanzonato su quello che questo rapporto rappresenta, soprattutto quando si cresce e si deve fare i conti con il peso del nome che si porta.

La visione del femminile

Sette film, sette diversi punti di vista che si intrecciano e si mettono in contrasto per formare un caleidoscopio di ciò che significa essere bambine, ragazze, adulte, ieri oggi e domani. Sette opere in cui la femminilità è ostentata con mai celata malinconia, un rimuginare di sogni infranti prima ancora di essere pensati e un passato onnipresente e mai realmente amico.

Figlia ideologica di Sylvia Plath e sorella di Lana del Rey, Sofia Coppola infatti fa di vezzi e fragilità le proprie armi più letali, che come aghi vanno dritte al cuore e avvelenano di bellezza e nostalgia chi guarda, creando così una sorta di femminismo oscuro, in cui ai soprusi e ai dolori degli universi in cui le protagoniste si muovono, la risposta è una passività aggressiva, uno spirito autodistruttivo sardonico e tenace, tanto destabilizzante da immaginare quanto coraggioso da mettere in scena.

Marie Antoinette, Lux, persino Niki di The Bling Ring, anziché ribellarsi si gettano nel baratro, distruggendo loro stesse, sapendo di non avere possibilità di diversa redenzione, come se il lieto fine fosse solo per le favole e quindi si preferisse scegliere l’epilogo opposto, l’unica via di fuga rimasta.

La solitudine

In questo album di ritratti si staglia, annebbiato ma netto, il ritratto della solitudine, elemento comune per tutte le ragazze di Coppola: donne, chi più e chi meno, incastrate sempre in un mondo che non le vuole e non le comprende, in cui il rifugio in loro stesse, nelle paure, nelle ansie, negli eccessi e nelle vendette è il solo spazio concesso. La ricerca del proprio posto nel mondo è un tema caro e ricorrente nel cinema, ma attraverso la macchina da presa di Coppola va oltre tutto ciò e diventa quasi un atto di titanismo, il tentare fino alla fine di far funzionare tutto, di rispettare le altrui aspettative, di rientrare nei canoni, solo per ritrovarsi sempre più sole e sbagliate, sempre meno comprese e circondate da individui che non hanno alcuna intenzione di comprendere.

E così come sole sono le protagoniste, così si procede a costruire le ambientazioni: collegi isolati nei boschi, hotel Hollywoodiani abbandonati nel deserto, Paesi stranieri in cui la mancanza di casa si traduce in mancanza di affetti veri. L’isolamento fisico nei film è riflesso della distanza emotiva che ogni figura mette in atto, volontariamente o meno, ponendo gli altri personaggi, così come il pubblico a debita distanza, sia per difesa che per attacco.

E così, attraverso questi silenzi, questi discorsi mai fatti, Sofia Coppola ritrae con i suoi film la promessa di un mondo interiore che non verremo mai a conoscere, concedendoci solo uno sguardo marginale, fatto di colori pastello e fiori, ampi spazi da cui è impossibile uscire ma anche entrare, in un alternarsi ritmico di dolcezza e paura, sorrisi innocenti e depressione, pasticcini e veleno.

Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2023.

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21° ASIAN FILM FESTIVAL: dal 10 al 17 aprile 2024 a Roma

21° ASIAN FILM FESTIVAL
21° ASIAN FILM FESTIVAL

Al Cinema Farnese Arthouse di Roma torna il tradizionale appuntamento con Asian Film Festival, la rassegna cinematografica che rivolge lo sguardo alle migliori nuove produzioni dell’Estremo Oriente, ideata da Cineforum Robert Bresson con la direzione artistica di Antonio TermeniniDal 10 al 17 aprile 2024 saranno numerosi gli appuntamenti in sala per la ventunesima edizione, in programma dal primo pomeriggio alla sera tardi, che vedranno proiettare, accanto ai nuovi film di grandi registi, anche molte opere prime di alto livello – assolute sorprese – distribuite tra la sezione Newcomers,  Concorso e Fuori Concorso.

Le nazioni coinvolte quest’anno sono Corea del Sud, Giappone, Cina, Taiwan, Hong Kong, Malesia, Singapore, Indonesia, Vietnam, Thailandia, Filippine e Nepal, quest’ultimo presente per la prima volta al festival.

La giuria

La giuria dell’edizione 2024 sarà presieduta dal giornalista, scrittore ed editorialista Antonio Polito che, insieme al regista Christian Carmosino e alla giornalista e docente di linguaggio audiovisivo Angelica Alemanno, giudicheranno le opere in concorso mentre per la sezione dei talenti emergenti del cinema asiatico sarà creata un’apposita giuria di studenti presieduta dal prof. Antonio Falduto della UNINT.

Il programma

Nel ricco programma del festival spiccano numerose anteprime internazionali, come il ventaglio di film giapponesi After the fever di Yamamoto Akira, Ripples di Ogigami Naoko, One second ahead, one second behind di Nobuhiro Yamashita e Sana di Takashi Shimizu. Uno sguardo particolare è rivolto al film nepalese A road to village di Nabin Subbe e ai lungometraggi che hanno già trovato distribuzione italiana: Shadow of fire di Shinya Tsukamotosono (Minerva Pictures), film della cerimonia di apertura del festival, Sleep di Jason Yu (Tucker Film) e Only the river flows di Wei Shujun (Wanted).

