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I miserabili, la forza redentrice della miseria

I miserabili

La prima volta che compare nel testo la parola “miserabile” è riferita a un ladro, la seconda a un magistrato che ha esercitato il potere di vita e di morte. “I Miserabili”, opera cui Victor Hugo dedicò diciassette anni e che lui stesso considerava il suo capolavoro, è una critica spietata alle impalcature sociali, alle storture del diritto penale e ai sistemi di potere. È un «poema, più che romanzo», come scrisse Baudelaire, «un libro di carità» che vuole spingere il lettore a rielaborare il concetto di miseria, soprattutto nella sua accezione infamante.

Il sacrificio di Fantine, costretta al martirio dalla vigliaccheria dei profittatori. Le peripezie di Cosette, vittima inconsapevole della crudeltà umana. La ribellione di Marius ai costrutti familiari e sociali. La purezza di Gavroche, che cantando affronta i colpi della mitraglia. Hugo si serve di scene memorabili e personaggi immaginari, ma rappresentativi, per sollevare casi di grande complessità sociale. Le considerazioni sulla giustizia che vuole solo punire, sul sistema carcerario che spesso prende cittadini in difficoltà e sforna criminali, sulle stigmatizzazioni sociali che costringono all’isolamento denunciano l’inerzia della classe dominante nel garantire a tutti diritti e condizioni di vita umani. E le riflessioni che ne scaturiscono, per grandi tratti, mantengono ancora intatta la propria attualità.

La narrazione segue l’acrobatico destino di Jean Valjean, che si intreccia a quello della Francia fino a divenire epopea. Condannato per aver rubato un pezzo di pane, sconterà diciannove anni al bagno penale, uscendone sfigurato. Rifiutato dalla società, grazie alla santità di un vescovo diventerà il più grande esempio di virtù di tutta l’opera. E mentre l’ex forzato, con azioni provvidenziali, offre riparo agli oppressi, la società non gli concede il perdono.

Lo perseguita l’ispettore Javert, inflessibile servitore della giustizia dedito ad affollare carceri. Riuscirà a riconoscere Jean Valjean dietro i suoi travestimenti e i suoi mille volti, accorgendosi solo alla fine della caratura morale di quel «miserabile magnanimo», che gli svelerà «l’abisso in alto», cioè che c’è giustizia anche al di sopra della legge. Si rincorreranno per tutto il romanzo fino a sedere accanto nell’ultima scena. «Lo spettro» e «la statua», uno «fatto di ombra» e l’altro «di pietra».

La felicità, il dolore, la morte, la redenzione, la malvagità, l’amore puro e la rivoluzione. Nel libro c’è tutto. Hugo esplora l’umanità in tutte le sue sfaccettature, le sue grandezze e le sue meschinità. Lo sfondo è la Francia postnapoleonica, della quale si offre un dipinto particolareggiato. E aggiungono valore storico le digressioni sulla battaglia di Waterloo e i moti del 1832. Per questo, la prosa ottocentesca e la stessa mole dell’opera, la sua lettura esige un rispettoso impegno.

Dopo un simile viaggio nella condizione umana, alla fine, l’unico condannato senza appello è Thénardier, che impersona la «miseria morale irreparabile». È questo per Hugo il vero peccato imperdonabile, mentre la povertà e lo stigma che ne deriva sono solo costrutti sociali borghesi. Una condizione imposta che incoraggia il vizio oppure la virtù, a seconda dell’animo di chi è costretto alle «vergogne ingiuste e strazianti rossori della miseria». L’indigenza diventa così una «prova ammirevole e terribile da cui i deboli escono infami e i forti sublimi. Crogiuolo in cui il destino getta un uomo ogni volta che vuol creare un furfante o un semidio».

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The Handmaid’s Tale per chi non ha letto il libro o visto la serie

The Handmaid's Tale

Simbolo di femminismo e capacità visionarie, il romanzo distopico The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood (1985) – scrittrice e attivista canadese – già nel 1990 ha visto il suo primo adattamento cinematografico per la regia di Volker Schlöndorff. Dal 2017 la sua versione più celebre è l’omonima serie tv Hulu, tradotta in italiano come Il racconto dell’ancella, vincitrice di quindici Emmy Awards.

Di cosa parla The Handmaid’s Tale

In un mondo contemporaneo o in un futuro non troppo lontano, che non faticheremmo ad immaginare, la Terra è stremata dall’inquinamento, spolpata di materie prime, arida, secca, morta. Gli esseri umani, di conseguenza, corrono un grave rischio di estinzione: da anni la sterilità è un problema comune. Le donne spesso non riescono a rimanere incinte oppure faticano a portare avanti le gravidanze. In questo contesto si inserisce un gruppo di estremisti religiosi, I figli di Giacobbe, che vede nella situazione un segno divino, una punizione per i peccati, per l’abbandono delle regole morali e degli antichi ruoli sanciti nella Bibbia.

Negli Stati Uniti la situazione si fa sempre più critica, fino allo scoppio della guerra civile in cui I figli di Giacobbe prendono il potere con un colpo di stato, instaurando la Repubblica di Gilead, una dittatura teocratica di ispirazione biblica. Lo scopo principale di Gilead è proteggere la procreazione e risanare il mondo. I valori su cui si fonda sono tratti da passi dell’Antico Testamento, che diventano legge.

Uno dei più importanti è quello su Rachele, la moglie infertile di Giacobbe, che pur di generare un figlio così come da volere di Dio, offre al marito la schiava Bila. Proprio da questo passo nasce la figura dell’Ancella di Gilead, una ragazza fertile che, derubata della dignità e dell’identità, diventa una schiava sessuale dei grandi comandanti, stuprata una volta al mese, durante il periodo di fertilità, per dare alla luce dei figli. Questa violenza avviene durante un rituale, sotto la supervisione delle mogli dei comandanti.

La struttura sociale di Gilead

Nei diversi livelli della società le donne sono suddivise in gruppi identificabili dal colore degli abiti. Blu sono le “Mogli”, sterili e sottomesse, dei Comandanti. Le donne a cui donne spetta il compito di portare avanti la specie, sebbene con figli partorite da altre. Rosse sono le Ancelle, una in ogni famiglia, istruite dalle “Zie” che indossano il marrone scuro. Vestite di grigio chiaro sono invece le “Marta”, donne non fertili che fungono da domestiche. Al di sotto di tutte ci sono le “Non-donne”, peccatrici (spesso omosessuali) e traditrici del governo, mandate nelle Colonie a scavare le macerie tossiche lasciate dalla guerra civile, destinate quindi alla morte. Ultimo gruppo sociale di Gilead sono gli “Occhi”, una specie di polizia segreta che controlla la popolazione e lavora per trovare i ribelli.

June, il filo da seguire per entrare a Gilead

La protagonista, June Osborne, è un’ancella, ribattezzata Difred (in inglese Offred). Il nome nuovo indica la proprietà del Comandante, in questo caso Fred Waterford e della moglie Serena Joy. La serie si sviluppa attorno alle vicende di June, intermezzata da flashback della sua vita precedente a Gilead. La sua storia è il mezzo attraverso cui il pubblico entra nello spazio di Gilead.

The Handmaid’s Tale, così come il romanzo a cui si ispira, pone al centro la condizione della donna, sempre su un piano di inferiorità e sottomissione rispetto all’uomo. Il genere femminile tutto viene privato della voce, attraverso per esempio il divieto di leggere e scrivere, e anche le figure di spicco, come Serena Joy (la moglie di Waterford e proprietaria di June) perdono il ruolo che avevano prima della teocrazia, diventando ombre del potere dei mariti. Serena Joy era uno dei volti fondatori dei Figli di Giacobbe, ne teneva i comizi mentre il marito si limitava a farle da accompagnatore. Nella nuova società che non solo lei ha aiutato a costruire, ma ha in prima persona promosso, è solo suo marito a poter esprimere opinioni e ad avere libertà di azione.

