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NO ALPITOUR | La megalopoli padana di Gianni Celati

Gianni Celati

Più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagna dove si respira un’aria di solitudine urbana

Gianni Celati, da Verso la foce, Reportage per un amico fotografo, testo incluso nel catalogo della mostra Viaggio in Italia, 1984, a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati con gli Appunti – Viaggio in Italia di Arturo Carlo Quintavalle

Nel novembre del 2008 si inaugurava a Ferrara, nell’acuminato Palazzo dei Diamanti, un’importante mostra di Joseph Mallord William Turner intitolata Turner e l’Italia che riuniva per la prima volta insieme le opere che il celebre paesaggista romantico aveva dedicato al Bel Paese. Il pittore della luce idealmente legato al paese della luce, l’Italia, aveva visitato l’Adriatico, meta insolita per un Grand Tour: verso Comacchio, Rimini e poi giù fino ad Ancona, per scivolare infine su Roma.

La luce di Turner si mostra negli sprazzi di colore più astratti e confusi. Volendola prendere come tramite per legarlo a Gianni Celati, ricorda anche la capacità di Luigi Ghirri di rarefare la parte più impalpabile e fissa dei paesaggi: l’immagine ultima, come la chiamava James Hillman. Quella che ferma l’azione e uccide la foga consumistica che trasforma l’immagine in merce. L’immagine che placa, che ottunde, che trasogna. L’immagine che assorbe – e restituisce – luce. Sarà Luigi Ghirri a invitare l’amico Celati a corredare di un suo scritto il catalogo della mostra Viaggio in Italia, seminale lavoro del 1984 che rifonderà la fotografia di paesaggio (e di viaggio) italiana.

Questione di sguardo

Gianni Celati (1937 – 2022) figura poliedrica di artista dedito a tutto quello che è minore (come a fine Settecento era considerata minore la pittura di paesaggi e in parte lo è ancora) come scrittore, come docente, come critico, come narrattore, come regista (e in un certo senso anche come traduttore), è stato omaggiato alla passata edizione del Biografilm Festival di Bologna (10-20 giugno 2022) con una retrospettiva dei suoi lavori da documentarista e i lavori registici di cui è stato narrattore, più alcuni frammenti filmici rari e inediti. Verrà inoltre nuovamente omaggiato ad ottobre nella rassegna, sempre bolognese, Archivio Aperto, che si occupa principalmente di riscoprire patrimoni cinematografici inediti tra filmati amatoriali, privati e sperimentali, valori descrittivi perfetti per le opere di Celati.

La rassegna è per altro organizzata da Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia che ne era ente amico. Celati, prototipo del viaggiatore residente, era infatti di casa a Bologna, dove ha insegnato per anni letteratura inglese alla facoltà del Dams, così come a Ferrara (dov’era nata sua madre), a Sondrio (dov’era nato lui) e a Scandiano di Reggio Emilia (dov’era nato l’amico Ghirri): tutti posti fuori mano e sperduti, meglio se in pianura, lungo la Strada provinciale delle anime.

In questo viaggio che abbiamo fatto non abbiamo visto nulla di speciale, però non mi è dispiaciuto. Abbiamo visto tanti posti, e dappertutto ci sono tante case come qui, e dappertutto c’è tanta gente come noi

Strada provinciale delle anime di e con Gianni Celati, 1991

Strada provinciale delle anime è il primo film documentario di Gianni Celati dopo gli esperimenti girati nel ‘77 coi suoi studenti del Dams ed è il resoconto filmico di un viaggio organizzato “alternativo” perché il pullman di trenta turisti – tra cui parenti, amici, e compatrioti ferraresi, scandianesi e roncocesiesi di Celati (e Ghirri che fotograferà tutto) non viaggerà che per visitare i paesini e i paesaggi spopolati lungo la foce a delta del Po.

La strada provinciale (attributo che viene usato per definire la gente semplice, ma che a livello topografico – per il codice della strada – indica quelle strade gestite dalle province o dalle città metropolitane) delle anime esiste davvero, ma “non porta a un cimitero” come supponeva sconsolato un amico turista di Ghirri. Viaggia lungo la nebbia e i reticoli di campi e cemento, e smog e diserbanti, e gente, del Po. E non porta da nessuna parte.

Più dell’inquinamento del Po, degli alberi malati, delle puzze industriali, dello stato di abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, e infine d’un’edilizia fatta per domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione – più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un’aria di solitudine urbana

«Alla fine del viaggio c’era uno che si era ammalato, uno che si era innamorato, e uno che non voleva più tornare a casa. Allora siamo finiti in quella villa là […]. Di popolazioni invisibili l’una all’altra». Dice Celati, a inizio film, che ha percorso queste strade messe come a triangolo – seguendo il disegno del delta, delimitato dal mare – e illuminate dalla provinciale delle anime, durante l’inverno, ma voleva ripercorrerle in estate, con altre persone. E il documentario è il resoconto di questo viaggio estivo, non più in solitaria, ma “con altre persone”.

Un posto definitivo dove riposarsi – Spazio diffuso in ogni direzione

Il mondo di Luigi Ghirri di Gianni Celati, 1997, secondo lungometraggio di Gianni Celati è dedicato (come il primo) a Luigi Ghirri, l’amico scomparso improvvisamente nel 1992 poco dopo il completamento di Strada provinciale delle anime.

Il terzo lungometraggio di Gianni Celati è Case sparse. Visioni di case che crollano (2002), narrato dal critico d’arte inglese John Berger (1926-2017) che per decenni ha vissuto in un borgo sperduto sulle Alpi svizzere. Mi chiedo se forse il discrimine per capire se un posto è interessante è la percentuale di case vuote che possiede.

Ghirri, Celati, Berger e tutta la loro cerchia di viaggiatori residenti, viaggiatori immoderni.

Celati viveva da anni a Brighton, nel sud dell’Inghilterra, un’altra pianura vicino a un’altra costa, reticolato di un’altra megalopoli urbana, Londra.