Sono stati selezionati anche alcuni vincitori di prestigiosi festival internazionali: tra questi l’indonesiano Monisme di Riar Rizaldi, miglior film al Bucharest International Experimental Film Festival 2023, il thailandese Solids by the seashore di Patiparn Boontarig, miglior lungometraggio asiatico al British Irish Film Fest 2023, il cinese The cord of life di Qiao Sixue, Premio Migliore Attrice allo Shanghai International Film Festival 2023; i taiwanesi Love is a gun di Lee Hong-Chi (Hong Kong, Taiwan), Premio Leone del Futuro alla 80° Mostra del Cinema di Venezia e Fish memories di Hung-I Chen, Premio alla miglior fotografia al Golden Horse Film Festival, e il vietnamita Inside the yellow cocoon shell di Pham Thien An, Vincitore della Camera d’or, miglior opera prima, al 76° Festival di Cannes.

Monisme di Riar Rizaldi

Tre i temi trainanti di questa edizione spiccano argomenti di scottante attualità, quali la condizione della donna, l’entrata nella maggiore età attraverso racconti adolescenziali e la violenza declinata nelle sue diverse forme.

Tre gli ospiti internazionali in arrivo sono attesi il regista giapponese Shinpei Yamasaki per The guilt and the other stories, la vietnamita Nguyen Thi Truc Quynh, protagonista di Inside the yellow cocoon shell  e il regista di LessonKim Kyung-rae, primo ospite coreano nella storia dell’Asian Film Festival.

Scopri il programma completo sul sito ufficiale del 21° Asian Film Festival. Continua a seguire FRAMED! Siamo anche su FacebookInstagram Telegram.

Road House (2024) – Un pugno per uccidere il cinema

JAKE GYLLENHAAL in ROADHOUSE Photo: LAURA RADFORD © AMAZON CONTENT SERVICES LLC
JAKE GYLLENHAAL in ROADHOUSE Photo: LAURA RADFORD © AMAZON CONTENT SERVICES LLC

Remake del modesto ma cultissimo film del 1989 Il duro del Road House con Patrick Swayze, Road House di Doug Liman, disponibile in streaming su Prime Video, risulta un’offesa al cinema d’azione e una macchia indelebile sulle carriere del regista e del protagonista, Jake Gyllenhaal.

Tutti vogliono il Road House

Dopo aver assistito ad un incontro di lotta di Elwood Dalton (Jake Gyllenhaal), vinto solo grazie alla sua fama, Frankie (Jessica Williams) lo assume come buttafuori per il suo locale, il Road House, che ultimamente è infestato da tipi rissosi. Dalton si troverà invischiato in un affare di mafia e dovrà difendere il bar dai tirapiedi di Ben Brandt (Billy Magnussen).

Se nei primi venti minuti ero convinto che avessero lavato gli steroidei anni ’80 in un politically correct interessante, che poneva l’azione pura in un’ottica crepuscolare, come successe per il genere western e il mito della frontiera negli anni ‘50 con film come Il cavaliere della valle solitaria (1953) o Mezzogiorno di fuoco (1952), mi sono dovuto ricredere già quando il film aveva superato la mezz’ora.

Il ciclone di scontri che investe questo locale in riva al mare, che sembra trasporre il film in una cartolina hawaiana degli anni sessanta, è solo una sequela molto noiosa di scontri filmati male. L’azione delle risse non ha pathos o realismo ma balugina di finzione e di trucco, complice anche la piattezza di tutti i personaggi coinvolti; non c’è trasporto emotivo né verso di loro né verso gli scontri.

Esiste un movente, il Road House, e poi una serie di persone che si affrontano dentro, fuori e intorno ad esso: nulla di più consistente di un pugno ripreso male.

Così tramontano le stelle

Sono già alcuni anni che il livello artistico delle produzioni che coinvolgono Jake Gyllenhaal si è notevolmente abbassato. Prevalentemente film d’azione di scarsa o pessima qualità che hanno avuto una distribuzione molto limitata e una risonanza globale effimera. Nulla a che vedere coi fasti del decennio passato, quando con film come Prisoners (2013) o Lo sciacallo – Nightcrawler (2014) ci ha regalato alcune interpretazioni degne di lode.

Anche il regista Doug Liman, distintosi in precedenza per film come The Bourne Identity (2002), Mr & Mrs. Smith (2005) e Edge of Tomorrow -Senza domani (2014), sembra essere finito nel vortice delle produzioni di pessima qualità. A tre anni dal grande flop di pubblico e critica di Chaos Walking (2021), il regista torna con quest’opera vergognosa che non uscirà nelle sale ma solo in streaming.

Non c’è fine all’orrore

Conor McGregor debutta in quest’opera con una grazia invidiabile (ovviamente si fa dell’ironia). Il personaggio di Knox è un “cane idorofobo” contattato dal padre di Ben per dare una lavata di capo al figlio, e darà sfoggio di una scemenza vertiginosa in tutte le scene in cui comparirà. La già nota boria del lottatore si fonde con una recitazione vergognosa, costantemente sopra le righe e incapace di trasmettere nulla più che un vago senso di disgusto per il film e la sua presenza in esso; un personaggio scritto veramente male per un “non attore” pessimo.

La scelta più corretta sarebbe stata di renderlo un killer muto, come il personaggio di Monica Bellucci in Dobermann (1997), e permettergli di recitare solo con i pugni. Suo è lo scontro finale con il Dalton di Gyllenhaal, che però è una rissa anche più penosa della scena di Fight Club (1999) in cui Edward Norton si picchia da solo.

Ci sarà un apice di follia narrativa rispetto a questo personaggio che non ho il coraggio di spoilerare: è una idiozia troppo grande per riassumerla in una frase.

Attenti al film

Ci sono molti film d’azione migliori di questo su Prime Video, non ultimo l’originale da cui è tratto questo scempio cinematografico. Road House è un film che non diventerà un cult, e la sua qualità artistica è tra l’infimo e l’inesistente.

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