La violenza di Gilead

La violenza è il mezzo principale su cui fonda la repubblica di Gilead, soprattutto quella nei confronti del sesso femminile, che viene perpetuata a tutti i livelli della società. Sono ovviamente le ancelle a personificarne la massima espressione. Private non solo delle libertà, ma della stessa individualità esse non sono più persone, ma oggetti usati per procreare e a cui viene negato anche il ruolo di madre. La negazione della figura femminile è totale, aggravata anche dall’odio delle donne per le donne: un sessismo interiorizzato e messo in atto tra simili, che è espressione del patriarcato.

Sebbene siano i Comandanti quelli che governano realmente e che, come uomini, perpetuano la violenza di genere a livello strutturale, spesso sono infatti le donne a metterla in atto in maniera più forte. È particolare come gli unici personaggi che si pentano del loro ruolo cercando di aiutare June siano infatti due uomini, un Occhio e un Comandante. Le donne, tutte vittime di una società totalitaria, sembrano intente a mantenere il poco di pace che si sono guadagnate, magari solo per fortuna. Non appaiono disposte alle solidarietà e alla ribellione alla dittatura sui loro corpo. È June a diventare paladina della riappropriazione della sessualità femminile e della maternità. Il suo motto, Nolite te bastardes carborundorum – una frase in latino maccheronico traducibile con “Non lasciare che i bastardi ti annientino” – diventa il mantra della protagonista e della serie stessa.

Una metafora essenziale

Le ancelle di Atwood, anche nella versione televisiva, rappresentano da circa quarant’anni una delle più forti trasposizioni letterarie delle vittime di violenza sessuale e di tutte le donne che lottano per la riappropriazione del proprio corpo. È questa la ragione per cui la serie tv, rinnovata per una sesta e ultima stagione, è diventata negli anni il veicolo di un messaggio sociopolitico fondamentale, negli Stati Uniti e non solo. È una netta presa di posizione nel dibattito femminista attuale. Al momento dell’uscita della prima stagione (2017) c’è chi vi ha letto un parallelismo con il contemporaneo movimento #MeToo. C’è anche chi, allargando l’orizzonte, vi ha visto un parallelismo anche con il clima generato dalla politica trumpiana.

Uno degli aspetti più interessanti è quanto The Handmaid’s Tale sia entrato nell’immaginario comune, diventando simbolo riconoscibile delle manifestazioni di piazza per i diritti delle donne. Già nel 2017, alle prime avvisaglie delle limitazioni ai diritti di interruzione della gravidanza negli Stati Uniti (Senate Bill 145), le donne in protesta indossavano vestaglie rosse e copricapi bianchi, la divisa delle Ancelle. Identici gli abiti utilizzati in altre manifestazioni contro leggi proposte da repubblicani o, come avvenuto più tardi nel 2020, contro la nomina della ultraconservatrice Amy Coney Barrett a giudice della Corte Suprema.

Per molte attiviste, per molte donne, il messaggio di The Handmaid’s Tale è più attuale che mai, specialmente in un momento storico in cui è sempre più chiaro che i diritti ottenuti vanno protetti con lotte costanti.

La quinta stagione da non perdere

Dopo quattro stagioni in cui i personaggi rimangono sempre fedeli al ruolo che rivestono sin dall’inizio, in quest’ultima le cose vengono stravolte, spesso anche i personaggi principali, che per la prima volta vediamo cambiare realmente. Sembra infatti che il tema centrale di queste ultime 10 puntate sia la consapevolezza della propria situazione e di quella che è la realtà di Gilead. Diventa quindi necessario prendere una posizione e lottare per un cambiamento fondamentale alla propria salvezza. L’ultima scena si chiude in maniera diametralmente opposta a come era iniziata la serie: una coppia da sempre nemica si trova a diventare alleata. Quella che poteva essere la vista come una fine in realtà è solo l’inizio della chiusura di questa serie che si concluderà con la sesta stagione.

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Notte Fantasma: recensione del film di Fulvio Risuleo

Notte Fantasma. Vision Distribution
Notte Fantasma. Vision Distribution

Notte Fantasma è il terzo lungometraggio di Fulvio Risuleo: un noir dai toni thriller che si svolge nell’arco di una notte, presentato nella sezione Orizzonti Extra della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia

Tutto in una notte: l’incontro e l’addio tra Tarek e il poliziotto in borghese che vuole arrestarlo. Il primo è un ragazzo che controvoglia ha acquistato del fumo per i suoi amici (e che li sta per raggiungere nella notte silenziosa della periferia romana), il secondo un uomo annoiato, problematico, enigmatico, che fa salire Tarek in macchina per portarlo in centrale dopo averlo trovato in possesso della droga.

Giungeranno mai alla stazione di polizia? Solo l’arrivo dell’alba vi svelerà il finale, sicuramente non io, perché Notte Fantasma è un’avventura piena di suspense da guardare tutta d’un fiato. La distanza iniziale tra i due protagonisti si andrà via via affievolendo, dopo la condivisione di questa lunga notte insieme, vagando entrambi come fantasmi, da una cena in trattoria ad una passeggiata al cimitero.

La tensione di una notte

In Notte Fantasma molti momenti sembrano trappole oniriche dalle quali è difficile riprendere coscienza. L’incontro tra Tarek (Yothin Clavenzani) e il poliziotto (Edoardo Pesce) inizia come la punizione per una bravata adolescenziale, diventando poco a poco quello che sembra un sequestro di persona immotivato. L’atteggiamento dell’uomo, altalenante e irrequieto, porta lentamente a galla la sua depressione, un congedo dal servizio, una famiglia frammentata.

Lo scambio tra i due si articola tra scatti di rabbia e violenza, soprattutto da parte del poliziotto, che sembra voler insegnare a Tarek quanto sia difficile stare al mondo, avendo la presunzione di riuscirci in poche ore, salvandolo forse dal destino impietoso a cui lui si è ormai abituato.

Edoardo Pesce riesce a forgiare un carattere imprevedibile per un personaggio che si muove sbattendo i piedi sull’orlo di un precipizio. Quel poliziotto ci terrorizza, ma inevitabilmente, come fa Tarek, finiamo per avere compassione di lui.

Illustrazione di Leonardo D’Angeli

La voglia spasmodica che ha il ragazzo di tornare a casa ricorda la notte di Fuori Orario di Martin Scorsese. Quel puzzle di casualità sarà l’avventura dalla quale sia Tarek che il poliziotto usciranno storditi, diversi, legati. La sincerità che si riserva ad uno sconosciuto diventa più profonda di quella nei confronti di un amico.

Autore sia della regia che della sceneggiatura, Risuleo, ci rapisce per poco più di un’ora e mezza grazie alla tensione tangibile e al crescendo di inquietudine di Tarek come risposta all’immotivato rapimento. Le strade della città si svuotano anche di quei pochi avventori notturni, i ristoranti chiudono e il buio è sempre più misterioso, mentre la macchina con i due protagonisti sfreccia verso la mattina, dove nulla apparirà più come all’inizio.

Fulvio Risuleo è anche autore, insieme ad Antonio Pronostico, di Tango, edito da Coconino.

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White Noise (Rumore Bianco)| Baumbach rilegge DeLillo

White Noise
WHITE NOISE Cr: Wilson Webb/NETFLIX © 2022

Film d’apertura della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, White Noise (Rumore Bianco) è l’adattamento cinematografico che Noah Baumbach fa del romanzo di Don DeLillo (1985), riuscendo nell’impresa

Caotica vita di voci sovrapposte e paure di cui solo chi è uscito dalla modernità può provare: White Noise elabora una tipologia di narrazione per nulla facile da tradurre in un film, alcuni dei più grandi lo hanno sperimentato ottenendo scarsi risultati (come Cosmopolis di David Cronenberg).