Le opere di Celati, così come di tutti questi immoderni narratori di pianure come Ghirri, Cavazzoni, Benati, Sironi, lo scandianese Matteo Maria Boiardo o narratori di sguardi di pianura come John Berger, si mescolano all’altezza del 45° parallelo, che lega la Pianura Padana alla Mongolia. Chi conosce quantomeno la prima di esse sa che è popolata di persone genericamente definite “indiane” con una bonarietà dopotutto non razzista, che dicono di essersi trasferite qui perché “c’è lo stesso clima che da noi”, trovandosi entrambe intorno al 45° parallelo.

Il 45° parallelo

Sul 45° parallelo (1997) è il titolo del primo lungometraggio di Davide Ferrario di cui Gianni Celati è narrattore, sceneggiatore e protagonista, presentato anch’esso allo scorso Biografilm Festival. Protagonisti, insieme a Celati, altri viaggiatori immoderni come lui e come Ferrario con la sua troupe: Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, voce e chitarra del gruppo di “punk emiliano” CCCP che all’epoca del viaggio, per motivi strettamente storici, erano già CSI.

Una sua troupe li seguiva mentre Ferrario girava a Torino, con musiche dei CCCP e protagonista Valerio Mastandrea, Tutti giù per terra, dal romanzo di Giuseppe Culicchia, storia di un’altra solitudine urbana. Un reticolo di relazioni, amicizie, persone, cose, strade, tende, case. Tabula rasa elettrificata era l’album in questione dei CSI che contiene il brano Anime fiammeggianti, titolo di un film di Ferrario del 1994 con protagonista un altro narrattore solitario, Giuseppe Cederna.

E Ferrario intanto si sdoppiava tra Torino, una Mongolia virtuale e l’Emilia dove girava con Celati, che a differenza di Zamboni e Ferretti non era partito per la Mongolia (per una volta) ma era rimasto lì. Virtualmente è insieme a Giorgio Canali, seconda chitarra della band, annoiatissimo all’idea del viaggio: preferisce sorseggiare un drink ammollato in una piscina gonfiabile nel giardino della sua villa in rovina.

Reticolati di persone e di scelte.

Mondonuovo

Mondonuovo (2003) – dal nome di una frazione della provincia bolognese –  è il secondo lungometraggio che Davide Ferrario compone a partire dalla vita, dalle parole e dai gusti di Gianni Celati.

Celati narra il suo paese d’elezione, ripercorrendo i luoghi dove abitava la madre. Lo stile è il suo, nelle inquadrature, nel ritmo, nella pacata e ironica curiosità di indagare questo niente. E così ci si domanda: forse che Davide Ferrario ha girato Mondonuovo come lo avrebbe girato Celati? Certo, la narrazione filmica di Celati ha il grande pregio di non cambiare, forse persino di non evolvere, mentre Ferrario, da regista molto più prolifico, ha usato registri stilistici diversissimi tra loro e si è mosso agilmente tra finzione, documentario e film di montaggio.

In Mondonuovo come in Sul 45° parallelo si scorge una naturale convergenza su questo stile narrativo “emiliano” che anche Ferrario, nato a Casalmaggiore, in provincia di Cremona, utilizza da fautore, e in parte forse da vittima: come se certi luoghi potessero narrarsi solo così, o, come fa dire lui stesso in Dopo Mezzanotte (2004), a uno dei suoi personaggi: «forse sono i luoghi che raccontano le storie nel modo giusto». Battuta che assume maggior peso considerando anche che il film è girato all’interno del Museo del Cinema di Torino.

Questa convergenza emiliana che costringe a una narrazione celatiana, dilatata e cadenzata (musicalmente un liscio, anche se Celati non li usa quasi mai), inerziale, costante, come di qualcosa che deve muoversi lungo strade di pianura, senza l’attrito della salita, senza l’impeto della discesa, senza la costrizione di entrambe.

Anche in Mondonuovo ci si muove lungo il 45° parallelo che riaffiora come benevola ossessione quando si attraversa un altro territorio che ne è delimitato, come nella Romania de La strada di Levi (2005), documentario in cui Ferrario ripercorre i luoghi del ritorno a casa di Primo Levi da Auschwitz, narrati dallo scrittore ne La tregua.

Vediamo pianure inframezzate da brutte case e da brutte fabbriche, in uno squallore depresso (sotto il livello del mare) e asfissiante.

Lo scenario desolante, grigio, nebbioso del 45° parallelo diviene quello delle imprese italiane delocalizzate in Romania perché – dice il manager italiano esule o predatore: «nuovo millennio [vuol dire] nuovo orizzonte» ma l’orizzonte è pressoché invisibile, carico com’è di fumate tossiche possibili grazie a una pesante deregulation made in ex Urss. Americanizzazione totale.

La Romania come la Pianura Padana è costellata di campi coltivati e di petrolchimici.

E le schitarrate pesanti dei CSI sono molto meno rizomatiche e liberatorie delle urla mischiate alle batterie elettroniche dei CCCP. Segno dei tempi.

Questo paesaggio ti fa sentire quanto è ristretto un orizzonte, ogni orizzonte

Diol Kadd, 2007

L’ultimo documentario di Gianni Celati è l’unico a sfuggire, geograficamente, a questa narrazione padana e alla convergenza sul 45° parallelo.

Girato lungo l’arco di sette anni durante i tre lunghi soggiorni dello scrittore, con la sua troupe di professionisti-amici, nel villaggio senegalese di Diol Kadd. Poco distante in linea d’aria (qualche dozzina di chilometri) dalla moderna capitale di Dakar eppure già quel che basta per erigere un muro di rifrazione al tentativo di omologazione bianca sulla cultura tradizionale locale e al tentativo di impossessarsi dell’anima di un luogo per sostituirla con un manipolo di crimini e di scontrini.

Non è casuale l’utilizzo di un termine come anima, perché sembra che per tutto il documentario – il più lungo girato da Celati, un’ora e mezzo abbondante – l’autore non faccia che osservarla e parlarle.

Lo sguardo filmico del narrattore indugia sui corpi e sui volti degli e soprattutto delle abitanti del villaggio, seguendone le azioni quotidiane, cercando di coglierne, senza rubarle, le qualità intime in un dialogo costante con la macchina da presa, con lo spettatore, con sé, con la  troupe, con le narrattrici protagoniste.

Celati è a Diol Kaad ospite di Moussaka, un illuminato predicatore coranico/artista girovago, e dell’attore Mandiaye N’Diaye (1968-2014) che dal Teatro delle Albe ravennate torna con lui nel paese natale senegalese.

Il film si ricompone poi in un montaggio fragile ma con una struttura chiaramente rivolta verso un finale a partire dal lungo girato e dagli appunti che Celati ha preso durante i soggiorni e che diventeranno anche un libro, Passar la vita a Diol Kaad, Diari 2003-2006. Diol Kaad è probabilmente il film più positivo di Celati che mantiene il suo sguardo indolentemente estatico ma è forse caricato da una dose maggiore di meraviglia.

Bellissime le sequenze che partecipano agli spettacoli del villaggio: le danze erotiche e frenetiche delle donne (quando Celati si accorge che «volevano soprattutto ballare»), le teatralizzazioni di Moussaka, fino al rave che un dj di Dakar imbastisce grazie a un muro di casse acustiche degne di un club riminese ma di cui Celati impedisce di sentire il prodotto, sostituito invece da tamburi tradizionali e vociare. Scelte stilistiche.

Del resto le musiche di Celati sono estremamente pacate: moltissimo Bach e in Diol Kaad la musica è sempre tramite con l’anima, col divino, col sacro: anche le partiture vocali della mistica bassomedievale Ildegarda di Bingen, di cui occorrerebbe riprendere le parole, a chiusa di questo lungo excursus. Invece lasceremo spazio a un padano silenzio. 

Dove vivo ora, su 25 case circa, almeno 20 sono disabitate.

E a Diol Kaad Moussaka mette in scena lo spopolamento: i vecchi muoiono, i giovani emigrano. Cosa resta?“

Il mondo ci sembra avanzare verso qualche rovina e noi ci limitiamo a sperare che lavanzata sia lenta.”

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House of the Dragon | Appagare il nostro bisogno di draghi

House of the Dragon. HBO/2022 Home Box Office, Inc. All rights reserved. HBO® and all related programs are the property of Home Box Office, Inc.
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La sigla HBO su fondo nero provoca un brivido, è la stessa che ha anticipato ben 73 episodi di Game of Thrones e per quanto preceda tante altre serie la ricordiamo solo per quella creata da David Benioff e D. B. Weiss. Inizia con un breve assaggio dell’anno 101 lo spin-off House of the Dragon, precisamente quando dopo 6 decenni sul trono, il vecchio re, Jaehaerys Targaryen, si vede costretto ad optare per una scelta diversa dai suoi diretti discendenti e designare il sovrano successivo.

Un uomo e una donna sono le due scelte possibili: il cugino Viserys Targaryen, in procinto di diventare padre lui stesso, e la nipote, Rhaenys Targaryen. In questi pochi minuti la prima puntata di House of the Dragon setta la disposizione degli snodi fondamentali che si andranno a ripetere come leitmotiv frastornanti per le puntate successive. Ovvero che una donna non può salire sul trono di spade, proprio per questo i lord votano per l’ascesa di Viserys.

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Ma la voce narrante è proprio quella di una donna, Rhaenyra Targaryen, la figlia di Viserys, che da adulta racconta come in un flashback il passato della famiglia dei draghi, lo dice apertamente, quell’uomo dall’aspetto gentile affiancato da una donna dai capelli d’argento è suo padre. Lei è una delle protagoniste di House of the Dragon e il suo punto di vista, a quanto pare, è l’occhio che scruta oltre il passato e il presente, per riportare i sanguinari e opachi eventi di una dinastia arrivata fino a Daenerys, un’altra donna che avremmo voluto vedere sul trono di spade.

Molti anni prima dell’arrivo dell’inverno (quell’inverno): il primo episodio

Uno stemma dorato nel buio, una storia avvenuta ben 172 anni prima della morte del Re Folle e della nascita di Daenerys, sua figlia. Siamo al nono anno di regno del re Viserys Targaryen. House of the Dragon è la saga familiare dei Targaryen, ad Approdo del Re sventolano bandiere rosse e nere e Rhaenyra è poco più di una bambina. Cavalca un drago e sua madre aspetta un altro bambino, ovviamente il re confida in un maschio.

In poco più di un’ora non abbiamo un quadro completo, come in Game of Thrones l’inizio è una presentazione incerta di quello che potrebbe sembrare un Beautiful medievale con un tantino di fantasy, ma se GOT ha smentito questa prima impressione, confido che House of the Dragon possa fare lo stesso. Sesso e violenza, codici distintivi della serie originale, sono anche qui: avrete le vostre mutilazioni e i vostri bordelli ve lo assicuro, ma con un pizzico di maturità in più, soprattutto nella scrittura che è asciutta e precisa.

La famiglia Targaryen e i personaggi principali

Oltre al re Viserys (Paddy Considine), alla regina Aemma (Sian Brooke) e alla loro Rhaenyra (Emma D’Arcy), il nucleo Targaryen richiede all’appello anche l’elemento inquieto della famiglia, ovvero il fratello più giovane del re, Daemon Targaryen (Matt Smith). Abile guerriero ed esperto nel cavalcare draghi, adorato dalla nipote ma detestato dalla maggior parte del consiglio del re.

Immediatamente il personaggio più controverso e interessante, Daemon consuma i suoi dispiaceri in silenzio mentre all’esterno mostra violenza efferata. A contrastarlo più di chiunque altro è il Primo Cavaliere del re, Ser Otto Hightower (Rhys Ifans).

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Ovviamente senza dimenticare Rhaenys, denominata “Regina Che Non Fu Mai”, sposata con Lord Corlys Velaryon, che siede al Consiglio del re.

La storia si ripete

L’intero reame è in attesa del nuovo erede, dopotutto è il motivo per cui non abbiamo perso una puntata di GOT, quel bisogno di conoscere la risposta, come se Westeros fosse casa nostra e i giochi a cavallo il nostro passatempo. Ma se non fosse maschio? Avete già capito: la situazione di qualche anno prima si ripeterebbe. Solo che adesso i due discendenti sono zio e nipote.