Noah Baumbach non solo ci riesce, ma è capace di regalarci un ulteriore livello di coinvolgimento. White Noise è un film che modula con maestria le emozioni di chi guarda e lo fa quasi sottoponendolo a un incantesimo ipnotico della visione. L’adattamento guida le nostre sensazioni, che si sviluppano per l’arco di tutta la durata, in un caleidoscopio confusionario e inarrestabile.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Il dramma si sostituisce alla comicità delle situazioni: dalla risata inevitabile di fronte all’ironia della vita ci ritroviamo con le sopracciglia corrucciate in cerca di una soluzione per venir fuori dal senso di paura che ci soffoca come in un incubo.

Il regista dirige un cast formidabile al servizio della parola di DeLillo, punto di riferimento massimo per realizzare quella che nei suoi romanzi è l’esistenza, diretta e istantanea, problematica e lacerata, ricca di ossessioni che rendono gli individui ciò che sono, per metà maschere e per metà mosaici in carne ed ossa fatti di pezzetti di storia passata e contemporaneità sconosciuta.

La coreografia di una famiglia americana

Lo si capisce dai primi momenti: Baumbach ci introduce in una danza di movimenti non subito ascrivibili ad una coreografia. I personaggi, in balia del loro radicato egocentrismo ma anche proiettati verso il mondo esterno in costante cambiamento, si affidano a gesti sicuri e misurati. Come fare la spesa al supermercato, oasi incontrastata del capitalismo in cui la società trova un luogo accogliente, dove poter prendere decisioni contenute, progettato per poter dare l’illusione della scelta.

Quella danza si svela nei titoli di coda, in cui tutto il cast si serve della scenografia del supermercato per mostrare finalmente una coreografia di passi. Come marionette si muovono tra le corsie, al servizio di azioni che si ripetono, ancora e ancora, che fanno parte ormai della loro vita. Su questa idea chiave White Noise si sviluppa, raccontando gli eventi che coinvolgono la famiglia di Jack Gladney (Adam Driver) e sua moglie Babette (Greta Gerwig).

Quella danza è l’adesione silenziosa di esseri umani prigionieri di uno stile di vita al servizio del consumismo e fagocitati dall’attrazione verso incidenti e tragedie, ma sempre a una giusta distanza dalla propria casa.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Trasporre lo stile postmoderno di DeLillo in un film

Il libro di DeLillo è diviso in tre parti, così come il film, ed è uno dei massimi esempi di quello che può essere definito un romanzo postmoderno. Il rumore bianco è quell’affollato sottostrato di elaborazioni mentali (spesso fini a se stesse) intaccate dalla paranoia, il sibilo prodotto dai media, dal capitalismo e dalle nuove tecnologie che vanno a modificare la quotidianità. E la paura delle cospirazioni, il dubbio che ogni cosa fosse migliore prima. Ma soprattutto la paura di morire, onnipresente come un rumore bianco che avvolge ogni cosa senza mostrarsi mai agli occhi.

Ambientato nel 1984, White Noise apre uno squarcio su un’epoca affetta da insicurezze, dove improvvisamente le cose vanno più veloci e i figli sono una nuova generazione di esseri umani più attenti e intelligenti (che parlano come enciclopedie). Un’epoca in cui i grandi miti della modernità sono gli unici punti di riferimento a cui votare la propria attenzione.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Nel libro, come nel film, Jack è il massimo esperto di Hitler studies (studi hitleriani), campo di ricerca da lui stesso inventato. Quando con la sua toga nera dona agli studenti vere e proprie performance sul “mito” di una figura storica così controversa, si trasforma, indossando una maschera che toglie prima di tornare a casa, dai figli. Lo stesso vale per Babette, insegnante di ginnastica posturale e madre attenta sempre pronta a confidarsi con suo marito, che però segretamente assume un farmaco sconosciuto chiamato Dylar che le causa preoccupanti vuoti di memoria. Entrambi sono terrorizzati dalla morte, ci pensano costantemente, è il tappeto invisibile su cui le loro certezze da famiglia borghese scivolano.

La cultura americana si sovrappone all’interpretazione di essa, l’indole problematica di donne e uomini moderni (post moderni) si perde nel terrore di essere ingannati: dal governo, dagli alieni, dalla morte. E lasciare che il sentimento primitivo di sopravvivenza metta a tacere per un po’ la necessità di interpretare ogni cosa diventa una possibile boccata d’aria.

La voce di DeLillo e la sua lettura sarcastica di una deriva della società e di chi la compone viene trasposta nel film con attenzione. Le tematiche costanti nella sua letteratura sono tutte presenti nel lavoro di Baumbach, che le fa sue.

L’esposizione alla nube tossica – La paura di morire che diventa tangibile

Nella seconda parte una nube tossica di rifiuti chimici minaccia la città. Proprio qui l’alternanza dei toni della scrittura di DeLillo prende corpo nel film. La modulazione di registro avviene tra la noncuranza di Jack nei confronti di quello che sta per diventare un disastro ambientale al terrore di ammalarsi per un’esposizione di un paio di minuti, e di morire, ovviamente.

La famiglia Gladney diventa effettivamente parte di una folla in fuga, alla ricerca della sopravvivenza. Un gruppo di persone unite da un unico scopo, ma anche trascinate dall’impeto di non morire. Come la folla al seguito dei proclami di Hitler, che allontanava il concetto di morte, noncurante della distruzione altrui. O la folla che secondo il collega di Jack, il prof. Murray Siskind (Don Cheadle), venerava un re come Elvis, alla ricerca di salvezza.

La luce sui personaggi cambia e proietta diversamente l’attenzione, portando la storia dalla comedy al disaster movie, diventando poi un thriller e finendo con la commedia romantica. Il tutto continuamente attraversato da domande, confronti, descrizioni e flussi di coscienza. Dalla necessità di interpretare tutto, sempre. Questo è il postmoderno che diventa cinema.

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Il Pinocchio di Guillermo Del Toro: una favola politica

Una scena del Pinocchio di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

A neanche mezz’ora dall’inizio del film d’animazione Pinocchio diretto da Guillermo Del Toro con Mark Gustafson (qui la nostra recensione), il burattino, in una delle sue prime, gioiose “disubbidienze” esce di casa per raggiungere il babbo nella chiesa del paese. Un campo lungo ci mostra il protagonista che attraversa, entusiasta e dinoccolato, una via del piccolo centro. A sovrastarlo, tracciate sulla facciata di una casa, un’effigie mussoliniana in elmetto e le parole d’ordine dell’ideologia fascista «credere, obbedire, combattere». È l’immagine che prima e meglio di tutte ci mostra l’operazione compiuta dal cineasta messicano sul testo di Carlo Collodi (pubblicato per la prima volta nel 1883), spostato nell’Italia del Ventennio e riletto in chiave squisitamente politica.

Ed è senz’altro uno degli aspetti più significativi di questa nuova trasposizione del celebre romanzo. Una rivisitazione perfettamente coerente con la poetica del regista de Il labirinto del fauno, ma anche il punto d’arrivo di una tradizione di reinterpretazioni dell’opera originaria che ne hanno, da un lato, rimaneggiato sino al ribaltamento la pedagogia, e dall’altro, liberato i tratti di allegoria satirica, in forma favolistica, di una società che, neanche a dirlo, dal suo dato momento storico riverbera il suo potenziale critico sul nostro presente.