SPOILER: Quel rapporto così tenero che rivela la vera vulnerabilità di Daemon verso la nipote Rhaenyra sarà il tesoro prezioso a rischio. Poiché l’erede sarà sì un maschio, ma morirà poco dopo la nascita, causando anche la morte della regina. Il re Viserys contribuirà a cambiare le cose? Assolutamente sì, la piccola verrà designata per il trono, in seguito all’ennesimo comportamento avventato di suo zio.

House of the Dragon inizia quindi appagando il nostro bisogno di draghi e ponendo una domanda a cui non c’è mai stata una risposta: sarà una principessa Targaryen a salire sul trono di spade?

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LASCIAMI TOCCARE LA MUSICA – Andare a un concerto senza vederlo

Concert Tickets by Rhys A.
Concert Tickets by Rhys A.

Non è retorica: per noi che abbiamo un deficit visivo, la musica ha un altro valore. Non nel senso che per un cieco o un ipovedente la musica sia più importante di quanto non lo sia per un normovedente (questa sì che sarebbe retorica), ma nel senso di un’importanza diversa. Soprattutto in un mondo come questo, dove la musica è sempre più legata a immagini e video che ormai, quasi sempre, ne mostrano il significato. O, almeno, il significato che si vuole evocare con quella musica. Perché un disabile della vista che ascolta una canzone, senza riuscire a vedere il suo video o le sue immagini, non perde qualcosa, ma trova qualcos’altro. Qualcosa di diverso, un significato diverso.

Sentire più che ascoltare

L’assenza di quelle immagini risveglia una forza che quello stesso suggerimento avrebbe assopito, la forza dell’immaginazione, capace di abbattere il senso comune e aprire altre immagini, spazi che per gli altri non esistono. È per questo che per la musica ciò che vale per tutta l’esistenza di un cieco o di un ipovedente: ed ecco che diverso vuol dire differente, originale, unico e sempre irripetibile. Una ricchezza rara, oltre la mancanza: per l’esistenza di un disabile della vista, questa coscienza vale per la musica, come può valere per ogni aspetto della sua vita.

Non so se sono il solo ad avere questa sensazione e se sia legata in qualche modo alla mia ipovedenza, ma a me la musica piace toccarla, sentirla oltre l’udito. Perché, in fondo, una canzone che scorre sul mio smartphone quando apro Spotify o YouTube, fugge via piatta, sostituita immediatamente da quella successiva, come entrasse da un orecchio ed uscisse dall’altro, senza lasciarmi nulla che sopravviva all’attimo in cui ha suonato.

Forse è per questo che continuo a comprare CD e ad aggiungere vinili all’enorme collezione ereditata da mio padre. Forse è per questo che continuo ad andare ai concerti. Perché, dopotutto, nonostante il palco abbia ormai una distanza incolmabile per i miei occhi, ai concerti la musica non è soltanto musica, ma un’esperienza di tutto il corpo, in cui gli occhi, davvero, servono a poco.

Così non importa se un concerto non costi meno di 80 euro e se tu sia distante un chilometro dal palco; non importa se per ottenere un biglietto per disabili ogni organizzatore abbia una politica differente, se alcuni non rispondano proprio e se chi risponde ti dia certezza di essere “eletto” solo poche ore prima dello spettacolo; non importa nemmeno se l’area accessibile sia pensata per i disabili in carrozzina con un visus di dieci decimi, data la distanza dal palco.

O forse invece importa, importa eccome. Perché ne risente l’esperienza di tutto il corpo, dei sensi, e quindi ne risente l’immaginazione: quella differenza all’improvviso non è più una ricchezza, ma diventa un peso, l’emozione si fa rabbia e cresce proporzionale all’idea di quanto poco sarebbe bastato perché quell’esperienza fosse stata indimenticabile.

A volte succede

Eppure a volte succede di vivere l’esperienza perfetta di un concerto. Ma succede quando meno te lo aspetti, quando ti hanno regalato il biglietto, per esempio, un biglietto qualunque, senza riduzioni particolari o biglietti gratuiti per accompagnatori, senza accessi ad aree disabili che, tanto, non distinguono tra una disabilità e l’altra. Un biglietto in mezzo alla folla, per ballare e saltare in mezzo a migliaia di persone, come non succedeva da tre anni, ormai, a un chilometro dal palco, ma con degli schermi alti e grandi che riprendono ogni gesto di chi suona, per tre ore consecutive.

Ecco dove la musica è veramente accessibile: era il 24 giugno di quest’anno, Autodromo di Imola, concerto dei Pearl Jam. Ve l’ho raccontato poco tempo fa, proprio su qui su FRAMED. Ma vi dirò di più: potevo chiudere gli occhi e smettere di guardare anche quel poco che riuscivo a vedere intorno a me, era lo stesso, tanto gli occhi non servivano più del resto del corpo. Era la musica, era lì e la stavo ascoltando, annusando, assaporando: la stavo toccando, come piace a me.

A volte succede solo in Italia

E suona strano che questa esperienza perfetta sia accaduta in Italia. Non in Olanda, per esempio, dove pure ho assistito in questa stessa estate a un concerto incredibile, quello dei Rammstein. Vi ho già raccontato anche questo (qui). Vi ho detto delle scenografie, delle luci, dei fuochi artificiali, dei fumi, dei razzi e degli incendi di questa band che ti travolge fisicamente, rapendo tutto il corpo, i sensi. Eppure, anche se li c’era molto di più di quanto non ci fosse in Italia, mancava qualcosa. Qualcosa che Imola e Roma invece avevano: il calore della gente, l’abbandonarsi dei corpi alle vibrazioni che li congiungono l’uno all’altro e, insieme, a ciò che li circonda, facendoli entrare dentro la musica, per toccarla ed esserne parte.

E forse è proprio questa la vera accessibilità in un concerto: non tanto i percorsi dedicati, gli spazi riservati, gli schermi immensi o la vicinanza al palco, ma l’atmosfera umana.

Perché ognuno è differente dall’altro, ma tutti ci assomigliamo: chi è disabile coglie meglio di chiunque altro le differenze, ma può anche capire meglio quanto siamo simili. Come disse un giorno uno che di musica qualcosa ci capiva: “Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di assomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente” (Fabrizio De André).