Favole e fiabe, burattini e ragazzini perbene

Tra le molte e fertili ambiguità strutturali che un testo come Le avventure di Pinocchio presenta e porta con sé nelle varie trasposizioni, c’è sicuramente quella tra fiaba e favola. L’una e l’altra, spesso considerate sinonimi, sono in realtà due generi diversi, dove la prima ci porta tradizionalmente in un mondo altro o comunque visitato dal soprannaturale. L’altra, se risaliamo quantomeno ai testi di Esopo e poi di Fedro, è finalizzata a trasmettere insegnamenti morali e si mantiene, al netto delle apparenze, saldamente ancorata alle leggi, spesso crudeli, della natura e della realtà comunemente intese. Il lupo e l’agnello esopici vengono fatti parlare solo per meglio ribadire l’immutabile gerarchia tra l’uno e l’altro, tra la vittima e il carnefice. Nessun intervento magico o metafisico potrà cambiare le cose.

Pinocchio impiccato in un’illustrazione di Enrico Mazzanti dalla prima edizione del romanzo di Collodi. Credits: web.

Il Pinocchio di Collodi è, a ben vedere, sia una fiaba che una favola. Il magico è presente ed è stata una delle componenti più enfatizzate negli adattamenti (pensiamo solo a quello disneyano), tra fate e metamorfosi di ragazzini in asini. Ma è più spesso la logica della favola a prendersi la scena, almeno sulla pagina scritta. Il burattino parlante serve essenzialmente a parlarci di una società molto concreta in cui è calato e del ruolo che dovrà assumere all’interno di essa.

In modo molto poco magico, il protagonista viene derubato, impiccato, truffato, incarcerato ingiustamente, amnistiato, accusato di furto da un coltivatore che lo costringe a fargli da cane. È maltrattato e rimproverato dagli adulti in carne e ossa ogni volta che domanda qualcosa da mangiare senza offrirsi in cambio come manodopera da sfruttare. La sua è un’educazione ai valori, brutali, di un’Italia contadina povera dove l’universalità dei diritti (anche dell’infanzia) è un concetto assente sul piano teorico e pratico. E l’unico riscatto sociale sta nel lavoro, dentro e fuori le aule scolastiche, per diventare un «ragazzino perbene» (come si autoproclama alla fine il personaggio) perfettamente allineato ai dettami di laboriosità, parsimonia, rispetto degli affetti familiari e ubbidienza alle autorità del contesto in cui vive.

Ma la ricchezza espressiva con cui la favola di Pinocchio veicola la sua morale ha fatto sì che le sue presenze e situazioni allegoriche servissero nel tempo sensibilità e discorsi sociali diversi, quando non opposti. Pensiamo, tra i tanti esempi possibili nella nostra cultura pop, allo sceneggiato Rai (1972) di Luigi Comencini (e Suso Cecchi D’Amico). Siamo nella tv a tutela democristiana, è vero, ma anche nel post-Sessantotto. E così la trasformazione finale del burattino in bambino “vero” non è più un premio alla raggiunta probità ma la dismissione di una pedagogia punitiva sconfessata per bocca del Geppetto di Nino Manfredi.

Nell’album Burattino senza fili (1977) di Edoardo Bennato, i presupposti ideologici del romanzo sono addirittura ribaltati in un elogio della marionetta anarchica contrapposta al ragazzino in carne ed ossa ormai integratosi nel vuoto razionalismo di una società conformista, sessista, guerrafondaia. Persino le riletture meno fortunate del libro, come quelle cinematografiche di Francesco Nuti (OcchioPinocchio, 1994) e Roberto Benigni (Pinocchio, 2002) riflettono comunque un mutato paradigma storico-culturale. Mostrandoci un protagonista che sceglie di fuggire dall’educazione del babbo banchiere (in Nuti) o riservando una particolare simpatia al trasgressivo Lucignolo (in Benigni). Da oltre un secolo, insomma, parlare di Pinocchio significa parlare non solo della società che fu (e che è), ma di come cambia il nostro sguardo su di essa.

Una marionetta eversiva nell’Italia di Mussolini

Guillermo Del Toro non può che trovare terreno fertile nella dialettica di invenzione fantastica e adesione critica a coordinate storiche reali che è la cifra del romanzo di Collodi. In questo senso lo spostamento in avanti dell’ambientazione nel film Netflix funziona da potenziamento della rappresentazione di conformismi e oscurantismi già presenti nell’Italia postunitaria e che il fascismo esalta, facendone strumento di consenso e controllo politico.

Benito Mussolini (al centro) in una scena del Pinocchio di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

Nel cinema del regista, non a caso, le dittature di destra sono l’espressione al massimo grado di pulsioni autoritarie che possiamo comunque ritrovare in altri contesti. Dagli USA dei perbenisti anni ’50 che depredavano (non solo allora) l’America Latina (La forma dell’acqua) al microcosmo dei luna-park che schiavizzano alcolisti nullatenenti (Nightmare Alley). Il lato oscuro dell’ordinamento sociale si misura in particolare nel trattamento che riserva a quanti considera diversi, irregolari, dissenzienti. Devianti. Come un burattino parlante nell’Italia di Mussolini.

Tanto il fascismo quanto la marionetta vivente, d’altronde, sono figli della medesima tragedia politica: la guerra, che causa la morte del piccolo Carlo, primo figlio del falegname vedovo Geppetto in questa trasposizione. Dalla catastrofe bellica deriva tanto l’involuzione totalitaria di un Paese all’insegna di nazionalismo, militarismo e irreggimentazione delle gerarchie sociali, quanto il suo opposto. Una nuova vita all’insegna della libera, spontanea, infantile messa in dubbio di ogni regola e convenzione.

Il Pinocchio di Del Toro è, inconsapevolmente, eversivo. Burocraticamente (una nascita non registrata, non classificata né classificabile), socialmente (il podestà inizialmente impone al babbo di mandarlo a scuola perché la sua mente sia «disciplinata») e persino religiosamente. «Piace proprio a tutti, lui. Cantavano tutti, per lui. Ed è fatto di legno. Perché tutti amano lui e non me?», domanda al babbo indicando il Crocefisso sopra di loro. Rimarcando inconsapevole le contraddizioni di una chiesa legata al potere politico, ma anche l’affinità col Gesù storico, altro illustre perseguitato e maledetto dalla legge (e dal clero) ufficiale.

L’unica possibile integrazione offerta dal sistema che marginalizza e ostracizza le differenze è quella tutta subordinata all’assimilazione socio-culturale e allo sfruttamento. Ecco allora che il podestà fascista scopre nel burattino virtualmente immortale il “soldato perfetto”. Da tradurre in un Paese dei Balocchi riconfigurato come campo di addestramento militare per minori (realizzazione plastica dello slogan “Libro e moschetto, fascista perfetto”). Dove allo stesso figlio del podestà, Lucignolo, viene imposto il viatico per la virilità di regime attraverso la violenza sul corpo “rigenerabile” di Pinocchio.

L’altra faccia del potere e la sua messa in crisi

Il tentativo di negare l’umanità e la libertà del bambino di legno da parte dell’ordine sociale ha un altro e non meno significativo volto. Il Conte Volpe, avido e cialtrone imprenditore del teatro di marionette che vuole fare di Pinocchio la sua (non retribuita) star, incarna la realtà economica del medesimo sistema di oppressione rappresentato dal regime mussoliniano. L’uno e l’altro solo apparentemente concorrenti nel volersi accaparrare l’esclusiva sul burattino, in realtà ben integrati e speculari. Lo evidenzia plasticamente la sequenza della visita di Mussolini (lui sì vero, grottesco pupazzo tra i pupazzi in stop-motion) allo spettacolo. Dove è la verve anarcoide di Pinocchio a rompere gli equilibri che rendono lo show-business funzionale al potere politico, con uno sberleffo carnevalesco che ridicolizza il duce e scatena la distruttiva ritorsione censoria.