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Qui l’intervista ad Alessio Tommasoli a proposito del suo podcast UN IPOVEDENTE A ROMA.

HBO svela il teaser trailer di The last of us

The last of us

Nelle ultime ore HBO ha rilasciato il trailer di The last of us, per la quale era già stato confermato definitivamente il cast completo. La serie sarà composta da 10 episodi da circa un’ora ciascuno e avrà a disposizione un budget superiore a quello di Game of Thrones (più di 100 milioni di dollari).

Ambientata in un mondo post apocalittico invaso da zombie (ne parlavamo più approfonditamente qui), è scritta dallo stesso Neil Druckmann e dal creatore di Chernobyl, Craig Mazin.

The last of us: Ellie e Joel

Come già sapevamo, Joel Miller, il protagonista del primo capitolo con il compito di proteggere la giovane Ellie nella speranza di trovare una cura, avrà il volto di Pedro Pascal. Protagonista nei panni di Din Dajarin nella serie tv The Mandalorian ma noto anche per i ruoli in Narcos e Game of Thrones.

Mentre il ruolo di Ellie sarà ricoperto da Bella Ramsey, famosa per aver interpretato Lyanna Mormont anche lei nella nota serie HBO.

Tommy e Tess

Ad interpretare invece il ruolo di Tommy Miller, fratello di Joel, sarà Diego Luna. Vincitore nel 2001 del Premio Marcello Mastroianni alla 58ª a Venezia per Anche tua madre, ma noto al grande pubblico per le sue interpretazioni in Rogue One e la serie tv Narcos: Messico.

Nel ruolo della di Tess, amica di Joel e venditrice di armi nel mercato nero, che nel videogioco ricopriva un ruolo centrale soprattutto nelle prima parte, ritroveremo invece Anna Torv, già nel ruolo di Olivia Dunham in Fringe ma soprattutto di Wendy Carr in Mindhunter.

Bill e Marlene

Con O’Neill invece sarà invece Bill, amico di Joel e Tess che vive in una piccola cittadina a nord di Boston. L’attore è noto principalmente per aver interpretato Viktor Petrovič Brjuchanov, direttore della centrale elettrica nucleare nella serie Cernobyl.

Marlene, il capo del gruppo delle Luci che affida Ellie a Joel sarà invece affidato a Merle Dandridge, attrice che ha ricoperto ruoli in The Flight Attendant e Sons of Anarchy, e che nel videogioco aveva dato la voce allo stesso personaggio.

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Squid Game – Il gioco mortale della società e lo spettacolo del Potere

Squid Game. Netflix

Con i suoi nove episodi scritti e diretti da Hwang Dong-hyuk, la sudcoreana Squid Game è stata il caso seriale di fine 2021. Vuoi per i record comunicati da Netflix (142 milioni di visualizzazioni per 1,65 miliardi di ore nel primo mese sulla piattaforma), vuoi per l’impatto sull’immaginario, anche da noi. Tra termini come “gganbu” entrati nelle conversazioni, casi di emulazione tra i ragazzini e relative (deliranti) polemiche sui presunti effetti diseducativi di una serie peraltro VM14. Ma ciò che ha rischiato e rischia di sbiadire, dietro il clamore di annunci e notizie, è il dato più importante. Ovvero che Squid Game, oggi pluricandidata agli Emmy, è una grande serie, tra le migliori dell’anno trascorso.

Squid Game non ripropone semplicemente il topos

Poteva essere la riproposizione (ennesima, stanca) di un topos di successo diventato cliché (da Battle Royale a Hunger Games), quello del torneo crudele per la sopravvivenza tra concorrenti-vittime del sistema. Così non è stato. E la storia dell’indebitato Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) e degli altri, disperati concorrenti dei giochi infantili a eliminazione fisica per il sollazzo dei più ricchi (in palio 45 miliardi di won) si è rivelato un’allegoria tra le più lucide della società odierna. Quella dell’ipercapitalismo finanziario globale, fondato sull’onnipotenza del profitto di pochi e su una libertà che per molti è mera illusione. Vedere, per credere, uno degli episodi più brillanti, il secondo, tutto incentrato sul dilemma dei protagonisti se proseguire o meno la partita.

Così, la trasfigurazione dei tradizionali divertimenti per bambini in macchine di morte (anche in massa) restituisce con efficacia rara il doppio volto del mondo (reale) costruito negli ultimi decenni. Dove il blocco, o la regressione, del pensiero critico dei popoli allo stadio infantile va a braccetto con la competitività esasperata che impone l’azzeramento dell’empatia. E la sopravvivenza di brandelli di quest’ultima (pensiamo all’episodio 6 o al finale) è forse la vera posta in gioco dell’intera vicenda.

Squid Game. Netflix

Ciò che è necessario sapere

Ma non è solo il messaggio politico o la riflessione sull’animo umano a fare la forza di Squid Game, che rende il pubblico complice del macabro spettacolo lavorando sulla propria stessa ambiguità. L’ambiguità delle tecniche narrative tipiche di ogni (buona) serie, tra plot-twist, personaggi vivi che rivelano progressive sfaccettature, bivi narrativi che costringono a decisioni fatali. Ma, soprattutto, l’ambiguità di un’estetica straniante e rigorosa. Fatta di maschere, uniformi, coreografie sospese kubrickianamente tra ordine e caos, labirinti di scale dove i colori da ludoteca si sporcano di sangue. Lo show è (anche) per noi, respinti e sedotti, e ci costringe a riflettere sul nostro guardare (e sul nostro essere) nel presente. Un presente dove il Potere non è mai stato così tanto fondato sulla rappresentazione.

La cerimonia degli Emmy si svolgerà il 12 settembre 2022. Continua a seguire FRAMED per aggiornamenti sulle serie TV nominate. Siamo anche su InstagramFacebook e Telegram!

Peaky Blinders: 10 brani della serie da riascoltare

Peaky Blinders musica

C’è chi è in lutto per la fine di Peaky Blinders e chi mente. La lenta discesa all’inferno della Shelby Company Ltd era inevitabile, così come il buco nero cosmico che la conclusione di questa serie ha lasciato. Per evitare di sopperire a questa mancanza iniziando a commerciare oppio di contrabbando, resta soltanto un modo per essere sicuri di non farsela passare mai più: ascoltare alla nausea i dieci brani più iconici della serie, by order of the Peaky fucking Blinders. 