Pinocchio e il Conte Volpe in una scena del film di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

Di più, Del Toro, rimaneggiando con assoluta libertà la figura del Mangiafuoco di Collodi, separa il burattinaio dal capitalista affidando il primo ruolo a un altro sottoposto sfruttato, la scimmia emblematicamente denominata “Spazzatura”, in un’ulteriore riduzione a oggetto (di scarto) della forza lavoro. La conversione di questo personaggio in alleato del protagonista nell’ultima parte del film è speculare all’emancipazione di Lucignolo dall’autorità paterna, e corrobora il portato rivoluzionario del burattino nel suo percorso di crescita.

Chiaramente, allora, non è più la marionetta a dover redimere se stessa guadagnandosi la mutazione-promozione in “ragazzino perbene”, ma il mondo che lo circonda a doversi redimere dai suoi pregiudizi e ingiustizie con l’aiuto del suo elemento più anomalo. Il quale, nella longevità che lo contraddistingue, si fa implicitamente anche depositario della memoria di quanto è stato, non solo nella sua parabola individuale e familiare, ma anche nella società che rischia (sempre) di dimenticare e restaurare le pagine più buie della sua Storia.

Come nell’Italia di oggi, che pare voler rafforzare a tutti i costi il cortocircuito tra la sua realtà e la favola di Del Toro. Tra massimi rappresentanti delle istituzioni che celebrano le proprie radici (neo)fasciste e ministri che rivalutano un’idea pedagogica basata su castigo e umiliazione. Dove i diritti sono subordinati al “merito” e la colpevolizzazione di chi (giovani e meno) non vuole sottostare a condizioni di lavoro inique e alienanti è all’ordine del giorno. D’altronde, il burattino senza fili del regista messicano proietta il suo potenziale allegorico ben oltre le miserie di casa nostra. Facendosi giocoso sabotatore di un intero modello sociale, lo stesso che ci sta portando ogni giorno di più sull’orlo del baratro.

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Lukas Dhont splendeva già da “Girl” (2018)

Girl

Un salto nel vuoto, più difficile di quanto si creda: l’opera prima per un regista, dopo gli immancabili cortometraggi, è quasi sempre un potenziale inespresso, intrappolato in idee troppo più grandi ed elaborate rispetto ai propri mezzi. Quando si ha la fortuna di incrociare sulla propria strada un esordio perfetto, bisogna celebrarlo. È il caso di Girl, il film che ha rivelato la sensibilità e la mano di Lukas Dhont, regista belga che al momento della presentazione del film a Cannes (2018) aveva appena 27 anni. Quell’anno vinse la Caméra d’or, il premio riservato alle opere prime, ma già con il suo secondo lavoro, Close, ha riconquistato la Croisette ottenendo il Grand Prix.

Girl è la storia di Lara (interpretata da Victor Polster), una ballerina transgender, una ragazza intrappolata in un corpo maschile, che sogna di diventare étoile. Con il totale sostegno del padre, inizia a frequentare la scuola di danza più prestigiosa del Belgio, preparandosi contemporaneamente all’intervento chirurgico. Nonostante Lara non incontri resistenze violente o pregiudizi nella vita quotidiana, non riesce ugualmente a vivere in modo sereno il periodo delicato dell’adolescenza. È impaziente di veder finalmente coincidere l’idea che ha di sé con l’immagine del proprio corpo. La sua stessa incapacità e impossibilità di accettare i tempi psicologici e fisici richiesti nel suo caso la porteranno a una scelta dolorosa ma per lei necessaria.

Il percorso per arrivare a Girl 

L’idea di Girl nasce da una storia vera, quella di Nora, poi contattata dal regista, e da un articolo che Lukas Dhont lesse nel 2009, circa dieci anni prima della realizzazione del film. In quel caso la scuola di danza non permetteva alla ballerina di trasferirsi dai corsi maschili a quelli femminili. Spostando così il focus su un conflitto tutto interno anziché esterno, il regista ha scelto subito di farne una storia per il grande schermo.

L’idea centrale, quella che ha subito attratto Dhont, è la centralità del corpo nella professione della danza e quindi il nucleo drammatico che lo stesso corpo di Lara rappresenta. La tensione fra la danza in sé come disciplina molto fisica e la dismorfia di genere di Lara si traduce in uno stile di regia forte, in grado di dialogare con il pubblico: una macchina a mano in costante movimento dentro le coreografie e dentro il tumulto dei pensieri della protagonista.

La struttura nettamente binaria del balletto, inoltre, permette a Dhont – regista queer – di pronunciarsi contro l’eteronormatività, contro l’idea del “conformarsi” a un ideale che finisce solo per ferire le persone e le loro identità, ben più complesse di un’etichetta. Ed è questo un tema che si ripete anche nel suo secondo film (Close), diventando un suo tema autoriale.

Girl è un film che ha tanto da dire e continuerà a farlo per molto tempo dopo la prima visione. Se state cercando una storia con cui dialogare, è questa.

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Niente di nuovo sul fronte occidentale – La follia di una guerra, di ogni guerra

Felix Kammerer in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Credits: Netflix.
Felix Kammerer in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Credits: Netflix.

Se ai nostri tempi essere pacifisti in Europa non va troppo di moda (si rischia di essere tacciati di complicità con l’autocrate russo invasore dell’Ucraina), le cose, almeno in certi stati, andavano ancora peggio quando comparve il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929). Scritto da Erich Maria Remarque, il libro ispirò una coeva versione cinematografica hollywoodiana diretta da Lewis Milestone. L’una e l’altra opera osteggiate con violenza e poi proibite tanto dal nazismo in Germania quanto dal fascismo in Italia.

E certo i figli totalitari del delirio nazionalista che portò alla carneficina della Prima guerra mondiale (destinati a provocare la Seconda) non potevano gradire il racconto crudamente antiretorico di quel conflitto di trincee, cadaveri e fango. Ovvero, la storia di come un’intera generazione di ragazzi neanche ventenni fu indotta ad arruolarsi dalla propaganda dei peggiori tra i loro maestri. Uscendone morti o mutilati nel corpo e nella psiche.

Di questo parlano il romanzo, il suo primo adattamento filmico (che vinse l’Oscar nella stagione 1929-30 e il cui produttore Carl Laemmle Jr. fu candidato al Nobel per la pace) e quello più recente (dopo un’altra trasposizione di Delbert Mann nel 1979) diretto da Edward Berger, disponibile su Netflix e in corsa per il Golden Globe come Miglior film in lingua non inglese. Co-produce non a caso la Germania (che ha candidato il lungometraggio agli Oscar 2023), ovvero il Paese dal cui punto di vista è raccontata la tragica vicenda dei giovani protagonisti tra il 1917 e il 1918.

Sono gli sconfitti di quella guerra incancrenitasi sul “fronte occidentale” dove tedeschi e francesi (con relativi alleati) si uccidevano di trincea in trincea per poche centinaia di metri sottratti e riconquistati al nemico. Ma in realtà sconfitti lo sono tutti, almeno tra coloro che, da una parte e dall’altra, devono fungere da carne viva per le macabre partite delle loro classi dirigenti che si trincerano, oggi come allora, non dietro i corridoi di terra e filo spinato ma dietro potere, privilegi e verità distorte.

Un massacro senza riscatto

Come avrebbe potuto essere la vita del diciassettenne Paul Bäumer (Felix Kammerer), protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale, se nella primavera del 1917 non si fosse lanciato volontario, con i compagni di scuola Albert, Franz e Ludwig, in quella guerra che il loro attempato insegnante gli aveva dipinto come una doverosa e grandiosa occasione di diventare uomini? Ce lo domandiamo ad ogni momento in cui la macchina da presa si sofferma sul volto magro e pallido di quel giovane che uomo non potrà diventarlo mai. Perché, come ben presto lui e suoi amici dovranno constatare, al fronte chi non muore dilaniato da una bomba, perforato da un proiettile o infilzato da una baionetta, perde comunque un pezzo (morale, quando non fisico) di se stesso, che nemmeno la futura pace potrà restituirgli.