1. Lazarus – David Bowie (S3E5)

Struggente testamento artistico di Bowie, che ha lasciato un’ultima, indelebile, impronta nella storia della musica. Magistrale uso dei sassofoni come suono della malattia, che accompagnano un Tommy Shelby su un letto di ospedale, scampato alla morte per l’ennesima volta.

2. All the tired horses – Lina O’Neill (S6E6)

Una versione malinconica, quasi sinistra della ballata folk di Bob Dylan targata 1970. La cover di Lina O’Neill dà un senso diverso: addio alla tonalità maggiore e alla ritmica folk, tutto si spalma nel tempo e nello spazio, si espande. Crea un ambiente sonoro oscuro e cullante, che accompagna il finale di stagione e la fuga eterna di Tommy per le verdi colline, mentre tutto quello che c’è stato diventa cenere. 

3. You want it darker – Leonard Cohen (S3E5)

Le atmosfere rarefatte, oscure, mistiche di Cohen ben si sposano con l’anima gipsy della famiglia Shelby, tra sedute spiritiche, amuleti e Madonne nere. La spiritualità intima del testo – colmo di riferimenti e citazioni bibliche – si scontra con le immagini a cui è abbinata: il sesso violento, immorale, doloroso di Tommy e la principessa Tatiana Petrovna, il sacro e il profano al suo culmine. 

4. Danny Boy – Johnny Cash (S2E1)

Un Johnny Cash prossimo alla vecchiaia, già tormentato da malattie e dipendenze che racconta la morte come soltanto lui ha saputo fare. La voce stanca, tremante è quella di un uomo che ha vissuto a mille e ora fa i conti con la sua mortalità, con i limiti del corpo, proprio come il nostro Tommy. Con i suoi fantasmi del passato, la lunga linea di suicidi, il senso di colpa da cui fuggirà in eterno. 

5. Kill them with kindness – IDLES (S6E3)

Poche cose fanno pensare a dei gangster incazzati con lamette e pistole cariche come le distorsioni e le chitarre brutte, cattive e inglesi degli IDLES. Il terzo episodio della sesta stagione è emotivamente devastante – chi lo ha visto, lo sa bene –  ma la camminata di Arthur, con i boys verso il prossimo bagno di sangue scandita da questo brano, è un tocco di classe. 

6. Disorder – Joy Division (S6E1)

Non si può comprendere l’animo tormentato e profondo di Ian Curtis senza conoscere a fondo questo brano. Nel testo c’è il grido di chi nella vita, di pace, ne ha avuta poca, e continua a cercarla. Nel minimalismo e la ricorrenza delle forme musicali, una dolorosa rassegnazione. Disorder esce nel 1979 e Ian si sarebbe ucciso soltanto un anno più tardi, alle soglie del nuovo decennio, a 23 anni. 

7. Black Velvet Band – Canzone tradizionale irlandese (S1E2)

Una malinconica canzone tradizionale irlandese per una delle scene più iconiche della serie. Nel silenzio del Garrison Pub, Grace in piedi sulla sedia che canta quasi sottovoce di fronte ad un Tommy abbandonato sulla sedia, stanco e improvvisamente innamorato.

8. Pyramid Song – Radiohead (S4E6)

Brillante utilizzo di questo brano dei Radiohead, non semplice da abbinare all’azione. La scelta è quella di lasciarlo per intero, a mo’ di videoclip. Thom Yorke canta un po’ la sofferenza di tutti, con la sua vocalità lamentosa, al limite del pianto. Questa volta, sembra proprio cantare quella di Tommy in preda all’alcol, alla rabbia e alla sindrome da stress post traumatico. 

9. In this heart – Sinéad O’ Connor (S6E4)

La fiabesca vocalità di Sinéad O’ Connor a cappella per questa dolce ninna nanna che accompagna il momento di dolore muto, quasi sacrale del funerale di Ruby. L’assoluto minimalismo della voce, sorretta soltanto da un coro maschile fa eco al corteo funebre silenzioso, il carro con i cavalli, i visi silenziosamente contorti di Tommy e Lizzy e tutta la famiglia a seguito.

10. Red Right HandNick Cave & The Bad Seeds (S1 – S5)

Icona indiscussa della serie, personificazione sonora di Tommy e la famiglia Shelby tutta, questo brano di Nick Cave è l’enigmatico racconto dell’uomo dalla mano destra rossa. Un pezzo sospeso nel tempo, che parla di ieri e di oggi: dal poema di John Milton del 1600 a cui si è ispirato Cave, alla Birmingham post prima guerra mondiale sembra non essere passato un secondo.

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L’addio dei Peaky Blinders

Peaky Blinders
Credit: BBC/Netflix

Il suono di un grilletto premuto a vuoto anticipa di pochi istanti l’immagine di Thomas Shelby con la pistola ancora piantata alla tempia, come l’avevamo lasciato nell’episodio finale della quinta stagione. Inseguiva la morte per potersi riunire, in quegli attimi di dolore allucinogeno, all’immagine e al corpo di Grace. Inseguiva la morte per liberarsi dei tanti, troppi fantasmi, che avevano affollato la sua mente fino a quel momento e per tornare all’unico di cui sentiva ancora la mancanza, quello della prima e forse unica donna che avesse mai amato.

Il suono di un grilletto, dicevamo, rivela già la sua decisione. Gli occhi celesti e vuoti sono già da un’altra parte, anche se in canna non c’è nemmeno un proiettile.

«Non hai controllato la tua arma. Non sei più un soldato, sei un codardo. Ti ho sentito premere il grilletto. Avresti lasciato la tua famiglia senza neanche un addio. Se ti serve ancora una via di fuga, eccotene sei».

Così Elizabeth, avanzando nel fango in cui si è lasciato affondare Tommy, getta con disprezzo a terra i proiettili che mancano dall’arma, dando inizio alla stagione dello straordinario addio dei Peaky Blinders, quella in cui la morte è assoluta protagonista, evocata, temuta, desiderata e inferta.