Felix Kammerer (a destra) in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Credits: Netflix.

È un romanzo di formazione alla rovescia, Niente di nuovo sul fronte occidentale. E, per certi versi, una tragedia familiare estesa a un’intera società. Società in cui i “genitori” (governanti, generali, docenti) mandano a morire sotto le armi i loro figli, inducendo al martirio i più giovani e coccolati.

Tra questi, gli adolescenti borghesi che possono ancora scegliere il loro destino dai banchi della loro istruzione e che finiscono divorati dalle (non)logiche di politici e capi militari, trovando forse gli unici possibili padri alternativi nei soldati più anziani. Tra un consiglio per non farsi ammazzare e un pasto faticosamente rubato a giorni di fame, sono quelli che dispensano alle reclute gli unici scampoli di solidarietà possibile nel mondo ai confini del mondo della trincea. Come ci mostra il rapporto tra l’imberbe Paul e il più maturo Kat (Albrecht Schuch), calzolaio che intesse con l’altro un’amicizia proiettata temporaneamente oltre le distanze di classe e l’orrore quotidiano del conflitto.

Ma è solo una parentesi, precaria quanto la vita stessa in quel contesto disperato. Niente di nuovo sul fronte occidentale non è, per fortuna, Salvate il soldato Ryan né il recente 1917 di Sam Mendes, pur mostrando di tenerne conto in momenti come il piano-sequenza iniziale e nella brutale efficacia della rappresentazione di ciò che la guerra fa sui corpi di chi la combatte. Stavolta però il pacifismo è radicale, non ci sono vincoli camerateschi né atti di eroismo che possano redimere i destini degli individui o delle nazioni. L’assurda carneficina travolge tutti senza catarsi né riscatti possibili. Lascia ai superstiti solo cicatrici, mucchi di cadaveri da contare e seppellire e un mondo, con le sue vane illusioni, ridotto in macerie.

Trasposizioni a confronto

Questa radicalità nella critica alla guerra (ad ogni guerra) è condivisa tanto dal film di Berger quanto da quello di Milestone ed è inevitabile un paragone tra l’uno e l’altro. Se il war-movie del 1930 (uscito in Italia col titolo All’ovest niente di nuovo, traduzione letterale di quello del romanzo, Im Westen nichts Neues) aveva fatto la storia del genere anche dal punto di vista formale, con un uso inedito delle carrellate laterali e delle soggettive nelle scene di battaglia, il nuovo adattamento è meno dirompente ma comunque efficace. Merito soprattutto della fotografia diretta da James Friend, che ammanta personaggi e ambienti di tonalità sospese tra naturalismo ed espressionismo, dai contrasti delle ombre con le tinte ocra e rosse dell’inferno circostante alle luci fredde dei totali su una natura che fa da teatro muto alla (auto)distruzione delle masse umane.

Una scena di All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone. Credits: web.

Non sempre, invece, il remake tedesco regge il confronto con la vecchia trasposizione nella gestione della materia narrativa. Troppo asciugati alcuni episodi, come quello, davvero fondamentale, della predicazione nazionalista del professore agli allievi. Con l’assenza, per giunta, di uno dei brani più significativi del film di Milestone, quello in cui Paul, temporaneamente in licenza, torna a casa, scoprendosi ormai irrimediabilmente estraneo a una società civile la cui visione del conflitto è viziata dalla retorica bellicista.

Ritroviamo invece un’altra sequenza emblematica, lo scontro tra Paul e il soldato francese che ferirà per poi pentirsene (sconvolto dai rantoli del moribondo) e tentare di salvarlo. Ma troppo poco spazio è dedicato a momenti come la sopravvivenza nel bunker preso d’assalto dai bombardamenti, dove il primo film, nel prolungarsi dell’attesa tra rombi martellanti dall’esterno e morsi della fame all’interno, restituiva al massimo grado un conflitto fatto anche, e soprattutto, di estenuanti “pause”.

Daniel Brühl in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Credits: Netflix.

In compenso, Berger (anche sceneggiatore con Ian Stokell e Lesley Paterson) ci mostra, parallelamente alla quotidianità in trincea, la non meno drammatica partita della diplomazia. Con la figura di Matthias Erzberger (Daniel Brühl), leader della nuova maggioranza politica nata col disfacimento della Germania del Kaiser, che si ritrova di fronte alla scelta di un armistizio umiliante per il suo Paese ma necessario a impedire altri morti.

Questa sottotrama arricchisce l’affresco storico dipinto dal film, mostrandoci la miopia (se non il fanatismo) di vincitori e vinti, aggressori e aggrediti colpevoli di rifiutare le ragioni del compromesso, le uniche a poter garantire una pace duratura. Quella che non ci sarà, come viene ricordato a più riprese mostrandoci il campo minato di rancori, vendette e ferite esteso dai tronfi generali ai bambini ormai orfani di qualunque innocenza, terreno fertile per un nuovo conflitto. Davvero niente di nuovo, oggi come un secolo fa.

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Serie TV 2022: le migliori secondo la redazione

Serie TV 2022: le migliori secondo la redazione
Serie TV 2022: le migliori secondo la redazione

Ne divoriamo una o due al mese, forse di più. Ore e ore di episodi che diventano parte di noi, di come parliamo, di cosa parliamo, di cosa memiamo. È impossibile fare una classifica completa delle più belle serie TV del 2022, ne abbiamo viste troppe. Ci limitiamo a consigliarvi le nostre preferite.

Pam & Tommy | Su Disney+

Fondamentalmente una storia d’amore, quella tra Pamela Anderson e Tommy Lee, raccontata da Craig Gillespie che ci mette tutto il suo stile pop, fuso alla lettura dei fatti storici e all’interpretazione del dramma e degli eventi accaduti durante lo scapestrato matrimonio tra la bionda attrice di Baywatch e il batterista dei Mötley Crüe. La fine degli anni ’90 coincide con la fine di quell’amore, più precisamente quando la vendetta di un uomo scontento del temperamento di Tommy Lee si abbatte su quel sentimento, frantumandolo e ripassandoci sopra, ma soprattutto distruggendo per sempre l’immagine pubblica di Pamela Anderson.

La storia la conosciamo tutti ma non è mai stata raccontata come l’ha fatto Gillespie: Pam & Tommy è la favola che poteva essere, è la deriva degli insuccessi e del tempo che passa, è l’inizio della propria privacy spiattellata sullo sporco, anonimo e irrintracciabile World Wide Web. Più di qualsiasi altra cosa, però, è un ragionamento sul corpo femminile: cosa deve sopportare Pamela per dimostrare che, nonostante il proprio lavoro basato sull’apparenza, quel corpo è suo e di nessun altro e dovrebbe essere l’unica a decidere quanto, come e dove mostrarlo? Qui la recensione integrale.

Silvia Pezzopane

Pam & Tommy
Pam & Tommy, Disney+

Atlanta | Su Disney+

Fino all’ultimo ha combattuto testa a testa con The Bear e Scissione nella mia personale classifica del 2022, ma poi Atlanta vince sempre, perché non esiste niente che le somigli. Il 2022 ha visto la sua conclusione dopo anni di attesa, con la terza e la quarta stagione che negli USA sono uscite a distanza di pochi mesi, come un tutt’uno. Cosa che ha perfettamente senso, dato che la terza stagione, l’ultima al momento disponibile in Italia, è incompleta e composta da cinque episodi antologici su dieci. Cinque storie verticali e autoconclusive in cui non solo la trama principale si blocca e lascia spazio a digressioni stilistiche ed esperimenti narrativi, ma in cui gli stessi protagonisti non sono inclusi. Non lasciatevi scoraggiare dall’apparente mancanza di senso, che spesso vi porterà su Google a cercare dimettere ordine tra i vostri pensieri.

Ogni episodio è più entusiasmante dell’altro, se vi lasciate trasportare dove Hiro Murai (principale regista) e Donald Glover (autore e co-protagonista) decidono di trascinarvi. Può essere un luogo della mente, un trip di allucinogeni, un non meglio identificato universo parallelo in cui tutti i personaggi cambiano identità per la durata di un solo episodio. O ancora, un modo di dire, uno stereotipo, un atteggiamento che con precisa e irresistibile ironia diventano il fulcro di intere sceneggiature di trenta minuti. L’obiettivo di Atlanta è sempre quello di scardinare i punti di riferimento di chi la guarda, ribaltando la prospettiva e le certezze del pubblico generalista.

Valeria Verbaro

Atlanta, FX

Better Call Saul, stagione 6 | Su Netflix

L’ultima stagione sulla discesa agli inferi di Jimmy McGill e l’ascesa del cinico avvocato Saul Goodman non è stata solo la coronazione, coerente nei minimi dettagli, di una storia iniziata quasi quindici anni fa col primo episodio di Breaking Bad. È stata l’apoteosi della serialità come arte autonoma, nipote della letteratura e sorella (non più minore) del cinema.

Esaltandone lo specifico nella minuziosa tessitura dei particolari che sedimentano, maturano e liberano significato di capitolo in capitolo, nella dialettica di pause e accelerazioni, attese e sorprese, nel progressivo cesellamento di figure che acquistano nell’immaginario la consistenza di individui reali.

Come il protagonista e la partner che gli ruba (davvero) la scena, due facce di un unico discorso sulle contraddizioni dell’umano, fra amore e solitudine, colpa e redenzione, legge e giustizia, scelta e fato. Con loro e con gli altri tasselli di questa grande opera collettiva, il prequel e il sequel riscrivono se stessi. Inseguendo, raggiungendo e superando il (capo)lavoro di partenza.

Emanuele Bucci

Better Call Saul Emmy
Better Call Saul, Netflix

Il Signore degli Anelli – Gli anelli del potere | Su Prime Video

La trepidante attesa del ritorno nella Terra di Mezzo di Tolkien è stata la costante estiva che ha accumunato gli appassionati de Il Signore degli Anelli, che il 2 settembre hanno finalmente visto esaudirsi il loro desiderio. Composta da otto episodi disponibili su Prime Video, Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere è ambientata nell’epoca della Seconda Era della Terra di mezzo e racconta l’ascesa di Sauron e la forgiatura degli Anelli del Potere.

Il rischio di cadere all’interno di una banalizzazione della saga madre era dietro l’angolo, ma questa serie TV, nonostante alcuni difetti, argina il pericolo presentandosi come un prodotto ambizioso e più che riuscito. La messa in scena mastodontica, la fotografia rivelatrice di senso, le musiche soavi, i personaggi – sia nuovi che già conosciuti – e la storia hanno contribuito a donare a noi spettatori una sola sensazione: un ritorno a casa. Qui la recensione integrale.

Rebecca Fulgosi

Gli Anelli del potere. Amazon Prime Video.
Gli Anelli del potere. Amazon Prime Video.

Boris 4 | Su Disney+

E poi, ci sono certe cose che non fai perché ti sono state imposte, ma perché te le senti. Cose che non sono obblighi di lavoro o di contratto, ma creazioni che vengono dal cuore. O magari, dagli occhi del cuore: quelli di Boris, la serie che ha fatto di questa espressione una risata. E che sembrava essersi interrotta dopo la morte di Mattia Torre, uno dei tre mitici sceneggiatori che a Boris hanno dato l’anima. Perché nessuno, dagli attori ad ogni singolo componente della troupe, avrebbe più voluto realizzare anche solo una puntata. Se non per celebrarlo, a modo loro, a modo suo, con questa quarta stagione che fa rinascere quella risata e la spinge talmente a fondo da arrivare a commuovere. Una risata che viene dal cuore, o meglio: dai suoi occhi.

Alessio Tommasoli

Boris 4, Disney+

Cabinets of Curiosities | Su Netflix

Cabinets of Curiosities è un vero e proprio caleidoscopio di orrori e meraviglie, un’esperienza visiva e sensoriale unica. Guillermo Del Toro introduce ogni episodio come se stesse presentando uno spettacolo di cabaret, parlando come il presentatore di un circo. Ed è proprio questa l’essenza della serie: racconti antologici che si aprono davanti al pubblico come scrigni di stupore e terrore, delle vere e proprie attrazioni. Con questa serie, Del Toro è riuscito a dipingere alla perfezione il concetto di sublime: qualcosa di magnifico e spaventoso al tempo stesso.

Altro dettaglio non trascurabile, il regista è lo showrunner della serie, ma ha dato ampio spazio a registi sconosciuti, preziosa visibilità in un mondo complicato come quello dell’industria cinematografica e seriale. Dal momento che la serie ricalca le atmosfere lovecraftiane e che alcuni episodi sono tratti da racconti di Lovecraft, è chiaro che il regista stia facendo le “prove generali” prima di coronare il sogno della sua vita: la messa in scena cinematografica de Le montagne della follia. Prova generale, a mio avviso, ampiamente superata.

Giulia Losi

Cabinets of Curiosities, Netflix

Leggi anche la selezione dei migliori film del 2022, scelti dalla redazione.

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Film 2022: i migliori secondo la redazione

Film 2022: i migliori secondo la redazione
Film 2022: i migliori secondo la redazione

Non sono stati anni facili, per il cinema, e ancora la ripresa deve compiersi del tutto: sono gli spettatori a mancare, a dover ritrovare il piacere di ritrovarsi in una sala buia a condividere le stesse emozioni, gli stessi respiri. Mentre speriamo di ritrovare le sale piene nel 2023, guardiamo indietro verso l’anno appena trascorso, ricchissimo di film che ci hanno fatto sognare, emozionare, evadere o riflettere. In una stagione ricca di bellissime storie, questi sono i film migliori del 2022 secondo FRAMED.

Siccità di Paolo Virzì e Spencer di Pablo LarraínEx aequo

Siccità di Paolo Virzì

Paolo Virzì prosciuga Roma per Siccità, presentato fuori concorso a Venezia79. Mette in scena il presente che ha la forma apocalittica di un mondo che sentiamo vicinissimo. Attraverso un crocevia di storie ci racconta che siamo il risultato di corsi e ricorsi, quello che è già successo è destinato a ripetersi. La sete come il dramma, la malattia come l’amore. In una disperata rappresentazione di umanità anche i sogni e le speranze hanno il loro ruolo e la luce gialla di una città senza pioggia riempie lo sguardo, si fa spazio attraverso la polvere, riflette la terra devastata e assetata, così come gli individui che la abitano. E ognuno è necessario per far muovere il meccanismo, fino a quella prima, miracolosa, goccia d’acqua. Qui la recensione integrale.

Siccità
@ Greta De Lazzaris

Spencer di Pablo Larraín

Un anno intenso per la rappresentazione della principessa del Galles, nella serialità e nel cinema. Pablo Larraín la ricopre di un’aura mistica, al tempo stesso descrivendola nella sua più fragile e deperibile umanità. Interpretata da Kristen Stewart, in Spencer, Diana è risucchiata al centro di un dramma che altro non è che quell’ultimo incubo prima di svegliarsi abbandonando i panni della principessa per riconquistarsi quelli della donna.

Sull’orlo di un precipizio, pesantissima e leggerissima insieme, si sente sempre sul punto di cadere e le immagini del reale si sfaldano nelle proiezioni mentali di una preda braccata. Soffocante e lirico, un biopic unico come un concerto improvvisato di free jazz, che non sappiamo che suoni intraprenderà. Qui la recensione integrale.