In loving memory

La prima morte e la prima assenza è quella inevitabile di Helen McCrory, la nostra Polly Gray, personaggio amatissimo della serie, uscito di scena a causa della prematura scomparsa dell’attrice. Un vuoto enorme, che tuttavia non viene soltanto inserito nella storia ma ne diventa una linea direttrice essenziale. È ciò che muove la rabbia e la vendetta di Michael nei confronti di Tommy, ciò che dà una spinta in più alla debole sottotrama del terrorismo irlandese, ciò che annebbia il giudizio e le azioni di Arthur e infine ciò che spinge Tommy a diventare altro da ciò che il pubblico è abituato a vedere.

Il lutto trasforma ogni altro personaggio, così come ha trasformato l’equilibrio di un progetto costruito in quasi dieci anni di lavoro. Risuona anche nel silenzio di una serie che ha fatto invece della musica uno dei suoi punti di forza. Non sentirete mai riecheggiare per intero la Red Right Hand negli ultimi sei episodi, come se mancasse qualcosa, un pezzo fondamentale di cui è giusto sentire anche la profondità del vuoto che lascia.

Cavalli e zaffiri blu

Quella dei Peaky Blinders sembrava un’ascesa infinita. Ogni stagione contro un nemico diverso e sempre più in alto, fino ad arrivare all’interno di Westminster e persino al di là dell’Oceano. Scopriamo con sorpresa e con piacere, però, che la fine coincide con l’inizio, in un cerchio quasi perfetto in cui i Peaky Blinders cercano di riconoscere il proprio riflesso, nonostante la vita e il denaro li abbiano trasformati.

Precipitandosi, ognuno a suo modo, verso il desiderio di morte i protagonisti riemergono più forti e definiti che nelle altre stagioni. Arthur si annienta e svanisce, come mai aveva fatto prima, per poi riprendersi il finale glorioso che merita, in una scena di bruma notturna e brividi, che rimarrà nella storia della serie.

Ada raggiunge l’apice del suo percorso assorbendo l’eredità di Polly, senza cercare di emularla. Ne è l’erede diretta, per spirito, umorismo e carattere, da sempre.

Thomas torna a credere negli zaffiri blu, nelle Madonne nere e nelle vecchie maledizioni. Sgretola pezzo dopo pezzo il suo impero, riavvicinandosi a ogni passo alla radice del suo essere. Un oscuro presagio lo convince a dare il suo addio a ogni cosa e ogni persona, per poi riscoprirsi ancora una volta più potente da solo, libero e selvaggio sul dorso nudo di un cavallo.

L’undicesima ora

La sesta stagione di Peaky Blinders è la stagione della redenzione che arriva all’eleventh hour, come dice Tommy, quell’undicesima ora traducibile come all’ultimo momento.

È una stagione di confronti continui dei personaggi, fra loro e con loro stessi, che non fa sentire la mancanza di una trama più fitta (considerando anche l’odioso piattume del Mosley di Sam Claflin). La riassume bene quell’ultima immagine del caravan in fiamme, funerale solitario di un uomo che non esiste più, che è già fuggito altrove, anche via da noi.

Alla famiglia. A volte rifugio dalla tempesta, a volte la tempesta stessa.

Thomas Shelby, 6×06

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Mercoledì | La famiglia Addams cambia rotta

Wednesday. Jenna Ortega as Wednesday Addams in Wednesday. Cr. Matthias Clamer/Netflix © 2022
Mercoledì/Wednesday. Jenna Ortega as Wednesday Addams in Wednesday. Cr. Matthias Clamer/Netflix © 2022

Già da qualche mese si parlava della nuova serie Netflix, firmata da Tim Burton, dedicata alla piccola della famiglia Addams: Mercoledì. Finalmente è disponibile il trailer ufficiale, che preannuncia un’uscita autunnale (magari ad Halloween?) ancora senza data precisa.

Mentre iniziamo a farci mille idee su come potrà essere Mercoledì, e non solo per il riadattamento della protagonista che abbiamo imparato a conoscere attraverso i film, e l’interpretazione di Christina Ricci, ma soprattutto per il debutto del regista in una serie live action, le prime immagini ci suggeriscono la prima rivoluzionaria verità: la famiglia dark più amata della storia sarà al centro di una narrazione prettamente teen.

Un racconto a misura di teenager (con la passione per la violenza)

A partire dal titolo, la protagonista sarà ovviamente Mercoledì, e tutta la serie sembra settata a sua misura: i genitori e gli altri personaggi, seppur esilaranti ed iconici, verranno forse messi leggermente da parte per approfondire un susseguirsi di oscure avventure mai raccontate prima.

Per quanto i due film, dopo l’esordio su carta negli anni ’30 e la serie degli anni ’60, costituiscano l’apoteosi mainstream di una formula vincente, fatta di ironia ed elementi macabri e gotici, la vita dei due figli di Morticia e Gomez non è mai stata affrontata nel dettaglio. E con dei toni tipici del mistery.

Netflix punta tutto sull’intrattenimento young adult

La problematicità di Mercoledì, inserita in un contesto liceale, è materia interessante da affrontare, specialmente in seguito all’ondata di serie Netflix che si concentrano su questioni simili. Il filone young adult attira anche lo spettatore più impensabile, basta considerare il successo della recente terza stagione di Never Have I Ever, o della devozione post 90s alla serie, purtroppo conclusa bruscamente, Le terrificanti avventure di Sabrina, nonché alla sua “cuginetta” Riverdale. Come nelle ultime due, cottarelle e compiti in classe non bastano e ciò che serve è una protagonista che abbia un paio (o più) di vere motivazioni per farsi definire una freak dai suoi compagni.

Qui infatti Tim Burton si concentrerà sull’arrivo della ragazza nell’ennesima nuova scuola, dopo espulsioni ed “incidenti” nelle altre, con la differenza che la Nevermore Academy custodisce più di un mistero.

Non solo nuove amicizie e disagi adolescenziali in Mercoledì, ma la sua esperienza come studentessa presso la Nevermore Academy, attraverso i tentativi di controllare i suoi poteri paranormali, fino a sventare una mostruosa serie di omicidi che terrorizzano la comunità locale e di risolvere il mistero che ha coinvolto i suoi genitori 25 anni prima.