Spencer. Leone Film Group, 01 Distribution
Spencer. Leone Film Group, 01 Distribution

Silvia Pezzopane

Close di Lukas Dhont

Sì, è vero, Close in Italia non arriva in tempo per chiudere l’anno, perché è in programma in sala dal 4 gennaio. Non sarebbe giusto però, per questo, dimenticare che è il Gran Prix di Cannes, oltre che forse il film più emozionante del 2022. Il ritorno di Lukas Dhont dopo Girl non poteva che essere una storia altrettanto forte, raccontata con la delicatezza leggera del suo sguardo.

Scava nel suo passato, il regista, alla ricerca di quella sensazione di inadeguatezza che si prova nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, soprattutto quando non ci si riconosce nella visione duale e convenzionale del maschile e del femminile, dell’eteronormatività. Close è il racconto di un’amicizia, forse di un amore, ma soprattutto della scoperta di sé, che avviene gradualmente e proprio quando non si è ancora pronti a porsi le domande giuste, ma sono loro a colpirti forte, senza tregua. La luce e le inquadrature di Dhont vi faranno innamorare di colori che non sapevate nemmeno di conoscere. Gli sguardi dei giovanissimi Eden Dambrine e Gustav De Waele vi gonfieranno gli occhi di lacrime, ma ne varrà la pena. Qui la recensione integrale.

Valeria Verbaro

Close Lukas Dhont
Close – Credit: Kris Dewitte

Crimes of the Future di David Cronenberg

A otto anni dall’ultimo lungometraggio, il maestro della Nuova Carne David Cronenberg ci ha offerto con Crimes of the Future un altro lucidissimo incubo sull’apocalisse dei corpi postmoderni. È riuscito a spiazzare, sedurre e scioccare persino il pubblico di un’epoca, la nostra, in cui la realtà va superando ogni distopia.

Nell’anti-Eden dei peccati che verranno ci sono bambini che fagocitano plastica, artisti che estraggono i propri tumori come performance teatrali e tagli chirurgici assurti a nuova frontiera degli amplessi. Non contano tanto la trama da fumoso hard boiled o la costruzione di un mondo con pretese di verosimiglianza. Quello del regista canadese è (ancora) prima di tutto visione allucinata. Pamphlet satirico che parla il linguaggio contraddittorio delle pulsioni. Incisione nel profondo di una società, di un immaginario e delle sue derive, dove il confine tra evoluzione e decadimento è smarrito. Cinema che ritorna al futuro, in tutta la sua conturbante potenza.

Emanuele Bucci

Crimes of the Future di David Cronenberg

Finale a sorpresa – Official Competition di Mariano Cohn e Gastón Duprat

Con i suoi spazi monumentali e il dialogo continuo tra i diversi piani dell’immagine, Official Competition è una riflessione sull’industria dello spettacolo che procede per variazioni impercettibili: di punto di vista, di registro, di relazioni tra i personaggi. Ogni frammento narrativo compare in tre forme all’interno del film. In forma simbolica, come manifesto della missione artistica dei protagonisti. In forma ironica, come commento beffardo all’improbabile seriosità della missione. In forma residuale, come scarto materiale privo di senso ulteriore.

Ne viene fuori una rappresentazione che fa collidere ridicolo e sublime in una sorta di humor siderale rarefatto: lontano, sfuggente, eppure chiaramente distinguibile.

Michela Zedda

Antonio Banderas, Penélope Cruz e Oscar Martínez in Competencia oficial.
Competencia oficial (2021), diretto da Mariano Cohn e Gastón Duprat

Nostalgia di Mario Martone

Una narrazione che il regista, da buon Virgilio, ha guidato tra le strade di Napoli, facendo emergere il lato più struggente dell’essere umano, la nostalgia. Uno stato d’animo letale come una lama affilata e sublime come una carezza materna, difficilissimo da raccontare. Martone riesce nell’impresa, con maestria, con abilità, oscillando tra le pagine del romanzo omonimo di Ermanno Rea fino a sfiorare la tragedia greca.

Narra della storia di Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) e Oreste (Tommaso Ragno); due uomini, protagonisti del film, che non hanno nulla in comune, se non la condivisione del passato, del ricordo e della nostalgia. Quel sentimento che Pasolini ricama attraverso i tratti della conoscenza e dello smarrimento, e che tutti noi viviamo quotidianamente, nella memoria dei nostri antenati, conosciuti e sconosciuti, fatta di sussurri ed echi, che affonda le radici, molto spesso, nella Terra di origine, nonostante lo spazio, il tempo e la distanza. “Chest è ‘a casa mia!”. Qui la recensione integrale.

Annamaria Martinisi

Nostalgia. Foto di Mario Spada
Nostalgia. Foto di Mario Spada

XA Sexy Horror Story di Ti West

L’estate 2022 si è consumata sotto al segno di Ti West e del suo X-A Sexy Horror Story, lungometraggio arrivato nelle nostre sale a luglio, e nel cui cast spicca una strabiliante Mia Goth, nel doppio ruolo di Maxine e di Pearl. Ambientato alla fine degli anni ’70, X è la storia di un gruppo di ragazzi che tenta di sbancare nel mondo dei film a luci rosse, ma che presto si trova a vivere all’interno di un vero e proprio incubo.

Proibito ma al contempo affascinante, innovativo e ambizioso, X è il comandamento di Ti West, un compendio del genere horror che fonde cliché a elementi di novità. Un lungometraggio che è un omaggio al cinema slasher anni ’70, ma è anche critica nuda e cruda a un sistema proibizionista, celato da una politica falsa e altamente corrotta, in un mondo in cui l’agognato American Dream è ormai smascherato. Qui la recensione integrale.

Rebecca Fulgosi

X - A Sexy Horror Story
X – A Sexy Horror Story di Ti West

Tár di Todd Field

Non ancora uscito in sala (è previsto per il 9 febbraio 2023) ma già avvolto da un fascino che si muove tra il morboso e il maestoso. La vita privata di una direttrice d’orchestra, Lydia Tár (Cate Blanchett), il suo passato, i suoi errori, le sue ossessioni, i suoi scontri, i suoi amori. È una danza ipnotica di quasi tre ore dove gli occhi sono consegnati al talento di cui dà sfoggio Cate Blanchett.

La sua parola vibra e ci rapisce, i suoi gesti sono formule magiche per ipnotizzarci. Una storia cruda, fatta di note strumentali ed emotive che si elevano dall’orchestra umana che orbita intorno a Lydia. Umanità e musica confluiscono in questo film e il loro ritratto è una poesia complessa e avviluppante. Un film per cui correre in sala appena uscirà.

Francesco Gianfelici

Tár di Todd Field

La Stranezza di Roberto Andò

Com’è possibile trovare fianco a fianco, sullo stesso schermo, nello stesso film, due comici da cabaret come Ficarra e Picone e un mostro sacro come Tony Servillo? Una stranezza, questa è l’unica spiegazione. Anzi, La Stranezza: ovvero il modo in cui Luigi Pirandello chiamava quell’idea che gli ha balenato in testa per anni, prima di diventare il capolavoro metateatrale intitolato Sei personaggi in cerca d’autore.

Ed è proprio su questa gestazione che Roberto Andò lavora da sceneggiatore e regista per realizzare un nuovo piccolo capolavoro nel quale la realtà e il teatro, la vita e la commedia non hanno pareti divisorie, ma solo un unico palcoscenico, quello cinematografico. Un palcoscenico magico, come il mondo siciliano in cui i personaggi s’intrecciano, in una stranezza che rende perfetto l’incontro tra la coppia comica e uno dei più grandi attori viventi. Qui la recensione integrale.

Alessio Tommasoli

La stranezza di Roberto Andò, 2022. Foto di Lia Pasqualino.

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