Vi ho convinto?

Nel ruolo della protagonista Mercoledì Addams ci sarà Jenna Ortega, affiancata da Gwendoline Christie (preside Larissa Weems), Jamie McShane (Sheriff Galpin), Percy Hynes White (Xavier Thorpe), Hunter Doohan (Tyler Galpin), Emma Myers (Enid Sinclair), Joy Sunday (Bianca Barclay), Naomi J Ogawa (Yoko Tanaka), Moosa Mostafa (Eugene Ottinger), Georgie Farmer (Ajax Petropolus), Riki Lindhome (Dr.ssa Valerie Kinbott), e Christina Ricci (Marilyn Thornhill).

A interpretare gli altri membri della famiglia Addams, saranno invece Catherine Zeta-Jones (Morticia Addams), Luis Guzmán (Gomez Addams) e Isaac Ordonez (Pugsley Addams).

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Elvis | Dove Baz Luhrmann fallisce, Austin Butler risplende

Elvis © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved
Elvis © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. Photo Credit: Courtesy of Warner Bros. Picture

Elvis di Baz Luhrmann è un biopic caotico e vorticoso, sputa in faccia con un montaggio serratissimo eventi, situazioni, emozioni, delusioni, con la velocità incauta di una mitragliatrice. In pieno stile Luhrmann, con la mano più calcata del solito, è un turbine di musica e avvolgente confusione: solo quando la giostra si arresta, su quello che è l’interprete più azzeccato per quel ruolo, capisco perché era necessario perdere la bussola nel circo di Baz, solo per poi ritrovarla nella timida nostalgia di quel volto scolpito dal make up e dai lustrini, ma sotto capace di restituire tutta la vita del Re, quella più silenziosa.

La sfida di Luhrmann

Baz Luhrmann torna a distanza di nove anni da Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 2013), presenta Elvis il 25 maggio 2022, in anteprima mondiale Fuori Concorso al Festival di Cannes: un film biografico in cui la ricostruzione cinematografica si confonde con il gusto del musical di Broadway, l’arte dello spettacolo, quello vero, che inebria e stordisce, a discapito dell’intensità narrativa più che di quella scenografica.

Il suo film, della durata di oltre due ore e mezzo, brilla di momenti di pura estasi visiva (e visionaria), ma preme sotto al peso di una regia e di un montaggio al limite dell’esibizionismo, quella commovente verità. La stessa delle sovrapposizioni tra immagini di repertorio e ricostruzioni perfette nei minimi dettagli. La verità dell’infanzia del cantante originario del Mississippi, che leggeva fumetti e voleva diventare l’eroe della sua storia.

Elvis © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. Photo Credit: Courtesy of Warner Bros. Picture

E dove la scelta del protagonista ricade su Austin Butler, che ne riempie gli abiti e le sensazioni, quella del coprotagonista (già, non è un film “solo” su Elvis) è forse la più sbagliata che potesse prendere. Purtroppo Elvis non si concentra solo su un uomo, ma gli fornisce una controparte invadente: il suo manager, il Colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks.

Narratore ambiguo di tutto il film, il Colonnello ci racconta di Elvis, sì, ma più che altro descrive il loro rapporto nell’arco di vent’anni, tra altissimi e bassissimi, diventando il giostraio Mangiafuoco nella vita del ragazzo che non sapeva di volere tutto quel successo. Coerente con la visione di meta-spettacolo tanto cara a Luhrmann, stona invece con la credibilità dell’opera stessa. Il trucco prostetico e i continui ammiccamenti da personaggio sopra le righe fanno rimuginare sull’obiettivo primario dell’impatto voluto dal regista.

Il suo punto di vista offusca la storia, rispettando quell’idea iniziale secondo cui dovesse essere lui il vero protagonista (evidentemente ammorbidita nella realizzazione finale).

Elvis © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. Photo Credit: Courtesy of Warner Bros. Picture

Austin Butler e la voce che accende Elvis

Ma come in un’opera doppia, in Elvis quello spettacolo incarnato dal Colonnello, dal rumore e dall’intrattenimento pieno degli spettacoli stremanti e di casinò chiassosi, si scioglie di fronte all’interpretazione di Austin Butler. I suoi occhi, le sue labbra, la sua voce, sono l’anima di tutto il film. La poesia malinconica di una vita dove il bisogno di emergere e la paura di fallire si incontrano e si combattono fino all’epilogo, questa è ciò che l’attore ci dona dall’inizio alla fine (struggente).

Pronunciando ogni parola con uno strettissimo e ipnotico accento, provoca in chi guarda un’adesione totale alla sensualità di quella voce. Nelle performance del giovane Elvis la voce è proprio quella dell’attore, mentre nelle esibizioni da adulto è stata mixata a quella del vero Elvis.

Come durante i celebri concerti dove orde di donne adoranti perdevano la testa buttandosi ai suoi piedi, vi ritroverete a bocca aperta quasi sotto ipnosi in ogni sua singola esibizione. Fino alla conclusiva, dove la bellezza del Re si perde nei ricordi e nelle copertine delle riviste e rimane solo il ritmo nudo, di un addio straziante.

Il magnetismo di Butler è il diamante grezzo da scovare sotto alla struttura barocca, è il volto di quella musica nata dal rapporto con musicisti come  B.B. King, dai cantanti afroamericani a cui è legato. Quel volto ridefinisce il film di Luhrmann e lo rende imperdibile.

Elvis © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. Photo Credit: Courtesy of Warner Bros. Picture

In breve

Sotto allo spettacolo sfarzoso costruito da Luhrmann, così caotico da fagocitare anche la storia stessa, risplende l’interpretazione di un protagonista, Austin Butler, che da solo porta avanti il film, contrapponendosi al suo “compagno di avventure”, il Colonnello/Tom Hanks, la scelta più rischiosa che il regista potesse prendere. Vale la pena guardare Elvis per le esibizioni ipnotiche e per quel non detto fatto di depressione ed insoddisfazione, successo sfrenato e solitudine, raccontato da Butler attraverso la musica del Re.

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